Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2021, n. 27311

Licenziamento collettivo, Comunicazione, Gestione degli
esuberi dichiarati, Applicazione dei criteri di scelta legali

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 2016/2019, pubblicata il 13 maggio
2019, la Corte di appello di Roma ha confermato, salvo che nel regolamento
delle spese, la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della
medesima sede, decidendo in sede di opposizione, aveva respinto – come già
all’esito della fase sommaria – la domanda proposta da A.G. volta a ottenere la
declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli da A.C. S.p.A. il
22/12/2016, unitamente agli altri lavoratori già addetti alle Divisioni 1 e 2
dell’unità produttiva di Roma, a seguito di procedura ex art. 4 ss. I. 23
luglio 1991, n. 223 avviata con lettera del 5/10/2016.

2. La Corte di appello, a sostegno della propria
decisione:

– ha escluso che la datrice di lavoro si fosse
obbligata a non procedere ai licenziamenti per un periodo di sei mesi in virtù
dell’Accordo concluso in data 30/5/2016, che, nel revocare una prima procedura
di licenziamento collettivo, aveva previsto, con decorrenza 1/6/2016, il
ricorso al contratto di solidarietà;

– ha ritenuto che la comunicazione di inizio della
procedura rispondesse alle finalità proprie dell’art. 4 I. n. 223/1991,
contenendo tutti gli elementi necessari a rendere effettivo il confronto con le
organizzazioni sindacali, non soltanto con riguardo alle ragioni della crisi
aziendale e alle specifiche criticità delle sedi interessate ma anche con
riguardo alla dimensione degli esuberi dichiarati e che, in relazione a
quest’ultimo punto, non rilevasse in senso contrario la circostanza che la
società, nelle lettere di recesso, avesse manifestato la propria disponibilità
a valutare eventuali richieste di trasferimento ad altre unità produttive sul
territorio nazionale, per un numero limitato di posizioni (75), non risultando
che le organizzazioni sindacali avessero mai preso in considerazione, nel corso
dei numerosi incontri successivi all’avvio della procedura, la soluzione dei
trasferimenti al fine di limitare gli effetti sul piano occupazionale del
programma di riorganizzazione e di ridimensionamento dell’impresa;

– ha escluso la sussistenza di un comportamento
ritorsivo o discriminatorio nei confronti dei dipendenti dell’unità produttiva
di Roma, poiché le RSU della stessa, rifiutando, in esito all’incontro in sede
ministeriale del 21-22/12/2016, la prosecuzione del confronto con il
contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (a differenza delle RSU
dell’unità produttiva di Napoli), avevano accettato che la società procedesse
alla gestione degli esuberi dichiarati mediante applicazione, per l’unità
produttiva di Roma, dei criteri di scelta legali;

– ha considerato legittima la delimitazione della
platea dei licenziandi ai lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma,
avuto riguardo all’ambito del progetto di ristrutturazione aziendale e alla
compiuta e analitica indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura,
delle ragioni tecnico-produttive che non consentivano di estendere l’ambito
della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre
unità;

– ha ritenuto infine legittima l’esclusione del
personale con contratto di lavoro parasubordinato dall’applicazione dei criteri
di scelta, in assenza degli elementi dai quali desumere che le collaborazioni
coordinate e continuative in essere presso la società integrassero la speciale
categoria di collaborazioni previste dal decreto legislativo n. 81/2015 e
tenuto conto dell’assegnazione del personale in questione ad attività del tutto
diverse da quelle svolte dai destinatari dei provvedimenti di licenziamento.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione il G. con nove motivi, cui ha resistito la società con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sul rilievo che
la Corte di appello aveva omesso di pronunciarsi sulla questione della
illegittimità del licenziamento perché intimato all’esito di una procedura
avviata prima della scadenza del semestre di moratoria al cui rispetto la
società si era impegnata in occasione della stipula del contratto di
solidarietà, illegittimità che era stata oggetto di doglianza in entrambe le
fasi del giudizio di primo grado e in grado di appello.

2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione
e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 cod. civ., nonché degli
artt. 1375, 1218, 1455, 1460 e 1183 cod. civ., in relazione all’Accordo del 30
maggio 2016, avendo la Corte erroneamente ritenuto che, con l’art. 6 di tale
Accordo, le parti avessero concordato semplicemente una mera facoltà, e non un
obbligo, per il datore di lavoro, di astenersi dall’adottare licenziamenti
collettivi nel periodo di sei mesi dalla stipula del contratto di solidarietà e
di fare ricorso alla CIGS per la gestione di eventuali esuberi successivi.

