Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 giugno 2021, n. 17991

Rapporto di lavoro, Personale ATA, Riconoscimento a fini
giuridici ed economici dell’intera anzianità di servizio maturata presso l’ente
locale di provenienza

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Bologna, giudice del rinvio
a seguito della sentenza di questa Corte n. 12043/2012, ha riformato la
sentenza con la quale il Tribunale di Vicenza aveva accolto il ricorso proposto
da M.R.M., appartenente al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario
della scuola (ATA), ed aveva dichiarato il diritto della stessa ex art. 8, comma 2, della legge n.
124/1999 al riconoscimento a fini giuridici ed economici dell’intera
anzianità di servizio maturata presso l’ente locale di provenienza,
condannando, di conseguenza, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca al pagamento delle differenze retributive con decorrenza dal
gennaio 2000;

2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di
causa, ha premesso che la sentenza rescindente, con la quale era stata cassata
la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che aveva rigettato le domande,
aveva demandato al giudice del rinvio di accertare se al momento del passaggio
dall’ente locale allo Stato si fosse verificata una riduzione sostanziale del
trattamento retributivo ed aveva precisato che il confronto doveva essere
globale, cioè non limitato ad uno specifico istituto, e che non potevano
assumere rilievo eventuali disparità di trattamento con i lavoratori già in
servizio presso il cessionario;

3. la Corte bolognese ha rilevato che con gli
originari ricorsi introduttivi la causa petendi
dell’azione era stata individuata nel mancato riconoscimento integrale
dell’anzianità di servizio e nessuna censura era stata mossa alla
quantificazione dell’assegno ad personam, effettuata
sulla base di quanto previsto dall’art. 3 dell’Accordo ARAN del 20.7.2000;

4. solo nell’atto di riassunzione la ricorrente
aveva dedotto di avere subito un peggioramento sostanziale, perché
l’amministrazione non aveva tenuto conto di istituti contrattuali previsti per
il personale del comparto enti locali e non aveva incluso nella base di calcolo
dell’assegno le somme corrisposte ai dipendenti a titolo di premio di produzione
e indennità di rischio;

5. il giudice del rinvio ha ritenuto tardive dette
allegazioni ed ha precisato che la direttiva
77/187/CEE non poteva essere invocata per ottenere il miglioramento
retributivo derivante dalla combinazione della pregressa anzianità raggiunta
presso l’ente di provenienza ed il diverso sistema contrattuale in tema di
progressione retributiva applicato dall’ente di destinazione;

6. ha aggiunto che sulla base delle originarie
allegazioni doveva essere escluso il peggioramento retributivo sostanziale
perché grazie all’assegno ad personam non era stato
violato il principio dell’irriducibilità della retribuzione;

7. per la cassazione della sentenza hanno proposto
ricorso i litisconsorti indicati in epigrafe sulla base di quattordici motivi,
illustrati da memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., ai quali il MIUR ha opposto difese con
controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc.
civ., la violazione degli artt. 384 e 437 cod. proc. civ., ed
addebita alla Corte territoriale di essersi sottratta al «duplice dictum» della sentenza rescindente, con la quale era stato
demandato al giudice del rinvio di accertare se la legge
n. 266/2005 fosse stata applicata in modo da salvaguardare il trattamento
economico complessivo maturato nel 1999 ed era stato precisato anche che, in
caso di violazione del divieto di reformatio in peius, la Corte d’appello avrebbe dovuto applicare, ai fini
dell’inquadramento, l’art. 8
della legge n. 124/1999;

la ricorrente evidenzia che la sentenza della Corte
di Giustizia era intervenuta quando già la causa era pendente e, pertanto, il
giudice avrebbe dovuto anche d’ufficio accertare se ci fosse stato un
peggioramento retributivo non consentito dalla direttiva;

2. la violazione dell’art.
437 cod. proc. civ. è denunciata, sotto altro
profilo, con la seconda censura con la quale si sostiene che, contrariamente a
quanto asserito dalla Corte territoriale, nell’atto introduttivo del giudizio
di primo grado era stata allegata la riduzione del trattamento retributivo
rispetto a quello goduto nell’anno 1999 ed era stata domandata anche la
conservazione di tutti i diritti economici e giuridici maturati;

la ricorrente ribadisce, inoltre, che il divieto di
nova in appello non può operare in presenza di uno ius
superveniens incidente sulla posizione delle parti e
sulle loro pretese;

