Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 luglio 2021, n. 20719

Cartella di pagamento relativa ai contributi previdenziali,
Verbale di conciliazione, Definizione di controversia di lavoro, Atto
estraneo al rapporto tra il datore di lavoro e l’ente previdenziale, Rilevanza
della retribuzione dovuta e non corrisposta, Nessun riflesso nel giudizio in
cui l’ente previdenziale fa valere il credito contributivo

 

In relazione alla posizione della lavoratrice R.M.,
era stata emessa cartella di pagamento relativa ai contributi previdenziali
dovuti dal notaio A., in qualità di datore di lavoro; su opposizione alla
cartella di quest’ultimo, il tribunale di Palermo, con sentenza dell’1.2.12,
aveva annullato la cartella, condannando il datore a pagare all’INPS la somma
di euro 24.345 per contributi. Su appello del datore e dell’INPS, la corte
d’appello di Palermo, con sentenza del 19.11.14, ha rideterminato il periodo di
omissione contributiva riguardante la dipendente R.M. sulla base di un rapporto
di lavoro alle dipendenze del notaio A., a tempo parziale nel periodo da
gennaio 92-maggio 93 ed a tempo pieno nel periodo giugno 93-febbraio 98,
confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Avverso la sentenza d’appello ricorre l’A. per 14
motivi, accompagnati da memoria, cui resiste con controricorso Riscossione
Sicilia spa; l’INPS ha depositato procura in calce alla copia notificata del
ricorso ed ha poi discusso in udienza.

Con il primo motivo si deduce – ex art. 360 co. 1 n.
4 c.p.c. – la nullità della sentenza per violazione degli articoli 43 – 74 -291
– 360 bis comma 2 c.p.c. e 24 comma 2 e 111 comma 2 della Costituzione, per
violazione del diritto alla difesa, del principio del contraddittorio e dei
principi regolatori del giusto processo; si lamenta in particolare che l’Inps
nell’intervallo tra l’udienza e la lettura del dispositivo, ha depositato una
memoria contenente nuove argomentazioni delle quali mai prima si era discusso,
effettuando il deposito in modo tardivo ed irrituale, senza autorizzazione del
giudice e senza che la controparte ne venisse a conoscenza, e si deduce che la
sentenza ha poi recepito le argomentazioni contenute nella memoria.

Con il secondo motivo si deduce -ex art. 360 co. 1
n. 4 c.p.c.- nullità della sentenza per violazione degli articoli 101 comma 2 –
112 – 287 – 288 – 329 – 414 – 434 e 360 bis comma 2 c.p.c., dell’articolo 2909
c.c., dei principi del tantum devolutum quantum appellatum e del giudicato
interno, nonché degli articoli 24 comma 2 e 111 comma 2 della Costituzione, del
diritto alla difesa, del principio del contraddittorio, e dei principi
regolatori del giusto processo, per avere la corte riconosciuto il rapporto di
lavoro della dipendente per periodo diverso da quello riconosciuto in primo
grado e non censurato negli appelli.

Con il terzo motivo si deduce – ex art. 360 co. 1 n.
5 c.p.c.- vizio di motivazione della sentenza impugnata per omesso esame della
definizione della causa di lavoro tra la R. e l’A., che aveva accertato
l’inesistenza del rapporto di lavoro nel periodo giugno 93 -febbraio 98 durante
le mattine.

Con il quarto motivo si deduce – ex art. 360 co. 1
n. 3 c.p.c.- violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c., per avere la corte
territoriale basato la decisione su presunzione non grave né precisa né
concordante.

Con il quinto motivo si deduce – ex art. 360 co. 1
n. 3 c.p.c. – violazione degli articoli 132 numero 4 c.p.c., 118 attuazione
c,.p.c.; 111 comma 6 Costituzione, per contraddittorietà della motivazione e
apparenza della stessa in ordine alla configurazione del rapporto di lavoro nei
termini indicati.

Con il sesto motivo si deduce – ex art. 360 co. 1 n.
3 c.p.c. – violazione dell’articolo 2697 c.c., in relazione alla prova del
rapporto di lavoro nei termini indicati.

Con il settimo motivo si deduce – ex art. 360 co. 1
n. 3 c.p.c.- falsa applicazione degli articoli 2094 e 2026 c.c.. in relazione
alla qualificazione del rapporto di lavoro tra le parti.

Con l’ottavo motivo si deduce – ex art. 360 co. 1 n.
3 c.p.c. – violazione degli articoli ora detti per assenza di contratto e di
rapporto di lavoro.

Con il nono motivo si deduce – ex art. 360 co. 1 n.
5 c.p.c.- vizio di motivazione della sentenza impugnata per mancata
considerazione di un verbale di conciliazione intervenuto tra le parti del
rapporto di lavoro, con le quali si riconosceva l’insussistenza del rapporto di
lavoro per il periodo anteriore al 4 giugno 93.