3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. 23 luglio 1991, n. 223, nonché
dell’art. 1375 cod. civ., per avere la Corte dì appello ritenuto che la società
avesse correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto dalla procedura,
nonostante che la disponibilità ad attenuare gli effetti degli esuberi mediante
la ricollocazione di 75 lavoratori fosse stata omessa nella comunicazione di
avvio e prospettata soltanto nelle successive lettere di recesso.

4. Con il quarto, deducendo violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 I. n. 223/1991, degli artt. 24 e 25 d.lgs. n.
148/2015, degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 216/2003 e degli artt. 1343, 1344 e 1345
in combinato disposto con l’art. 1375 cod. civ., il ricorrente censura la
sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso un intento ritorsivo o
discriminatorio nella decisione della società di procedere ai licenziamenti dei
lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, senza valutare se il rifiuto
del datore di lavoro di ricorrere alla Cassa Integrazione Guadagni, pur in
presenza delle condizioni per accedervi, fosse giustificato ovvero rispondente
a correttezza e buona fede, altrimenti determinandosi un oggettivo effetto di
discriminazione, in sede di cessazione del rapporto, nei confronti dei
lavoratori di Roma, destinatari di un trattamento diverso rispetto ai colleghi
di Napoli e riconducibile esclusivamente ad un dissenso che era espressione
della libertà sindacale.

5. Con il quinto motivo (indicato in ricorso come
sesto), denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363,
1366, 1367, nonché dell’art. 1375 cod. civ., la ricorrente censura la sentenza
impugnata per avere configurato, nel Verbale di incontro del 21-22 dicembre
2016, un accordo per la delimitazione del bacino di comparazione.

6. Con il sesto motivo (indicato in ricorso come
settimo) è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. n.
223/1991 per avere la sentenza di appello ritenuto che, con il medesimo
Verbale, le parti avessero realizzato un accordo sui criteri di scelta,
concentrandone ed esaurendone gli effetti nelle Divisioni 1 e 2 della sede di
Roma, senza considerare che le organizzazioni sindacali possono bensì stipulare
criteri alternativi a quelli legali, ma non hanno la disponibilità del bacino
di riferimento la cui nozione è indisponibile e riguarda le mansioni fungibili
del “complesso aziendale”.

7. Con il settimo motivo (indicato in ricorso come
ottavo) il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4,
5 e 24 I. n. 223/1991, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha
ritenuto legittima la scelta datoriale di limitare il bacino di comparazione
del personale alle sole Divisioni 1 e 2 dell’unità produttiva di Roma, con ciò
violando la previsione normativa, secondo la quale l’ambito di selezione degli
esuberi di una procedura di licenziamento collettivo deve inderogabilmente
riguardare posizioni professionali omogenee impiegate nell’intero complesso
aziendale.

8. Con l’ottavo motivo (indicato in ricorso come
nono), deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 5 I. n. 223/1991,
degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., nonché
nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., il
ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto
irrilevante la circostanza che alcune commesse fossero state trasferite dalla
sede di Roma ad altre unità produttive, non essendovi certezza che qualora
fosse stata operata la comparazione tra lavoratori, il dipendente proveniente
dalla sede di Roma sarebbe stato certamente destinato alla sede ove era stata
trasferita la commessa e che ivi fosse presente una posizione lavorativa
identica per contenuti e modalità orarie della prestazione: la Corte
territoriale, in tal modo, aveva erroneamente posto a carico del ricorrente una
prova di resistenza rispetto ai lavoratori impiegati nelle altre unità
produttive, alle quali erano state trasferite le commesse, trascurando di
considerare che compete al datore di lavoro dimostrare, e non soltanto indicare,
le ragioni che non consentono la comparazione con il personale addetto a
mansioni omogenee impiegato nelle altre unità produttive non toccate dal
progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale.

9. Con il nono motivo (indicato in ricorso come
decimo), deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. cod.
civ., dell’art. 414 cod. proc. civ., nonché degli artt. 4, 5 e 24 I. 23 luglio
1991, n. 223, della Direttiva 98/59/UE e dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, il
ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha erroneamente
ritenuto che i lavoratori con rapporto di parasubordinazione presenti negli
uffici di Roma non potessero essere suscettibili di “equiparazione”
normativa con i lavoratori dipendenti e, quindi, non potessero essere
ricondotti alla nozione di lavoratore rilevante ai fini della I. n. 223/1991.
In subordine, ha prospettato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in
ordine alla nozione eurounitaria di lavoratore rilevante ai fini della
procedura di licenziamento collettivo.

