Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 29 gennaio 2021, n. 113

Straniero, Reddito di inclusione (ReI), Requisiti di
residenza e di soggiorno, Previsione per i richiedenti, cittadini di paesi
terzi, del possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo., Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per
l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), art. 3,
comma 1, lettera a), numero 1)

 

Convenuto

 

Il giudice, sciogliendo la riserva assunta all’udienza
del 19 gennaio 2021, sul ricorso promosso ai sensi dell’art. 28, decreto
legislativo n. 150/11, osserva quanto segue:

la ricorrente, cittadina boliviana soggiornante in
Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 ha presentato domanda cartacea finalizzata ad
ottenere il reddito di inclusione.

Tale domanda è stata respinta dal Comune di Bergamo,
non essendo stata inoltrata con modalità telematiche, nonchè per il mancato
possesso del permesso di lungo periodo.

La C C ha chiarito di non essere stata in grado di
presentare la domanda telematicamente, in quanto il sistema non le consentiva
di procedere se non dichiarando (falsamente) di essere titolare di permesso di
lungo periodo.

La ricorrente, nel riferire di essere in possesso di
tutti i requisiti previsti dal decreto legislativo n. 147/17 per beneficiare
del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di lungo periodo, eccepiva
in questa sede l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, decreto legislativo
n. 147/17 nella parte in cui prevede che i cittadini di nazionalità extra UE
debbano essere titolari, per l’accesso al beneficio, di un permesso di
soggiorno di lungo periodo.

Il Comune di Bergamo, costituitosi in giudizio, nel
ribadire che la domanda era stata respinta in quanto non presentata mediante lo
sportello web, nonchè per il mancato possesso di un permesso di soggiorno di
lungo periodo, contestava la riconducibilità della prestazione alla Direttiva
2011/18, in quanto la finalità (contrasto alla povertà) della norma incriminata
non sarebbe inclusa nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3 del Regolamento n.
883/04.

Secondo il Comune, pure la discrezionalità con cui
la provvidenza viene attribuita, conservata e revocata, osterebbe alla sua
riconduzione nell’alveo delle prestazioni di sicurezza sociale definite dalla
giurisprudenza della CGUE.

L’INPS, costituitosi a sua volta in giudizio, dopo
aver preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso, negava la
sussistenza della dedotta illegittimità costituzionale della norma.

 In proposito,
l’Inps, nel chiarire come il reddito di inclusione sia «misura unica a livello
nazionale di contrasto alla povertà ed all’esclusione sociale», ricordava come
la direttiva 2011/98 non fosse stata recepita dall’ordinamento italiano e non
fosse applicabile, in quanto non munita del carattere di auto-esecutività.

 L’Inps
escludeva comunque che il reddito di inclusione fosse riconducibile nell’alveo
dell’art. 12 della Direttiva 2011/98, non appartenendo all’elenco dei rischi
dell’art. 3 del regolamento CEE 833/04, anche in considerazione del fatto che
il suo riconoscimento presentava elementi di discrezionalità, essendo
condizionato alla sottoscrizione di un progetto personalizzato, secondo la
previsione dell’art. 6, decreto legislativo n. 147/17 definito a seguito della
valutazione multidimensionale del bisogno e che doveva essere sottoscritto da
tutti i componenti del nucleo familiare.

 

Tutto ciò premesso, si osserva

 

Va innanzi tutto ritenuta ammissibile l’azione
proposta dalla ricorrente, dovendosi sul punto evidenziare che si tratta di
azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale, con
conseguente inapplicabilità della disciplina di cui agli articoli 409 e 442 e
seguenti del codice di procedura civile.

 La domanda
della sig.ra C C ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua
cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò,
l’erogazione della prestazione, che quindi rappresenta lo strumento di
rimozione degli effetti della condotta ritenuta discriminatoria, per cui
correttamente è stato attivato il procedimento di cui all’art. 28, decreto
legislativo n. 150/11 e non l’ordinaria azione di cui agli articoli 409 e 442 e
seguenti del codice di procedura civile.