3. la terza critica addebita al giudice del rinvio
«error in procedendo nella interpretazione delle domande promosse nei ricorsi 414 c.p.c, violazione
degli artt. 1362 e 1363
del c.c.» perché il peggioramento retributivo era stato dedotto già
nell’originario atto introduttivo del giudizio e con il ricorso in riassunzione
non era stato formulato un diverso petitum, ossa la
rideterminazione dell’assegno ad personam, bensì era
stato chiesto di considerare il premio incentivante e l’indennità di rischio ai
fini della determinazione della fascia di inquadramento;

4. il quarto motivo, formulato ai sensi dei nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia la mancanza assoluta di
motivazione nonché la violazione degli artt. 132
cod. proc. civ. e 111
Cost.;

la ricorrente deduce che la Corte territoriale non
ha spiegato le ragioni per le quali ha respinto la domanda di inquadramento
formulata con il ricorso in riassunzione e ribadiscono che, una volta
effettuata la comparazione tenendo conto anche del premio incentivante e
dell’indennità di rischio, in caso di accertato peggioramento andava applicato
il criterio dell’anzianità;

5. l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio,
rilevante ex art. 360 n. 5 cod. proc.
civ., nonché la violazione dell’art.
1, co. 218 L. 266/2005 e dell’art.
8 L. 124/1999 e della Direttiva 77/187,
sono denunciati con il quinto motivo con il quale si sostiene che la mancata
considerazione del premio incentivante ha determinato la violazione delle norme
richiamate negli altri motivi ed ha impedito la conservazione del trattamento
economico complessivo goduto in precedenza;

6. considerazioni analoghe a quelle sopra riassunte
la ricorrente svolge nel sesto motivo, intitolato «violazione dell’art. 1 della legge n. 266/2005»,
con il quale si insiste nel sostenere che la Corte d’Appello avrebbe dovuto
accertare la classe stipendiale di inquadramento tenendo conto di tutte le voci
retributive dell’anno 1999;

7. la settima censura torna a denunciare la violazione
dell’art. 1 della legge n. 266/2005
unitamente alla violazione dell’art. 437 cod. proc. civ., del principio di non contestazione dell’art. 115 cod. proc. civ.
perché il Ministero non aveva mai specificamente contestato i conteggi che
evidenziavano il peggioramento retributivo derivato dall’omessa valutazione, in
sede di inquadramento, del compenso incentivante e dell’indennità di rischio;

al riguardo, infatti, il resistente si era limitato
a sostenere che al momento del passaggio erano state considerate tutte le voci
contrattuali previste dall’accordo ARAN dell’anno 2000;

8. con l’ottavo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc.
civ., omessa pronuncia e violazione dell’art.
112 cod. proc. civ. in relazione ai motivi 3, 4 e
5 dell’atto di riassunzione, con i quali era stata domandata la disapplicazione
della legge n. 266/2005 per violazione degli artt. 47 e 52 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea;

9. la nona censura addebita alla sentenza impugnata
la violazione dell’art. 6 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ( CEDU) e dell’art. 1 del protocollo 1 alla
stessa allegato nonché degli artt.
47 e 52, n. 3, della Carta di
Nizza del 7.12.2000 perché la Corte territoriale avrebbe dovuto
disapplicare la norma di interpretazione autentica, alla luce delle plurime
pronunce rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da ultimo con la
sentenza del 9 settembre 2014 Caligiuri ed altri
contro Italia;

10. considerazioni analoghe vengono svolte con il
decimo motivo che denuncia la violazione dell’art. 6, n. 2, del Trattato
sull’Unione Europea nonché dei principi della certezza del diritto, della
tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo,
del diritto ad un Tribunale indipendente, recepiti come principi generali del
diritto dell’Unione;

11. con l’undicesimo motivo, intitolato «violazione
dei principi di tutela giurisdizionale effettiva e di equivalenza, dell’art. 19, comma 1, del T.U.E., dell’art. 47 della Carta dei Diritti
Fondamentali, dell’art. 13
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, del principio di collaborazione»,
la ricorrente assume che il giudice del rinvio, nel rigettare la domanda per la
novità delle allegazioni, le aveva impedito di far valere diritti garantiti
dalla normativa comunitaria, normativa che andava applicata, a prescindere
dalle deduzioni dell’atto introduttivo della lite, perché alla data di deposito
del ricorso non era prevedibile lo ius superveniens;