10. Il primo motivo è infondato.

10.1. La Corte territoriale, esaminando l’Accordo
del 30 maggio 2016, ha rilevato come la previsione della possibilità di gestire
eventuali esuberi, che dovessero residuare al termine di sei mesi del contratto
di solidarietà, attraverso il ricorso all’integrazione salariale prevista
dall’art. 44, comma 7, del d.lgs. n. 148/2015, contenuta nella clausola di cui
all’art. 6, non vincolasse ad alcun impegno specifico la società, ma si
limitasse a contemplare solo una “possibilità” di gestire gli
esuberi, osservando, su tale premessa, come “il tenore letterale
dell’accordo” fosse “incompatibile con la definitività della
moratoria” (cfr. sentenza, p. 14).

10.2. Con tale accertamento la Corte territoriale ha
puntualmente risposto alla questione che le era stata posta con l’atto di
reclamo dell’odierno ricorrente e cioè l’esistenza di una
“obbligazione” assunta dalla società con la sottoscrizione
dell’Accordo (di cui il reclamante dichiarava di voler profittare ai sensi
dell’art. 1411 cod. civ.), di “un esplicito impegno”, concordato
dalle parti, “a non ricorrere al licenziamento collettivo per la gestione degli
esuberi, dovendo ricorrere, invece, a misure conservative dei rapporti di
lavoro con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali”, con i conseguenti
effetti di illegittimità del recesso e suo annullamento, secondo quanto risulta
dalla trascrizione del medesimo atto di reclamo (cfr. ricorso, p. 8).

II. Il secondo motivo è inammissibile.

11.1. La Corte di appello, nell’escludere che
l’Accordo del 30 maggio 2016 prevedesse alcun obbligo o impegno specifico a
carico della società, ne ha sottolineato la correlazione con altro impegno
assunto dalle organizzazioni sindacali a sottoscrivere un accordo sulla gestione
della qualità della produttività e su temi legati all’incremento della
competitività, accertando inoltre cne le sigle sindacali non avevano aderito –
specifico punto di fatto non censurato dal ricorrente -“ad alcuna
sollecitazione proveniente dall’azienda relativamente all’oggetto di questo
accordo nonostante risulti in atti la richiesta di avvio del tavolo per la
definizione di gran parte di queste condizioni” (cfr. ancora sentenza, p.
14).

11.2. In tal modo la Corte ha individuato il nesso
di interdipendenza fra i rispettivi impegni delle parti e compiuto una
valutazione comparativa del loro comportamento alla luce delle circostanze in
cui l’Accordo del 30/5/2016 era stato stipulato, della situazione di crisi
aziendale, delle finalità e degli obiettivi presenti ai negoziatori nel
sottoscriverlo, svolgendo un accertamento di fatto correttamente e
adeguatamente motivato e che, insieme con il ricordato argomento letterale
(10.1.), sottrae la lettura dell’Accordo stesso alle censure formulate con il
motivo in esame.

12. Il terzo motivo è inammissibile.

12.1. E’ stato invero ripetutamente affermato che la
comunicazione, di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 4 I. 23 luglio 1991, n. 223, ha
sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva
trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il
processo decisionale seguito dal datore di lavoro per l’individuazione dei
lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall’azienda; e che la
verifica di adeguatezza, a tali fini, della comunicazione di avvio della
procedura costituisce oggetto di valutazione devoluta al giudice di merito, non
censurabile in sede di legittimità se assistita da congrua motivazione (Cass.
n. 15479/2007, fra le molte conformi).

12.2. Nella specie, la Corte di appello ha posto in
rilievo come nella comunicazione in data 5 ottobre 2016, al punto V, la società
avesse espressamente dichiarato la propria disponibilità a valutare nel corso
dell’esame congiunto l’adozione di tutte le misure organizzative che
consentissero di fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della
programmata riduzione del personale e come, fra queste misure, vi fossero anche
“i trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali”, in tal
modo indicando la sussistenza di posizioni lavorative libere presso le altre
unità produttive non coinvolte dalla procedura: posizioni, e relative
possibilità di trasferimento, che non furono mai, nel corso del confronto,
prese in esame dalle organizzazioni sindacali, secondo quanto accertato dalla
stessa Corte, anche sulla scorta delle risultanze di un procedimento ex art. 28
I. n. 300/1970 instaurato avanti al Tribunale di Roma da una delle
organizzazioni sindacali che parteciparono alla consultazione (cfr. sentenza
impugnata, p. 18).