 Sul punto vi
è ampia giurisprudenza di merito, concorde nel ritenere che quando l’azione
esercitata ha ad oggetto una condotta asseritamente discriminatoria e non la
concessione diretta della prestazione (sebbene questa sia comunque richiesta
sotto il profilo della eliminazione degli effetti pregiudizievoli della
condotta discriminatoria), non si verte nell’ambito di ricorso giurisdizionale
avverso provvedimento di rigetto di prestazioni previdenziali, ma nell’ambito
di un’azione del tutto diversa, che non soggiace ad alcuna preventiva domanda amministrativa
nei confronti dell’Inps, convenuto in giudizio solo quale ente tenuto
all’erogazione della prestazione, una volta riconosciuta la discriminatorietà
della condotta (v., tra le molte, Corte App. Brescia, sent. 442/17).

 Non osta,
poi, all’ammissibilità del ricorso il fatto che sia stata data applicazione ad
una norma di diritto positivo in quanto la nozione di discriminazione accolta
dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha
riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione,
criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla
motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere.

 Per la
soluzione della controversia è dirimente la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a) punto 1) decreto legislativo n.
147/17 (vigente al momento della richiesta della prestazione) nella parte in
cui limita soggettivamente l’accesso al reddito di inclusione, ai cittadini
dell’Unione o loro familiare titolare del diritto di soggiorno o del diritto di
soggiorno permanente, ovvero ai cittadini di paesi terzi in possesso del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, escludendo gli
stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per
altri motivi).

 La domanda di
concessione del reddito di inclusione è stata presentata dalla C il 6 marzo
2018, quando la disposizione censurata era pienamente vigente, ragion per cui
raccoglimento del ricorso le darebbe diritto a percepire la prestazione dal
primo mese successivo a quello di presentazione della domanda (secondo quanto
avviene normalmente per le prestazioni assistenziali) sino a tutto il marzo
2019, considerato che il reddito di inclusione è stato abrogato a decorrere dal
1° aprile 2019 per effetto dell’art. 11, comma 1, decreto-legge n. 4/19 che lo
ha sostituito con il reddito di cittadinanza.

 L’art. 13,
comma l, decreto-legge n. 4/19, che ha dettato le disposizioni transitorie e di
armonizzazione tra la vecchina e la nuova prestazione, ha previsto che dal 1°
marzo 2019 il reddito di inclusione non poteva più essere richiesto e a
decorrere dal successivo mese di aprile non era più nè riconosciuto, nè
rinnovato, mentre per coloro ai quali il beneficio fosse stato riconosciuto in data
anteriore al mese di aprile 2019, il beneficio avrebbe continuato ad essere
erogato per la durata inizialmente prevista, fatta salva la possibilità di
presentare domanda per il reddito di cittadinanza.

 Di
conseguenza, ribadendo che la domanda della C è del 6 marzo 2018 mentre il
rigetto del Comune di Bergamo è del 21 marzo 2018, è evidente che la verifica
della legittimità costituzionale della disposizione censurata deve essere
effettuata avuto riguardo al momento in cui la prestazione è stata richiesta e
negata dall’ente, poichè, come noto, l’accoglimento dell’azione giudiziaria
comporterebbe il riconoscimento della prestazione «ora per allora» (ovvero
dall’aprile 2018) e sino al momento in cui questa è stata abrogata ovvero sino
a tutto il marzo 2019.

 Di
conseguenza, in applicazione di tale principio e di quello dettato dall’art.
13, comma 1, decreto-legge n. 4/19, il riconoscimento della prestazione «ora
per allora» (ovvero a decorrere dall’aprile 2018) comporterebbe il pagamento
dei retei non percepiti da tale data sino al marzo 2019 (non risultando che la
ricorrente abbia presentato domanda di reddito di cittadinanza).