12. in via subordinata, con il dodicesimo motivo,
formula istanza di rimessione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 CE sulle questioni
prospettate nei motivi 8, 10 e 11;

13. la tredicesima critica assume che la sentenza
gravata avrebbe violato l’art. 117 Cost., l’art.
1 del protocollo 1 allegato alla CEDU e l’art. 46 CEDU e sollecita il
Collegio e rimettere nuovamente alla Consulta la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma
218, della legge n. 266/2005;

14. infine il quattordicesimo motivo denuncia la
violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ.
perché l’onere di provare il rispetto del divieto di reformatio
in peius grava sul Ministero che non l’aveva assolto,
non avendo dimostrato di avere garantito al dipendente la conservazione del
trattamento economico acquisito;

15. preliminarmente rileva il Collegio che non può
essere accolta l’istanza, formulata nell’intestazione della memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc.
civ., di discussione orale e di fissazione dell’udienza pubblica;

15.1. il procedimento per la decisione in camera di
consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato (all’esito delle
modifiche apportate al codice di rito dal d.l. n. 168/2016, convertito nella legge n. 197/2016) dagli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1 cod. proc. civ.,
non va confuso con quello previsto dagli artt. 376,
375, comma 1, e 380
bis, per i casi di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza
del ricorso, perché il legislatore ha affiancato alla procedura camerale,
finalizzata ad accertare la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375, comma 1, nn. 1
e 5, la pronuncia con ordinanza in camera di consiglio, alla quale la sezione
semplice può fare ricorso «in ogni altro caso, salvo che la trattazione in
pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione
di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato
rimesso dall’apposita sezione di cui all’articolo
376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio» ( art. 375, ultimo comma, cod. proc.
civ.);

15.2. nessuna delle condizioni ostative ricorre
nella fattispecie nella quale si prospettano questioni già esaminate dal
Collegio e che possono essere decise sulla base di principi ormai consolidati
nella giurisprudenza di questa Corte;

16. il ricorso deve essere rigettato, con correzione
della motivazione della sentenza impugnata ex art.
384, comma 4, cod. proc. civ., per le medesime
ragioni evidenziate con le recenti ordinanze nn.
14892, 22996 e 23382 del 2020, pronunciate in fattispecie analoghe a quella
oggetto di causa, ed alla cui motivazione si rinvia ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ.;

17. occorre premettere che, in caso di ricorso
proposto avverso la sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione
la portata del decisum della pronuncia rescindente,
la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia
uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la
propria sentenza in relazione alla questione decisa ed al contenuto della
domanda proposta in giudizio dalla parte (Cass. n. 3955/2018);

18. nel caso di specie questa Corte, con la sentenza
n. 12043/2012, non ha affatto demandato al giudice del rinvio di verificare se
l’inquadramento disposto dal MIUR in base all’accordo sindacale del 20 luglio
2000 fosse o meno conforme alla sopravvenuta legge n. 266/2005, art. 1, comma 218,
né ha affermato che, in caso di accertata reformatio
in peius, doveva essere integralmente riconosciuta
l’anzianità posseduta, perché ha chiesto solo al giudice del merito di
«verificare la sussistenza o meno di un peggioramento retributivo sostanziale
all’atto del trasferimento» ed i criteri fissati ai fini della comparazione
sono solo quelli indicati al punto 11 della pronuncia, ove si precisa che il
confronto deve essere globale, riferito al momento del passaggio, e che non
rilevano eventuali disparità di trattamento con i dipendenti già in servizio
presso il cessionario;

18.1. la sentenza rescindente non ha posto alcun
altro limite all’esame demandato al giudice del rinvio e, in particolare, non
ha indicato quali fossero le componenti del trattamento economico fondamentale
e accessorio da apprezzare ai fini della comparazione «globale», giacché al
punto 19 della decisione si è limitata a sottolineare, «per completezza» e per
escludere che l’accoglimento della domanda fosse conseguenza obbligata di
quanto statuito dalla Corte EDU con la pronuncia Agrati,
che alla Corte la questione non era stata compiutamente rappresentata, in
quanto la ricorrente aveva sostenuto di avere perso «tutti gli elementi
accessori della retribuzione» mentre, al contrario, ove il trattamento
accessorio era venuto specificamente in rilievo, la domanda finalizzata ad
ottenerne la conservazione era stata accolta;