13. Il quarto motivo non può egualmente trovare
accoglimento.

13.1. Esso, infatti, non si misura direttamente con
la chiara sequenza procedimentale prevista dalla I. n. 223/1991 e con il
percorso motivazionale, che ha condotto la Corte ad escludere ogni intento
discriminatorio e punitivo dei lavoratori della sede di Roma, in particolare
con la considerazione dei licenziamenti intimati a questi ultimi quale effetto
del rifiuto delle RSU della unità produttiva di Roma di proseguire il
confronto, a differenza delle RSU dell’unità produttiva di Napoli, e del
completamento della procedura avviata con la comunicazione del 5 ottobre 2016.

13.2. L’art. 4, comma 9, I. cit. prevede, infatti,
che “raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai
commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e
i quadri eccedenti”, comunicando a ciascuno di essi il recesso.

13.3. Come esattamente osservato nella sentenza
impugnata, il mancato raggiungimento di un’intesa fra le parti non si pone come
la causa del licenziamento collettivo, ma, per espressa previsione normativa,
l’avvio della procedura per la dichiarazione di mobilità è conseguenza
dell’accordo mancato.

13.4. La sentenza impugnata ha inoltre escluso che
la CIGS abbia costituito una leva di contrattazione utilizzata dalla società
quale contropartita per ottenere dai lavoratori della sede di Roma la rinuncia
ai loro diritti e che gli addetti alla sede di Napoli hanno potuto fruire di
tale misura di sostegno in quanto il perdurare delle trattative, come stabilito
nel Verbale di incontro del 22 dicembre 2016, dava ragione di ritenere la
possibilità di un loro reimpiego in azienda a diverse condizioni: ciò che
risulta conforme alla natura e allo scopo della CIGS, che è un mezzo di sostegno
alle imprese nei casi in cui la situazione di crisi abbia carattere temporaneo
e la prosecuzione dei rapporti di lavoro sospesi risulti possibile.

14. Il quinto motivo é inammissibile.

14.1. La sua formulazione, infatti, non risulta
conforme al principio, secondo il quale la parte che, con il ricorso per
cassazione, si proponga di denunciare un errore di diritto o un vizio di
ragionamento nell’interpretazione di un contratto o di una sua clausola, non
può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ.,
avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed
in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli
stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione
tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata,
poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una
delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale
sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che
aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi
in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n.
28319/2017, fra le molte conformi).

15. Il sesto motivo è infondato.

15.1. Come più volte affermato nella giurisprudenza
di questa Corte, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto
indicato dall’art. 5 della legge 23 Luglio 1991, n. 223, un accordo inteso a
disciplinare l’esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in
esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purché
rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità (Cass. n. 4186/2013;
conformi: n. 7710/2018; n. 2694/2018; n. 6959/2013).

16. Il settimo e l’ottavo motivo, che possono essere
esaminati congiuntamente per la connessione che li lega, sono parimenti
infondati.

16.1. Premesso quanto già sopra rilevato (12.1.) e
premesso che la valutazione di adeguatezza della comunicazione di avvio della
procedura risulta nella specie compiuta dalla Corte di appello, la quale ha
motivatamente disatteso i rilievi di incompletezza della comunicazione in data
5/10/2016, accertando come in essa fossero presenti gli elementi conoscitivi
necessari ad un effettivo confronto tra le parti, con riguardo all’andamento
economico delle sedi di Roma e di Napoli, alla dimensione degli esuberi
programmati e alla impossibilità di attuare trasferimenti o altre misure
alternative ai licenziamenti, si deve qui ribadire il principio, del tutto
consolidato, secondo il quale la I. n 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4
e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento
datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento
innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato
ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa
imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex
ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di
informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di
trasferimenti di azienda; sicché i residui spazi di controllo devoluti al
giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della
riduzione del personale ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi
compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato
ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che
non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le
quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai
citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di
controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine
di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire
l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive”
esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (cfr., da
ultimo, fra le molte conformi, Cass. n. 30550/2018).

16.2. E’ inoltre risalente e ampiamente consolidato
l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, in caso di licenziamento
collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione
aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o a uno
specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di
individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente
interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta
dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze
tecnico-produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del
settore interessato alla ristrutturazione in quanto ciò non è il frutto di una
determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente
giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione
di personale (Cass. n. 10590/2005).

16.3. Su tale premessa è stato precisato che, in tal
caso, il datore di lavoro deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3,
della legge n. 223 del 1991 sia le ragioni alla base della limitazione dei
licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni
per cui non ritiene di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento ad
unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta, onde
consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità
dei programmati licenziamenti (Cass. n. 22655/2012).

