Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2022, n. 26407

Lavoro, Distacco, Risoluzione del rapporto, Licenziamento
orale, Illegittimità

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza
impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege
n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale il
Tribunale di Massa aveva dichiarato l’illegittimità del provvedimento di
distacco adottato nei confronti di S.R. dalla società L’A.S.C. nel novembre
2014 e accertato che con la distaccataria O. S.r.l. si era costituito un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il Tribunale aveva, poi, dichiarato
“nullo il provvedimento di risoluzione del rapporto intimato dalla O. S.r.l.
perché privo della forma scritta”, condannando la società a reintegrare la
lavoratrice, oltre alle pronunce patrimoniali conseguenziali;

2. La Corte, in sintesi e per quanto qui rileva, ha
escluso, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, che il licenziamento
orale dovesse essere impugnato e, per quanto riguarda l’eccepita decadenza ai
sensi dell’art. 32, comma 4,
lett. d), l. n. 183 del 2010, ha confermato “il carattere inequivoco del
documento in data 5 marzo 2015, sottoscritto dalla lavoratrice e dalla
responsabile dell’Ufficio Vertenze della Camera del Lavoro di Carrara, avente
quale esplicito oggetto l’impugnativa del ‘distaccò di cui alla comunicazione
del 7 gennaio 2015, documento con il quale si contestava l’illegittimità dello
stesso distacco e della sua comunicata cessazione”, “lo stesso valendo anche
come inequivoca offerta, da parte della lavoratrice, della propria prestazione
lavorativa nei confronti della società reclamante, che riteneva essere evidentemente
l’effettiva sua datrice di lavoro e in coerenza con la ritenuta illegittimità
del distacco”.

3. In merito al licenziamento privo della forma
necessaria, la Corte ha condiviso l’assunto del Tribunale, atteso che, a fronte
di una formale offerta della prestazione lavorativa da parte della R., “la
società reclamante non ha pacificamente consentito alla lavoratrice di
continuare a lavorare alle sue dipendenze e nemmeno ha risolto il rapporto di
lavoro con una comunicazione scritta”. Ha poi escluso che il comportamento
della R., in fatto, potesse essere considerato “come equivalente a dimissioni
da parte della lavoratrice o come risoluzione consensuale del rapporto di
lavoro tra la stessa e la società reclamante”, rilevando altresì che anche la
percezione del TFR e la nuova occupazione lavorativa non costituivano elementi
tali da integrare un mutuo consenso volto ad una risoluzione tacita
consensuale.

4. La Corte d’appello ha poi confermato la sentenza
impugnata circa “la illegittimità del distacco, essendosi sostanzialmente
risolta in una illecita somministrazione di manodopera”, essendo “pervenuta a
tale giudizio […] ricostruendo correttamente le circostanze di fatto, come
emerse dall’istruttoria, attraverso i documenti e le dichiarazioni testimoniali,
ed anche dalle stesse prospettazioni delle parti”; con la conseguenza che la
Corte non ha ritenuto “necessaria alcuna ulteriore attività istruttoria, in
quanto, […], la ricostruzione della vicenda storica è stata già
esaustivamente raggiunta”.

5. Per la cassazione di tale decisione ha proposto
ricorso la O. s.r.l., notificato in data 12 agosto 2019, affidando
l’impugnazione a quattro motivi, cui ha resistito l’intimata con controricorso
depositato il 18 giugno 2021.

6. In prossimità della pubblica udienza il
Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

La parte ricorrente ha comunicato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente deve essere dichiarata la
tardività del controricorso della R. notificato oltre il termine previsto dall’art. 370 c.p.c.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione
e falsa applicazione dell’art.
32, comma 4, lett. d), l. n. 183/2010, e dell’art.
1362 c.c., per “erronea attribuzione di efficacia di impugnazione alla
comunicazione del 5/3/2015”; si sostiene che detta comunicazione, se
correttamente interpretata, “non poteva valere come manifestazione di volontà
di chiedere l’accertamento del rapporto in capo ad un soggetto diverso dal
titolare del contratto”.

La censura è inammissibile perché con la stessa si
propone una diversa interpretazione della manifestazione di volontà contenuta
nella comunicazione del 5 marzo 2015, invocando un sindacato che esorbita dai
poteri di questo giudice di legittimità.

È noto, infatti, che anche l’accertamento della
volontà si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014),
riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067
del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), salva la denuncia della violazione delle
regole di ermeneutica o di un vizio di motivazione.

Inoltre, sia la denuncia della violazione delle
regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una
specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è
realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e
contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le
censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella
mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra
le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n.
22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053
del 2000).

Nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui
è pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza, si limita a
rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole; ma per
sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo
negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in
astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni;

sicché, quando di un testo sono possibili due o più
interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto
l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di
legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006); infatti il ricorso per
cassazione – riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione
di carattere confutativo – laddove censuri l’interpretazione del negozio
accolta dalla sentenza impugnata non può assumere tutti i contenuti di cui quel
modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità
dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con relativa
dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti
presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche
implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non
potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso
sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di
giustificazione prospettate come più congrue (per tutte: Cass. n. 18375 del
2006).

3. Il secondo mezzo denuncia la violazione dell’art. 6 l. n. 604 del 1966,
criticando la Corte genovese per avere ritenuto non necessaria l’impugnazione
del licenziamento orale.

Il motivo è infondato.

Per pacifica giurisprudenza di questa Corte, dalla
quale il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi, l’azione per far valere
l’inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all’impugnazione
stragiudiziale, anche a seguito delle modifiche apportate dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010
all’art. 6 della l. n. 604 del
1966, mancando l’atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di
decadenza (Cass. n. 523 del 2019; Cass. n. 25561 del 2018; Cass. n. 22825 del 2015; in precedenza v. Cass. n. 3022 del 2003).

4. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., assumendo che “non è stata
raccolta alcuna prova in ordine ad una espulsione posta in essere da O. verso
S.R.”, non essendo sufficiente “la circostanza – invero neutra – secondo cui
alla Sig. R. non è stato consentito di continuare a lavorare per O.”.

Anche tale doglianza non può trovare accoglimento.

Va premesso che la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai
sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione
delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e
non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia
svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n.
13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento
operato dai giudici del merito circa l’esistenza della prova del licenziamento
privo di forma adeguata, opponendo una diversa valutazione.

Ribadito, poi, che il lavoratore che impugni il
licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta
ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la
risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure
manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova
della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. n. 3822 del 2019; Cass. n. 13195 del 2019), nella specie la Corte
territoriale non ha affatto ritenuto la prova del recesso sulla base della mera
cessazione dell’attività lavorativa, quanto piuttosto desumendola dal
comportamento concludente della società che, a fronte della richiesta della R.
di continuare a lavorare alle sue dipendenze, non lo ha consentito, escludendo
altresì, sulla base di apprezzamenti in fatto, che dal comportamento della R.
potesse desumersi la volontà di dimettersi ovvero un mutuo consenso rivolto ad
una risoluzione tacita (apprezzamenti, questi, non rivalutabili innanzi a
questa Corte: v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017). 5. L’ultimo motivo
deduce, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.,
la violazione dell’art. 437 c.p.c. per mancato
espletamento delle prove, sia avuto riguardo all’indagine che sarebbe stata
necessaria per accertare l’oralità del licenziamento, sia in ordine alla
“erronea ritenuta insussistenza di un legittimo interesse al distacco da parte
della Cooperativa L.A.”.

La censura non merita condivisione.

Per risalente insegnamento di questa Corte, la
mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per
cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di
motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non
ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze
tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità,
l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il
convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a
trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011;
più di recente Cass. n. 16214 del 2019); inoltre spetta esclusivamente al
giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza
di quelli richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6, primo comma, della Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare l’ammissibilità di mezzi
di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011;
Cass. n. 17004 del 2018) – con una valutazione che non è sindacabile nel
giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata
formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.,
così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); vizio
nella specie neanche invocabile in presenza della preclusione posta dall’art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in presenza
di una c.d. doppia conforme (v., tra molte, Cass.
n. 23021 del 2014).

Inoltre, nella specie parte ricorrente non dimostra
adeguatamente né l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento
dell’istanza istruttoria ed il rigetto della pretesa azionata, né che la
pronuncia, senza quel preteso errore decisivo addebitato al giudice, sarebbe
stata diversa (v. Cass. n. 22672 del 2018; Cass. n. 7037 del 2020).

In realtà, i giudici di merito hanno ritenuto
concordemente che la ricostruzione della vicenda storica fosse stata raggiunta
sulla base del materiale probatorio già acquisito al giudizio, stimando
superflua ogni ulteriore indagine, esprimendo così un convincimento che è
tipico del giudizio di merito e che non può essere veicolato in uno dei vizi
tassativamente elencati nell’art. 360 c.p.c.

6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto;
non occorre provvedere sulle spese in difetto di attività difensiva
tempestivamente attuata dall’intimata. Occorre invece dare atto della
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002, come modificato dall’art.
1, co. 17, l. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2022, n. 26407
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