18.2. su detto passaggio motivazionale la ricorrente
non può fare leva per sostenere che al giudice del rinvio sarebbe stato imposto
di considerare ai fini della comparazione le voci che vengono specificamente in
rilievo in questa sede, perché l’indagine demandata era solo quella indicata
nei punti 11 e 20, che non aggiungono altre precisazioni quanto al concetto di
«condizioni meno favorevoli»;

19. ciò detto osserva il Collegio che la Corte
territoriale ha indubbiamente errato nel ritenere la novità delle allegazioni
del ricorso in riassunzione, perché il principio del carattere chiuso del
giudizio di rinvio non può operare nei casi in cui le nuove attività assertive
e probatorie siano rese necessarie dalla sopravvenienza, in corso di causa, di
una nuova disciplina di legge applicabile anche ai giudizi in corso, di una
pronuncia di illegittimità costituzionale, ed in genere di ius
superveniens, del quale la sentenza rescindente abbia
fatto applicazione (Cass. n. 14892/2020 che richiama Cass. n. 34209/2019, Cass. n. 10845/2017, Cass. n. 13458/2016, Cass. n. 422/2014);

20. tuttavia l’errore commesso dalla Corte
territoriale non giustifica la cassazione della pronuncia ed un nuovo giudizio
di rinvio, perché le allegazioni sulle quali la ricorrente fa leva per sostenere
la tesi del peggioramento retributivo sostanziale, non sono idonee allo scopo,
e ciò a prescindere dalla loro verifica in fatto;

20.1. un peggioramento «sostanziale», impedito dalla
tutela che la direttiva eurounitaria riconosce ai
lavoratori coinvolti nel trasferimento d’impresa, è ravvisabile solo qualora,
all’esito della comparazione globale, emerga una diminuzione «certa» del
compenso che sarebbe stato corrisposto qualora il rapporto fosse proseguito con
il cedente nelle medesime condizioni lavorative, sicché non possono essere
apprezzati gli importi, che se pure occasionalmente versati prima del
passaggio, non costituivano il «normale» corrispettivo della prestazione,
perché, in quanto legati a variabili inerenti alle modalità qualitative e
quantitative di quest’ultima, non erano entrati nel patrimonio del lavoratore,
che sugli stessi non avrebbe potuto fare sicuro affidamento neppure qualora la
vicenda modificativa non fosse stata realizzata;

20.2. il principio di irriducibilità della
retribuzione, che questa Corte ha precisato nei termini sopra indicati (cfr.
fra le tante Cass. n.
29247/2017; Cass. n. 4317/2012; Cass. n.
20310/2008), non si atteggia diversamente nei casi di modificazione soggettiva
del rapporto perché, se la direttiva 77/187
«non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle
condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di un
trasferimento di impresa» (punto 77 sentenza Scattolon),
non possono essere opposti al cessionario limiti ulteriori rispetto a quelli
che valevano, prima della cessione, per il datore di lavoro cedente;

20.3. ciò detto rileva il Collegio che nel ricorso e
nella memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ. la ricorrente, per sostenere la tesi di un
peggioramento sostanziale, verificatosi nonostante il riconoscimento
dell’assegno personale, fa leva su voci del trattamento accessorio e su
istituti contrattuali che, a prescindere dall’accertamento in fatto e dalla
rilevanza nella fattispecie, non possono essere apprezzati, o perché si
prospetta un’interpretazione erronea della contrattazione collettiva per il
personale del comparto degli enti locali, o in quanto si tratta di voci prive
dei requisiti di fissità e di continuità, che devono ricorrere ai fini del
rispetto del divieto di reformatio in peius;

20.4. deve essere qui ribadito il principio di
diritto già affermato da Cass. nn. 3663, 6345, 7470
del 2019 secondo cui i premi ed i compensi incentivanti previsti dagli artt. 17
e 18 del CCNL 1° aprile 1999 per il personale del comparto regioni ed enti
locali non possono avere rilevanza ai fini del cd. maturato economico, perché
si tratta di voci del trattamento accessorio correlate ad effettivi incrementi
di produttività e di miglioramento dei servizi, ossia di emolumenti non certi nell’an e nel quantum;