Con il decimo motivo si deduce – ex art. 360 co. 1
n. 3 c.p.c.- falsa applicazione del principio dell’autonomia tra rapporto
privatistico di lavoro e rapporto previdenziale di natura pubblicistica

Con l’undicesimo motivo si deduce – ex art. 360 co.
1 n. 3 c.p.c. – violazione dell’ora detto principio, per aver sussunto la
fattispecie nel figura del lavoro subordinato e per aver dilatato la
fattispecie lavoristica per includere la fattispecie concreta.

Con il dodicesimo motivo si deduce -ex art. 360 co.
1 n. 4 c.p.c. – nullità della sentenza per violazione degli articoli 132 – 118
e 111 comma 6 c.p.c., per l’assenza sostanziale di motivazione in ordine alla
configurabilità del rapporto lavorativo nei termini indicati.

Con il tredicesimo motivo si deduce – ex art. 360
co. 1 n. 4 c.p.c.- violazione degli articoli 116 e 310 c.p.c., per non aver
considerato il verbale di conciliazione quanto meno come argomento di prova.

Con il quattordicesimo motivo si deduce – ex art.
360 co. 1 n. 3 c.p.c.- violazione dell’articolo 2697 c.c., per assenza di prova
circa il rapporto lavorativo.

Con la memoria finale, parte ricorrente eccepisce la
formazione nelle more del processo del giudicato esterno, in relazione alla
decisione -con sentenza passata in giudicai – di causa tributaria avente ad
oggetto cartella esattoriale per contributi sanitari relativi allo stesso
periodo di lavoro oggetto di questa causa.

Con i motivi su riportati il ricorrente si lamenta
essenzialmente di tre ordini diversi di questioni.

Il primo ordine di questioni (sollevate con il primo
motivo) riguarda la regolarità del processo in relazione alla acquisizione da
parte della corte territoriale di memoria dell’INPS depositata in modo
asseritamente e dell’indebito recepimento delle relative argomentazioni nella
sentenza.

Il secondo ordine di questioni (sollevate con il
secondo, terzo e nono motivo, nonché con la memoria finale) riguarda la
violazione del giudicato interno (con riferimento al periodo di lavoro nelle
mattine per il periodo anteriore al giugno 1996), del giudicato esterno
sopravvenuto (con riferimento alla decisione di causa tributaria), e la mancata
considerazione dell’esito della causa di lavoro tra il ricorrente e la
dipendente in questione.

Il terzo ordine di questioni (sollevate con i motivi
quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, decimo, undicesimo, dodicesimo,
tredicesimo e quattordicesimo) riguarda il riconoscimento del rapporto di lavoro
subordinato e delle sue modalità di tempo e di durata.

La prima questione è stata fatta oggetto di
specifico ricorso revocatorio da parte del ricorrente, che ha dedotto il dolo
della parte: la questione è stata respinta dalla corte d’appello con sentenza
impugnata in cassazione e chiamata alla medesima udienza con la presente causa.
A prescindere dalla ricorrenza del motivo revocatorio asserito, la parte qui
lamenta in ogni caso la violazione del contraddittorio.

Il motivo è infondato, in quanto dagli atti (ed in
particolare dal verbale d’udienza) risulta che la memoria è stata depositata
all’udienza (pur recando timbro di depositato in un giorno successivo) in
presenza del procuratore dell’A. che nulla ha eccepito né ha chiesto termine
per replicare, sicché nessuna violazione del contraddittorio risulta.

Il secondo ordine di questioni sollevate è del pari
infondato per tutti gli aspetti richiamati.

Quanto al periodo del rapporto di lavoro, il
tribunale aveva ritenuto il rapporto dal 1993 al 1998, escludendo il periodo
1991-1993; la sentenza richiama tra l’altro la conciliazione delle parti ove si
era riconosciuto il rapporto solo dal 1993 in poi; in altra parte della
motivazione, la sentenza indica il 1996 come data di inizio del rapporto.

La corte d’appello ha interpretato correttamente
l’indicazione dell’anno 1996 come frutto di un errore materiale passibile di
correzione.

L’affermazione è condivisibile, considerata da un
lato la materia del contendere tra le parti e, dall’altro lato, rilevato che la
sentenza di primo grado aveva indicato in modo inequivoco l’anno 1993 – la
sentenza richiama infatti la conciliazione della lite di lavoro che proprio al
1993 ancora l’inizio del rapporto – quale momento inziale del rapporto.
Peraltro, l’INPS aveva appellato la sentenza (deducendo lo svolgimento del
lavoro anche nel primo periodo), mentre il datore aveva appellato a sua volta
deducendo l’inconfigurabilità di un rapporto a tempo pieno per il periodo di
rapporto ritenuto dal tribunale: ne deriva che l’effetto devolutivo delle
impugnazioni principale ed incidentale avevano investito al corte d’appello
della revisione dell’intero periodo del rapporto di lavoro già oggetto del
giudizio di primo grado.