 Peraltro,
nell’ambito del presente giudizio è pacifica l’applicabilità della disposizione
censurata, tant’è che negli atti di causa, nè il Comune di Bergamo, nè l’Inps
hanno mai richiamato la disciplina transitoria di cui all’art. 13,
decreto-legge n. 4/19, benchè questa fosse già in vigore al momento della
costituzione in giudizio delle amministrazioni.

 Queste
ultime, nel costituirsi in giudizio, hanno solo negato che la C possegga tutti
i requisiti per il riconoscimento del reddito di inclusione (in quanto priva
del permesso di soggiorno di lungo periodo), ma mai hanno sostenuto che la
successiva abrogazione della prestazione potrebbe determinare il rigetto della
sua domanda.

 In altri
termini, le difese svolte nel presente giudizio rendono manifesto quanto già
sopra chiarito, ovvero che la dichiarazione di illegittimità costituzionale
della norma condurrebbe al riconoscimento della prestazione a favore della
ricorrente (entro i limiti temporali individuati dal legislatore).

 Del resto, si
tratta di principi già affermati dalla Suprema Corte con riferimento a
situazioni assimilabili.

 Ad esempio,
riguardo al decreto-legge n. 113/18 che ha abrogato la protezione umanitaria e
il relativo permesso di soggiorno, la cassazione civile, con la sentenza n.
4890/19 ha stabilito il principio di diritto secondo cui la novella «non trova
applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di
soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre
2018) della nuova legge» (cass. civ., sez. I., 4890/19).

 Tant’è che
qualora venga accerta la sussistenza dei presupposti per il permesso umanitario
sulla base delle norme abrogate, «farà seguito il rilascio da parte del
Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi
speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista
dall’art. 1, comma 9, di detto decreto legge», così esplicitando in maniera
chiarissima che la sussistenza dei requisiti del diritto azionato in base ad
una norma successivamente abrogata deve essere effettuata con riferimento alla
normativa vigente al momento della domanda (quindi prima della sua successiva
eliminazione dall’ordinamento).

 Del resto,
dal tenore degli articoli 11 e 13, decreto-legge n. 4/19 si evince chiaramente
che l’abrogazione del reddito di inclusione non è stata disposta con efficacia
retroattiva, ma solo a decorrere dal 1° aprile 2019, secondo la previsione
dell’art. 11, decreto-legge n. 4/19.

 Coerentemente, l’art. 13, primo comma,
decreto-legge n. 4/19 ha esplicitato che a decorrere dal 1° marzo 2019 il
beneficio non poteva più essere richiesto, ma veniva fatto salvo quello che
fosse stato riconosciuto in data anteriore all’aprile 2019, che avrebbe
continuato «ad essere erogato per la durata inizialmente prevista, fatta salva
la possibilità di presentare domanda per il reddito di cittadinanza».

 Per quanto
attiene invece alla rilevanza della questione di costituzionalità, occorre
chiarire come non siano in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso
al beneficio, essendo controverso solo l’aspetto inerente all’estensione
soggettiva del beneficio medesimo, posto che la ricorrente, non cittadina
italiana, nè comunitaria, è priva di permesso di soggiorno di lunga durata.

 La C , al
momento della domanda, risultava residente in Italia, in via continuativa, da
almeno due anni e sussistevano, altresì, il requisito di cui all’art. 3, comma
1, lett. b), decreto legislativo n. 147/17, relativo alla condizione economica
del richiedente, nonchè quello di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), decreto
legislativo n. 147/17 essendovi nel nucleo familiare un componente di età
minore di anni 18 (tutte circostanze documentate e comunque non contestate
dalle parti convenute).

 Nè rileva il
fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anzichè
telematicamente, trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile
alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della
prestazione, ove sussista il diritto.