20.5. quanto all’indennità di rischio, occorre
evidenziare che la tabella b allegata al d.P.R. n.
347/1983, richiamato dall’art. 31 del CCNL 6.7.1995 e superato solo dall’art.
37 del CCNL 14.9.2000, individua specificamente le attività comportanti
l’attribuzione dell’indennità in ragione dell’esposizione a fattori nocivi,
attività fra le quali non rientrano le mansioni espletate dal personale ATA
all’interno degli istituti scolastici, come desumibili dalla declaratoria dei
relativi profili professionali;

20.6. parimenti nessun rilievo può essere attribuito
all’asserita mancata considerazione del LED – Livello Economico Differenziato –
perché anche in tal caso la ricorrente fanno leva su un’interpretazione non
corretta della contrattazione collettiva per il personale del comparto enti
locali che, a partire dall’adozione del nuovo sistema di classificazione del
personale avvenuta con il CCNL 31.3.1999 ( quindi in epoca antecedente il
passaggio nei ruoli dello Stato), hanno previsto ( art. 7, comma 2, del CCNL
1999) l’assorbimento nel trattamento economico fondamentale delle «voci
retributive stipendio tabellare e livello economico differenziato di cui
all’art. 28, comma 1, del CCNL del 6.7.1995» che, quindi, hanno perso autonomia
e sono state ricomprese a tutti gli effetti nel trattamento valutato
dall’amministrazione al momento del passaggio;

20.7. va poi rammentato che nell’impiego pubblico
contrattualizzato l’attribuzione del buono pasto ha carattere assistenziale, è
legata ad una particolare articolazione dell’orario di lavoro e non riguarda né
la durata né la retribuzione del lavoro (cfr. Cass. n. 31137/2019);

20.8. quanto infine alle indennità di qualifica,
“specifica”, di turnazione, di disponibilità, di reperibilità e di
disagio, pure elencate nella memoria finale, è evidente che, trattandosi di
voci derivanti da caratteristiche proprie dell’inquadramento presso l’ente di
provenienza (qualifica e “specifica”) o delle lavorazioni in concreto
ivi svolte (turnazione, di disponibilità, di reperibilità e di disagio), la
loro valorizzazione “atomistica” – lo si ribadisce – non esprime alcunché,
in quanto la sentenza rescindente ha chiaramente richiesto un raffronto globale
tra retribuzioni “non limitato allo specifico istituto”;

20.9. ne discende che i motivi incentrati
sull’errore commesso dal giudice del rinvio e sul mancato apprezzamento di un
peggioramento sostanziale, che la ricorrente assume essere stato in realtà
provato attraverso la produzione documentale, non possono trovare accoglimento
ex art. 384, comma 4, cod. proc.
civ., in quanto il dispositivo di rigetto della domanda è comunque conforme
a diritto e può la Corte limitarsi a correggere la motivazione erronea della
pronuncia;

21. quanto agli ulteriori motivi, le ragioni di
rigetto o di inammissibilità delle censure vanno tratte dalla motivazione della
citata Cass. n. 14892/2020, già richiamata ex art.
118 disp. att. cod. proc. civ., che ha respinto analoghi ricorsi e con la
quale, in sintesi, si è evidenziato che:

a) la verifica della conformità di una norma di
legge alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea non costituisce oggetto di domanda ex art.
112 cod. proc. civ., sicché rispetto alla stessa
non è configurabile II vizio di omessa pronuncia;

b) l’art.
6, paragrafo 3, TUE non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto
tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, di applicare direttamente le
disposizioni di quest’ultima, perché un problema di rispetto dei principi
generali dell’Unione europea si può porre solo nell’interpretazione e
nell’applicazione del diritto dell’Unione stessa, con la conseguenza che, una
volta applicata la direttiva 1977/187/CEE nei
termini indicati dalla sentenza CGUE 6.9.2011, Scattolon,
ogni contrasto risulta superato;

c) l’obbligo per il giudice nazionale di ultima
istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3, del TFUE,
viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale
sulla normativa europea, perché sulla questione stessa la Corte si è già
pronunciata o anche in ragione dell’evidenza dell’interpretazione (punto 38
della cit. Cass. n. 14892/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

d) le sentenze della Corte EDU successive a quella
del 7 giugno 2011, Agrati, non hanno innovato il
quadro della vicenda già apprezzato da questa Corte, che ha costantemente
ritenuto (cfr. fra le tante Cass. n. 7859/2019, Cass. n. 4437/2019, Cass. n.
3016/2018) non fondata la questione di legittimità costituzionale della
normativa di interpretazione autentica, rilevando che il giudice delle leggi,
affermata la propria competenza a compiere la valutazione, ha già ritenuto
sussistenti imperativi motivi di interesse generale che, secondo la stessa
Corte di Strasburgo, permettono al legislatore di intervenire sul processo in
corso;