Quanto poi all’incidenza del verbale di
conciliazione che aveva definito la controversia di lavoro, si tratta di atto
estraneo al rapporto tra il datore di lavoro e l’ente previdenziale, per il
quale rileva la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, non avendo la
transazione intercorsa nel giudizio di lavoro effetti riflessi nel giudizio in
cui l’ente previdenziale fa valere il credito contributivo.

Questa Corte ha infatti già chiarito (Sez. L,
Sentenza n. 3122 del 03/03/2003, Rv. 560793 – 01; Sez. L, Sentenza n. 17495 del
28/07/2009, Rv. 609509 – 01; Sez. L, Sentenza n. 17670 del 13/08/2007, Rv.
599934 – 01); Sez. L, Sentenza n. 3686 del 17/02/2014, Rv. 629746 – 01) che la
transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro è estranea al
rapporto tra quest’ultimo e l’INPS, avente ad oggetto il credito contributivo
derivante dalla legge in relazione all’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato, giacché alla base del credito dell’ente previdenziale deve essere
posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, in quanto l’obbligo
contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che
siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei
confronti del prestatore d’opera, ovvero che questi abbia rinunziato ai suoi
diritti. Pertanto, attesa l’autonomia tra i due rapporti, la transazione
suddetta non spiega effetti riflessi nel giudizio con cui l’INPS fa valere il
credito contributivo.

Quanto poi al rilievo del giudicato esterno
prodottosi nel corso del giudizio di legittimità, deve rilevarsi che detto
giudicato riguarda un diverso settore contributivo (i contributi per il
servizio sanitario) ed ha un oggetto che copre la debenza dei contributi e non
anche la consistenza del rapporto di lavoro sottostante (che non è oggetto del
giudicato, e può ben essere contestato per tutti i profili che non attengo alla
debenza dei contributi sanitari oggetto di quel giudizio); in altri termini, si
tratta di diversi rapporti giuridici (la debenza dei contributi sanitari e la
debenza e di contributi previdenziali d’all’altra parte), tra i quali non vi è
alcuna relazione, se non per essere fondati su un medesimo presupposto (la
esistenza del rapporto di lavoro), che non è oggetto dell’accertamento del
giudice e della portata del giudicato (restando controvertibile per tutti i
profili, con esclusione di quelli inerenti il rapporto contributivo oggetto del
giudicato).

Ne deriva che il giudicato tributario esterno non
incide sulla controversia contributiva previdenziale, che ha un diverso oggetto
(cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6953 del 08/04/2015, Rv. 635195 – 01, secondo
la quale la sentenza del giudice tributario con la quale si accertano il
contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno
d’imposta fa stato, nei giudizi relativi ad imposte dello stesso tipo dovute
per gli anni successivi, ove pendenti tra le stesse parti, solo per quanto
attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad
una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente
permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando
l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto
relativi a tributi differenti ed a diverse annualità).

Quanto al terzo ordine di questioni, relative alla
configurazione del rapporto di lavoro subordinato e alla determinazione della
sua entità e durata, occorre rilevare che la sentenza, con motivazione corretta
e logicamente ineccepibile, ha valutato gli elementi probatori raccolti e,
sulla base delle prove testimoniali (in particolare dei testi A. D. e D.) ed
altresì dell’inverosimiglianza delle deduzioni del datore con le prime
contrastanti, ha accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo
pieno tra il notaio A. e la lavoratrice R..

Ciò posto, considerate le disposizioni che si assumono
violate, vanno respinte le doglianze del ricorrente in ordine all’assenza di
motivazione (avendo la corte dato conto delle ragioni della ricostruzione),
alla violazione delle norme sulle presunzioni (non essendo la sentenza basata
su una presunzione, bensì sulla valutazione dell’attendibilità e dell’effettiva
portata delle dichiarazioni testimoniali), alla qualificazione del rapporto
come lavoro subordinato (essendo stati rispettati i criteri normativi e
giurisprudenziali di individuazione del rapporto), all’onere della prova
(assolta nella specie dalla parte -creditrice dei contributi – che vi era
onerata), all’esame degli elementi istruttori raccolti (compiuto dalla corte
territoriale in modo adeguato e logico).

Del resto, questa Corte ha già precisato (tra la
tante, Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01; Sez. 1 – ,
Ordinanza n. 23153 del 26/09/2018, Rv. 650931 – 01) che il cattivo esercizio
del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di
merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione,
non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
(che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti
carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4,
disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente
all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante. Si è anche detto (Sez. L, Sentenza n. 21439 del
21/10/2015, Rv. 637497 – 01) che nel giudizio di cassazione è precluso
l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto
più a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata
dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in I. n. 134 del 2012.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato
integralmente.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come da dispositivo, spese parametrate alla sola fase della discussione.

Sussistono i requisiti processuali per il raddoppio
del contributo unificato, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di lite, che liquida in euro 2500 per compensi
professionali e 200 per esborsi in favore di Riscossione Sicilia spa, ed in
euro 1000 per compensi professionali e 200 per esborsi in favore dell’INPS,
oltre – per entrambi – a spese generali al 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 luglio 2021, n. 20719
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