 L’art. 2,
comma 2, decreto legislativo n. 147/17 definisce il «ReI» come «una misura a
carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un
progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa
finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» e la «povertà»,
nella definizione offerta dall’art. 1, comma 1, lett. a), decreto legislativo
n. 147/17, è quella «condizione del nucleo familiare la cui situazione
economica non permette di disporre dell’insieme di beni e servizi necessari a
condurre un livello di vita dignitoso, come definita, ai soli fini dell’accesso
al reddito di inclusione, all’articolo 3».

 Il richiamato
articolo 3, decreto legislativo n. 147/17, in ordine alla condizione economica
necessaria per l’accesso al beneficio, prevede che il nucleo familiare del
richiedente debba «essere in possesso congiuntamente di: 1) un valore dell’ISEE,
in corso di validità, non superiore ad euro 6.000; 2) un valore dell’ISRE non
superiore ad euro 3.000; 3) un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla
casa di abitazione, non superiore ad euro 20.000; 4) un valore del patrimonio
mobiliare, non superiore ad una soglia di euro 6.000, accresciuta di euro 2.000
per ogni componente il nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo
di euro 10.000; 5) un valore non superiore alle soglie di cui ai numeri l e 2
relativamente all’ISEE e all’ISRE riferiti ad una situazione economica
aggiornata nei casi e secondo le modalità di cui agli articoli 10 e 11; c) con
riferimento al godimento di beni durevoli e ad altri indicatori del tenore di
vita, il nucleo familiare deve trovarsi congiuntamente nelle seguenti
condizioni: 1) nessun componente intestatario a qualunque titolo o avente piena
disponibilità di autoveicoli, ovvero motoveicoli immatricolati la prima volta
nei ventiquattro mesi antecedenti la richiesta, fatti salvi gli autoveicoli e i
motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone
con disabilità ai sensi della disciplina vigente; 2) nessun componente
intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di navi e
imbarcazioni da diporto di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo
18 luglio 2005, n. 171».

 La condizione
di povertà e di bisogno economico deve essere integrata dalla sussistenza di un
altro requisito, rappresentato dalla presenza, nel nucleo familiare, di almeno
una delle seguenti condizioni: «a) presenza di un componente di età minore di
anni 18; b) presenza di una persona con disabilità e di almeno un suo genitore
ovvero di un suo tutore; c) presenza di una donna in stato di gravidanza
accertata. La documentazione medica attestante lo stato di gravidanza e la data
presunta del parto è rilasciata da una struttura pubblica e allegata alla
richiesta del beneficio, che può essere presentata non prima di quattro mesi
dalla data presunta del parto; d) presenza di almeno un lavoratore di età pari
o superiore a 55 anni, che si trovi in stato di disoccupazione» (art. 3, comma
2, decreto legislativo n. 147/17).

 In tema di
diritti essenziali, la Corte costituzionale ha già avuto modo di chiarire che
la valutazione in termini di «essenzialità» della prestazione deve essere
effettuata «alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale»
che questa è chiamata a svolgere nel sistema, verificando se «integri o meno un
rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni
primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è
compito della Repubblica promuovere e salvaguardare;

rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale
perchè garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto. D’altra parte, la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha sottolineato come, “in uno
Stato democratico moderno, molti individui, per tutta o parte della loro vita,
non possono assicurare il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di
sicurezza o di previdenza sociale”.

Sicchè, “da parte di numerosi ordinamenti
giuridici nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una
certa sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a
condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il riconoscimento
dei diritti in questione” (la già citata decisione sulla ricevibilita del
6 luglio 2005, Staic ed altri contro Regno Unito). Ove, pertanto, si versi in
tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della
persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente
soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle
condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio
sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto
riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze
offerta dalla Corte di Strasburgo.» (così, in motivazione, Corte costituzionale
sent. 187/2010). Non v’è dubbio che il reddito di inclusione, in quanto
«finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» debba essere
iscritto tra i diritti essenziali nei limiti e per le finalità, appunto
essenziali, che la Corte costituzionale – anche alla luce degli enunciati della
Corte di Strasburgo – «ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di
trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio
dello Stato» (così, in motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010).