e) una volta corretta la motivazione della sentenza
gravata, non è ravvisabile la denunciata violazione dei principi richiamati
nell’undicesimo motivo;

f) è inammissibile la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ. perché la Corte territoriale
non ha deciso la controversia sulla base di un’erronea attribuzione dell’onere
della prova ed il rigetto della domanda, una volta corretta la motivazione,
discende dall’applicazione di principi di diritto, che portano ad escludere il
lamentato peggioramento retributivo sostanziale;

22. la memoria depositata ex art. 381 bis 1 cod. proc.
civ., con la quale la ricorrente, nel contestare l’iter argomentativo sopra
sintetizzato insistono nel sollecitare in primis l’esercizio del potere di
disapplicazione e, in via subordinata, una nuova rimessione degli atti alla
Corte Costituzionale, svolge considerazioni che, seppure maggiormente
sviluppate rispetto all’atto introduttivo del giudizio di legittimità, non
inseriscono elementi di novità né giustificano un ripensamento degli
orientamenti già espressi da questa Corte;

22.1. quanto alla necessità di disapplicare la legge
di interpretazione autentica, in ragione della violazione degli artt. 47 e 52 della CDFUE, la ricorrente
muove da una lettura non corretta del punto 84 della sentenza 6.9.2011 in causa c-108/10, perché la
questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 47 è stata ritenuta assorbita
in ragione del principio, affermato esplicitamente in altre pronunce della
Corte di Giustizia, secondo cui ai sensi dell’art. 51 della Carta, il
collegamento con il diritto dell’Unione dell’atto di diritto interno contestato
richiede, non solo che la misura nazionale ricada in un settore nel quale
l’Unione è competente, ma anche che la stessa incida direttamente sulla
normativa eurounitaria e si ponga in contrasto con
gli obiettivi che questa persegue;

22.2. è stato, pertanto, evidenziato che i diritti
fondamentali dell’Unione non possono essere applicati ad una normativa
nazionale qualora, in relazione alla situazione oggetto del procedimento
principale, le disposizioni dell’Unione non pongono alcun obbligo specifico
agli Stati membri (Corte di Giustizia 16.7.2020 in causa C – 686/18 punti da 52
a 54 e la giurisprudenza ivi richiamata; negli stessi termini Corte di
Giustizia 4.6.2020 in causa C – 32/20 punti da 25 a 27);

22.3. con la sentenza Scattolon
la Corte ha chiarito che la direttiva 77/187 ha
il solo scopo di evitare che i lavoratori siano collocati per effetto del
trasferimento in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano
precedentemente e non può essere invocata per ottenere un miglioramento delle
condizioni retributive, sicché il collegamento con il diritto dell’Unione, da
intendere nei termini precisati nei punti che precedono, opera solo a fronte di
disposizioni che si pongano in contrasto con l’obiettivo della direttiva e,
quanto alle condizioni di lavoro ed al trattamento retributivo, non è più
predicabile qualora, come è stato verificato nella fattispecie,
l’irriducibilità sia garantita e l’operatività dei principi della Carta venga
invocata per ottenere un effetto finale che esula dalle tutele assicurate dal
diritto dell’Unione;

23. analogamente il Collegio, nel ribadire
l’orientamento consolidato già espresso, non ritiene che le pronunce della
Corte EDU costituiscano una sopravvenienza idonea a giustificare l’attivazione
del procedimento incidentale di legittimità costituzionale in relazione ad una
norma di legge la cui legittimità è stata scrutinata dalla Corte Costituzionale
in più pronunce (Corte Cost.
nn. 234 e 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