16.4. Lo stretto collegamento tra delimitazione del
bacino di comparazione e lettera di avvio della procedura di licenziamento
collettivo ha trovato ulteriore conferma in Cass. n. 4678/2015, la quale ha
stabilito il principio, per il quale, ove il progetto di ristrutturazione si
riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze di cui all’art.
5, comma 1, I. n. 223/1991, pur riferite dalla norma al “complesso
aziendale”, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione
della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella
comunicazione ex art. 4, comma 3, I. cit., sia le ragioni che limitino i
licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni
per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive
vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare
l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (conforme, fra altre, Cass.
n. 22178/2018).

16.5. Nella specie, e come sopra osservato, la Corte
di appello ha accertato, con ampia motivazione, la presenza nella comunicazione
in data 5/10/2016 degli elementi necessari a definire le ragioni
tecnico-produttive e organizzative che giustificavano la concentrazione dei
lavoratori da licenziare nelle Divisioni 1 e 2 della sede di Roma (oltre che di
Napoli, sede per la quale, tuttavia, l’esito del confronto è stato diverso) e
così gli elementi funzionali ad una effettiva informazione e consultazione
delle organizzazioni sindacali, nell’ottica di puntuale, completa e cadenzata
procedimentalizzazione già sottolineata dalla giurisprudenza citata.

16.6. Non risulta, d’altronde, contestato che le
unità produttive interessate dal progetto di ristrutturazione costituissero
articolazioni dell’azienda caratterizzate da condizioni imprenditoriali di
indipendenza tecnica e amministrativa, esaurendosi in esse il ciclo produttivo
dato dalle commesse (Cass. n. 13705/2012; conforme Cass. n. 26376/2008).

17. Il nono motivo di ricorso è inammissibile e
comunque infondato.

17.1. La sentenza impugnata ha rilevato che il
d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 assimila ai rapporti di lavoro subordinato solo le
collaborazioni organizzate dal committente e cioè quelle nelle quali il datore
di lavoro abbia indicato tempi e luoghi della prestazione al lavoratore
dipendente, riscontrando come nel caso concreto non vi fosse “alcun
elemento dal quale desumere che le collaborazioni coordinate continuative
svoltesi presso A. integrassero questa speciale categoria di
collaborazioni”; ha inoltre rilevato come non fosse neppure emerso dagli
atti e documenti di causa se i contratti di collaborazione in oggetto fossero
stati stipulati in epoca successiva alla data di entrata in vigore del d.lgs.
n. 81/2015 (cfr. p. 19).

17.2. Entrambi i rilievi non hanno formato oggetto
di censura con il motivo in esame, che peraltro sembra prescindere da una
verifica in concreto delle modalità di organizzazione della prestazione che è
invece richiesta dall’art. 2, c. 1, d.lgs. citato affinché possano stabilirsi
le condizioni per l’assimilazione della collaborazione al rapporto subordinato.

17.3. Quanto alla nozione di “lavoratore
dipendente” nel diritto UE, la Corte di Giustizia ha chiarito che la
qualifica di “prestatore autonomo”, ai sensi del diritto nazionale,
non esclude che una persona debba essere qualificata come
“lavoratore”, ai sensi del diritto dell’Unione, se la sua
indipendenza è solamente fittizia e nasconde in tal modo un vero e proprio
rapporto di lavoro; con la conseguenza che lo status di “lavoratore”
ai sensi del diritto dell’Unione non può essere pregiudicato dal fatto che una
persona è stata assunta come prestatore autonomo di servizi ai sensi del
diritto nazionale, per ragioni fiscali, amministrative o burocratiche, purché
tale persona agisca sotto la direzione del suo datore di lavoro, per quanto
riguarda in particolare la sua libertà di scegliere l’orario, il luogo e il
contenuto del suo lavoro, non partecipi ai rischi commerciali di tale datore di
lavoro e sìa integrata nell’impresa di detto datore di lavoro per la durata del
rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica (sentenza 4 dicembre
2014, in causa C- 413/13, punti 35-36; cfr. anche sentenza 11 dicembre 2015, in
causa C-422/14, punti 28-30).

17.4. La giurisprudenza UE richiama, quindi, alla
necessità di una verifica in concreto delle modalità e delle condizioni di
svolgimento del rapporto, in relazione alla quale non risulta dedotta la
formulazione di pertinenti e idonee allegazioni in alcun grado di merito.

18. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

19. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

20. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dell’art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2021, n. 27311
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