 A ciò non è
ostativo il fatto che non si tratti di prestazione di invalidità, in quanto il
nucleo dei diritti essenziali deve essere certamente delineato con riguardo
all’attuale e mutato contesto economico/sociale, tale, come sopra evidenziato,
da indurre il legislatore ad introdurre prestazioni nuove, finalizzate a
fronteggiare la situazione di vera e propria povertà che colpisce numerosi
nuclei familiari.

 Per tali
ragioni, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, il diritto ad
un’esistenza libera e dignitosa è oggi precondizione del lavoro e non
viceversa, per cui in quest’ottica si deve oggi procedere ad una lettura
coordinata degli articoli 2, 3 e 38 Costituzione.

 Nell’odierno
sistema economico/sociale il lavoro, molto spesso, non è più sufficiente ad
assicurare agli individui un’esistenza libera e dignitosa e per tale ragione lo
Stato interviene sempre di più con misure di sostegno e supporto. Già nella
decisione n, 40/2013 la Corte costituzionale ha ribadito, sulla scorta di
precedenti pronunce, che nel caso «di provvidenze destinate al sostentamento
della persona nonchè alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il
contesto familiare (…) – qualsiasi discrimina fra cittadini e stranieri
legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi
da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in
contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della
CEDO, avuto riguardo alla interpretazione rigorosa che di tale norma è stata
offerta dalla giurisprudenza della Corte europea».

 Infine, che
la condizione di «povertà» impedisca il godimento dei diritti essenziali è un
dato di fatto, tant’è che, pur nella novità delle previsioni di cui al decreto
legislativo n. 147/17, in molteplici disposizioni, tanto costituzionali, quanto
legislative affiora il concetto di povertà economica come elemento ostativo al
godimento di diritti fondamentali, e che lo Stato cerca di contrastare,
attraverso il principio di solidarietà, anche economica, di cui all’art. 2 Costituzione.

 È stato
correttamente osservato in dottrina come la povertà economica compaia in
molteplici previsioni costituzionali, primo fra tutti l’art. 3, comma 2,
Costituzione, che identifica anche negli ostacoli «di ordine economico» le
barriere da rimuovere.

 Ai «non
abbienti» l’art. 24, comma 3, Costituzione assicura, «con appositi istituti, i
mezzi per agire e difendersi in giudizio».

 La formazione
della famiglia e l’adempimento dei conseguenti compiti sono agevolati, secondo
l’art. 31, primo comma, Costituzione «con misure economiche e altre
provvidenze», mentre «cure gratuite» sono garantite «agli indigenti» dall’art.
32, primo comma, Costituzione.

 L’inabilità
al lavoro, tale da impedire il conseguimento dei mezzi necessari per vivere,
determina, in base all’art. 38, primo comma, Costituzione il «diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale» e «mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita» sono assicurati dal secondo comma del medesimo art. 38 Costituzione ai
lavoratori colpiti da infortuni, malattia, invalidità, vecchiaia e
disoccupazione involontaria.

 La
Costituzione è quindi intrisa di disposizioni che si pongono l’obiettivo di
contrastare la povertà economica, ovvero quella condizione di assenza dei mezzi
finanziari tale da impedire l’esercizio dei diritti fondamentali e di godere,
conseguentemente, di una esistenza libera e dignitosa.

 In base a
queste considerazioni non può dubitarsi che la prestazione di cui, trattasi, in
quanto finalizzata «all’affrancamento dalla condizione di povertà» abbia come
obiettivo quello di assicurare a determinati nuclei familiari quell’esistenza
libera e dignitosa che tutti, in uno Stato democratico, dovrebbero avere, per
cui certamente si tratta di prestazione interna al nucleo dei bisogni
essenziali che, in quanto tale, non può subire limitazioni (tant’è che il ReI,
secondo il comma 13 dell’art. 2 decreto legislativo n. 147/17 costituiva
«livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo
comma, lettera m), della Costituzione, nel limite delle risorse disponibili nel
Fondo Povertà»).