23.1. in altra vicenda che, quanto ai rapporti fra
le Corti superiori, presenta profili di affinità a quella oggetto di causa, il
Giudice delle leggi ha ribadito che il vincolo derivante dalle sentenze della
Corte EDU attiene all’interpretazione della norma convenzionale, ma non si
estende alla valutazione espressa sulla sussistenza di motivi imperativi di
interesse generale, che solo la Corte Costituzionale può compiere perché essa,
a differenza della Corte di Strasburgo «opera una valutazione sistemica e non
isolata dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è
quindi tenuta al bilanciamento, solo ad essa spettante » ( Corte Cost. n. 264/2012;
va segnalato che la stessa Corte, nuovamente adita a seguito della
sopravvenienza di ulteriore pronuncia della Corte EDU, con la sentenza n. 166/2017 ha dichiarato inammissibile
la questione di legittimità costituzionale della legge di interpretazione
autentica dettata dall’art. 1,
comma 777, della legge n. 296/2006, prospettata questa volta in relazione
alla violazione non dell’articolo 6
della CEDU, bensì dell’art. 1
del Protocollo addizionale, in una fattispecie nella quale la norma
interpretativa aveva inciso, riducendola, sull’entità della pensione già
corrisposta agli aventi diritto);

23.2. va, poi, ricordato che la Corte Costituzionale
con la sentenza n. 311/2009, oltre a valutare la conformità della legge di
interpretazione autentica in relazione al parametro invocato (art. 117 Cost. in
relazione all’art. 6 della CEDU)
ha anche ribadito principi già affermati con la sentenza
n. 234/2007, che aveva, da un lato, evidenziato la valenza generale del
criterio del maturato economico, introdotto già dalla legge n. 312/1980,
dall’altro la necessità di un’interpretazione dell’art. 8 della legge n. 124/1999
che, senza determinare una reformatio in malam partem di una situazione
patrimoniale in precedenza acquisita, tenesse anche conto della disciplina
dettata per l’impiego pubblico e dell’invarianza della spesa, imposta dalla
stessa legge n. 124/1999 ai fini del rispetto
dell’art. 81 Cost.,
invarianza della quale le parti collettive si erano poi fatte carico;

23.3. la Corte, quindi, nelle pronunce citate, sia
pure in relazione ad altri parametri invocati dai giudici rimettenti, ha
espresso considerazioni anche in relazione al legittimo affidamento, dalle
quali può desumersi la manifesta infondatezza della questione riproposta in
questa sede dalla ricorrente;

24. d’altro canto non risponde neppure al vero che
al personale ATA interessato dal trasferimento di attività sarebbe stato
assicurato un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto alla
generalità dei dipendenti pubblici dall’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001
e dall’art. 2112 cod. civ. perché, al
contrario, anche in relazione ad altri trasferimenti questa Corte ha affermato
che le disposizioni normative e contrattuali finalizzate a garantire il
mantenimento del trattamento economico e normativo acquisito, non implicano la
totale parificazione del lavoratore trasferito ai dipendenti già in servizio
presso il datore di lavoro di destinazione, in quanto la prosecuzione giuridica
del rapporto se, da un lato, rende operante il divieto di reformatio
in peius, dall’altro non fa venir meno la diversità
fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere
valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato
non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;

24.1. muovendo da detta premessa si è evidenziato
che l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il
lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere
salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino
benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità
comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto
dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n.
22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n.
17081/2007);

24.2. l’anzianità pregressa, invece, non può essere
fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla
base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass. S.U. n.
22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), né può essere opposta al nuovo datore per
ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché
l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel
patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle
mere aspettative (cfr. fra le più recenti Cass. n. 4389/2020 e quanto agli
scatti di anzianità Cass.
n. 32070/2019);

24.3. corollario di detto principio è quello,
egualmente consolidato da tempo nella giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui in caso di passaggio di personale conseguente al trasferimento di attività
concorrono a formare la base di calcolo ai fini della quantificazione
dell’assegno personale le voci retributive corrisposte in misura fissa e
continuativa, non già gli emolumenti variabili o provvisori sui quali, per il
loro carattere di precarietà e di accidentalità il dipendente non può riporre
affidamento, o perché connessi a particolari situazioni di lavoro o in quanto
derivanti dal raggiungimento di specifici obiettivi e condizionati,
nell’ammontare, da stanziamenti per i quali è richiesto il previo giudizio di
compatibilità con le esigenze finanziarie dell’amministrazione ( cfr. fra le
tante Cass. n. 31148/2018; Cass. n. 18196/2017; Cass. n. 3865/2012);

25. il ricorso, in via conclusiva, deve essere
rigettato ed alla soccombenza segue la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

26. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti
indicati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni
processuali richieste dall’art. 13,
comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate in € 3.500,00 oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 giugno 2021, n. 17991
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