 Pertanto,
qualora lo Stato decida di erogare determinate prestazioni riconducibili
nell’ambito della «essenzialità», la scelta legislativa di introdurre
particolari limitazioni per il godimento di tali diritti fondamentali della
persona, riconosciuti invece ai cittadini dell’Unione, è soggetta ad un vaglio
di legittimità costituzionale (così, in motivazione, Corte costituzionale sent.
187/2010 nel richiamare la sua sentenza n. 306 del 2008).

 Di conseguenza,
per le suesposte argomentazioni la previsione dell’art. 3, decreto legislativo
n. 147/17, nella parte in cui prevede, per l’accesso al ReI (reddito di
inclusione), che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari di
un permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri in possesso
di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi), si pone in
contrasto con i principi di cui agli articoli 2, 3, 31, 38, 117 della
Costituzione, nonchè con l’art. 14 della CEDU.

 In ogni caso,
quandanche si trattasse di prestazione esterna al nucleo dei bisogni
essenziali, la limitazione contenuta nella disposizione censurata sarebbe
comunque irragionevole e quindi ancora una volta in contrasto con l’art. 3
Costituzione.

 Infatti, se è
vero che il legislatore può legittimamente decidere di circoscrivere la platea
dei beneficiari di determinate prestazioni sociali, l’eventuale limitazione
«deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3
Costituzione» e «tale principio può ritenersi rispettato solo qualora esista
una “causa normativa” della differenziazione, che sia
“giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione a cui è
subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sentenza n. 107
del 2018). Una simile ragionevole causa normativa può in astratto consistere
nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve
durata della permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi,
peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la
richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le
singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133 del 2013)» (così, in
motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018).

 Con la citata
sentenza, la Corte costituzionale, con riferimento ad una prestazione diretta a
soddisfare il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari di una persona che
versasse in condizione di povertà, ha ritenuto irragionevole il discrimina
rappresentato, per gli stranieri, dalla lunga protrazione nel tempo del
richiesto radicamento territoriale (sentenza n. 133 del 2013) (così, in
motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018).

 Nella
situazione in esame, la norma già contempla(va) il requisito del radicamento,
essendo richiesto dall’art. 3, comma 1, lett. a) n. 2, decreto legislativo n.
147/17 l’essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni
al momento di presentazione della domanda», per cui l’esclusione dei cittadini
extracomunitari sprovvisti del permesso di lungo soggiorno va, di fatto, a
penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento
dichiarato dal legislatore.

 Infatti,
molto spesso, i cittadini extracomunitari non riescono a richiedere il permesso
di lungo soggiorno, in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur
basso) prescritto a tal fine dall’art. 9 T.U. immigrazione (che deve essere non
inferiore all’assegno sociale, nel 2018, pari ad euro 5.824,00).

 Quindi, assai
di frequente i cittadini extracomunitari sprovvisti del permesso di soggiorno
di lungo periodo sono più poveri e più bisognosi di quelli che ne sono
provvisti, ma nonostante ciò sono stati esclusi dalla possibilità di accedere
ad una misura dichiaratamente finalizzata all’inserimento sociale ed
all’affrancamento dalla povertà. Nella presente situazione valgono, a maggior
ragione, le argomentazioni già recentemente evidenziate dalla Corte di
cassazione con l’ordinanza di rimessione n. 16164/19 relativa all’art. l, comma
125, legge n. 190/14 con cui sono stati irragionevolmente esclusi dal beneficio
i nati o gli adottati tra il 1° gennaio 2015 ed il 31 dicembre 2017 da genitori
cittadini extracomunitari che fruiscono di redditi non superiori ad euro
7.000,00 o ad euro 25.000,00 legalmente residenti in Italia in base ad idoneo
permesso di soggiorno e lavoro, ma sprovvisti del permesso di lungo
soggiornanti.

 Nella
fattispecie in esame la disparità di trattamento e quindi l’irragionevolezza
della norma è ancor più evidente laddove, oltre a richiedersi il requisito del
radicamento nello Stato Italiano attraverso i due anni di residenza
continuativa, si ritiene necessario, per i cittadini extracomunitari, il
permesso di lungo soggiorno, così escludendo tutti coloro che ne siano
sprovvisti, spesso per ragioni di reddito, benchè residenti legittimamente da
molti anni nel territorio italiano.

 Neppure la
disposizione oggetto di censura nel presente giudizio, al pari di quella
vagliata dalla Corte di cassazione, si raccorda con la previsione dell’art. 42
decreto legislativo n. 286/98 che, in materia di assistenza sociale, riconosce
la generale parità di trattamento tra i cittadini italiani e quelli
extracomunitari titolari di permesso di soggiorno e lavoro validi per almeno un
anno.

 Come già
rilevato, si tratta, pure in tal caso, di una disciplina contrastante con il
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Costituzione, essendo stato introdotto
un elemento di distinzione arbitrario, nella mancanza di alcuna ragionevole
correlazione tra la residenza protratta per il tempo necessario all’ottenimento
del permesso di lungo soggiorno e la situazione di disagio economico che il
legislatore ha posto alla base della provvidenza.

 Nè si
comprende la ragione per cui il legislatore non ha ritenuto sufficiente, quale
elemento indicativo di uno stabile radicamento sul territorio, il requisito
della residenza continuativa biennale, pretendendo il permesso di lungo
soggiorno.

 Anche il
reddito di inclusione era un beneficio assai limitato nel tempo, diretto a
fronteggiare una situazione contingente di bisogno, nell’ottica di un
reinserimento economico/sociale, tant’è che era «riconosciuto per un periodo
continuativo non superiore a diciotto mesi», non poteva essere rinnovato se non
trascorsi almeno sei mesi da quando ne era cessato il godimento ed in caso di
rinnovo la durata era fissata, in sede di prima applicazione, per un periodo
non superiore a dodici mesi (art. 4, comma 5, decreto legislativo n. 147/17).

 Nè, come
evidenziato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 16164/19, rilevano in
questa sede le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 50 del 2019 con riferimento all’assegno sociale, trattandosi di una misura
differente, rivolta a chi ha compiuto 65 anni di età e che persegue finalità
diverse dalla prestazione in esame che afferisce, come osservato, a bisogni
primari ed essenziali della persona.

 La disposizione
si pone quindi in contrasto, oltre che con l’art. 3 Costituzione, con gli
articoli 20, 21, 33 e 34 CDFUE che enunciano il principio di uguaglianza e di
non discriminazione, garantiscono «la protezione della famiglia sul piano
giuridico, economico e sociale» (art. 33, 1° comma, CDFUE) e «il diritto
all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire
un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse
sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni»,
ciò «al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà» (art. 34,
comma 3, CDFUE).

 A nulla
rileva, inoltre, il fatto che la legge richieda un progetto personalizzato,
poichè questo si colloca in una fase successiva alla sussistenza di tutti i
requisiti preliminari, tra cui rientra l’aspetto relativo alla platea dei
beneficiari.

 Deve infine
escludersi che la prestazione in esame ricada nell’ambito di operatività della
direttiva 2011/18, non rientrando nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3 del
Regolamento n. 883/04.

 Il
regolamento si applica infatti a «tutte le legislazioni relative ai settori di
sicurezza sociale riguardanti:

 a) le
prestazioni di malattia;

 b) le
prestazioni di maternità e di paternità assimilate;

 c) le prestazioni
d’invalidità;

 d) le
prestazioni di vecchiaia;

 e) le
prestazioni per i superstiti;

 f) le
prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali;

 g) gli
assegni in caso di morte;

 h) le
prestazioni di disoccupazione;

 i) le prestazioni
di pensionamento anticipato;

 j) le
prestazioni familiari (art. 3, comma 1, regolamento CEE 883/04).

 Secondo
l’art. 1, lett. z) del Regolamento per prestazioni familiari si intendono
«tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi
familiari, ad esclusione degli anticipisugli assegni alimentari e degli assegni
speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I».

 La finalità
della prestazione in esame, diversamente da altre, non pare quella di
compensare i carichi familiari, poichè il suo riconoscimento non è subordinato
alla sussistenza di nucleo familiare numericamente consistente, ma alla
situazione di povertà del nucleo familiare, che può essere semplicemente
composto anche da solo due persone, come nel caso dell’art. 3, comma 2, lett.
c), decreto legislativo n. 147/17 (che richiede la presenza di due sole
persone, una delle quali in stato di gravidanza accertata).

 Ciò che si
comprende da una disamina complessiva del disposto normativo è che il reddito
di inclusione aveva la chiara e dichiarata finalità di aiutare nuclei familiari
in situazione di povertà ed in cui questa situazione di povertà economica si
accompagnava ad una situazione di particolare svantaggio derivante dalla
presenza, nel nucleo familiare, di soggetti deboli e non lavorativamente
attivi, come figli minori, donne in gravidanza, disabili o disoccupati.

 Non si tratta
però di una misura di sostegno finalizzata a compensare carichi familiari, ma a
sollevare dallo stato di bisogno nuclei familiari anche piccoli, affrancandoli
dalla condizione di povertà attraverso l’erogazione di un sussidio economico e
la predisposizione di un «progetto personalizzato di attivazione e di
inclusione sociale e lavorativa», da qui l’inapplicabilità della direttiva
2011/98.

 In ogni caso,
quand’anche la direttiva 2011/98 fosse applicabile, ciò non impedirebbe un
vaglio di legittimità della disposizione per le motivazioni già esposte dalla
Corte di cassazione con la richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono
qui richiamate.

 Si rende
quindi necessario investire la Corte costituzionale della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a), n. 1), decreto
legislativo n. 147/17 nella parte in cui prevede, per l’accesso al ReI (reddito
di inclusione) che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari
di un permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri
legalmente soggiornanti poichè in possesso di permesso di soggiorno per motivi
di lavoro (o per altri motivi), norma che, in virtù delle considerazioni sopra
esposte, è rilevante nell’ambito del giudizio instaurato dalla ricorrente.

 Inoltre la
questione non appare manifestamente infondata, posto che la norma introduce una
ingiustificata ed irragionevole discriminazione a sfavore dei cittadini di
paesi terzi legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato Italiano, ma
sprovvisti del permesso di lungo soggiorno, in violazione degli art. 2, 3, 31,
38, 117 della Costituzione, dell’art. 14 CEDU e degli articoli 20, 21, 33 e 34
CDFUE.

 Per
completezza, infine, con riferimento all’eccezione di inammissibilità della
questione sollevata dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio di fronte alla
Corte costituzionale, occorre ricordare che non sarebbe la prima volta in cui
la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una disposizione nazionale
per aver subordinato l’erogazione di una prestazione
previdenziale/assistenziale a favore di uno straniero al possesso, da parte del
medesimo straniero, del permesso di soggiorno di lungo periodo (v. Corte
costituzionale 306/08 in tema di indennità di accompagnamento; sent. 187/10 in
tema di assegno mensile di invalidità; sent. 329/11 in tema di indennità di
frequenza).

 

P.Q.M.

 

Sospende il giudizio e dispone la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale, ordinando che, a cura della cancelleria,
l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sia notificata alle parti
in causa, al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai presidenti delle due
Camere del Parlamento.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. del 25 agosto 2021, n. 34

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 29 gennaio 2021, n. 113
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: