Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2022, n. 33079

Tributi, IRPEF, Redditi di lavoro dipendente corrisposto
dalla S.I.A.E., Contribuente residente in Svizzera, Accertamento effettiva
residenza ai fini fiscali, Criteri

 

Fatti di causa

 

1. Con avviso di accertamento in materia di IRPEF
l’Agenzia delle Entrate imputò al contribuente G.P.R. di aver percepito
nell’anno d’imposta 2003 un reddito da lavoro dipendente, corrisposto dalla
S.I.A.E., non dichiarato.

L’Ufficio ritenne applicabile l’art. 2, comma 2-bis,
d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che prevede la presunzione legale, salvo prova
contraria, di residenza in Italia dei soggetti emigrati in paesi a regime
fiscale privilegiato, tra cui, ratione temporis, la Svizzera.

Secondo l’Agenzia infatti il contribuente – benché
risultasse cancellato dall’anagrafe della popolazione residente nel 1989,
emigrato in Svizzera nel 1989 ed iscritto all’A.I.R.E nel 1990 – avrebbe dovuto
considerarsi comunque residente in Italia nell’anno d’imposta in questione,
essendo nel territorio dello Stato proprietario di immobili, intestatario di
utenze elettriche e telefoniche e titolare di partita IVA aperta nel 2000, ed
avendo legami familiari con la moglie, non legalmente separata, ed i figli,
residenti in Italia. Il contribuente propose ricorso e l’adita Commissione
tributaria provinciale di Genova lo respinse.

La Commissione tributaria regionale della Liguria,
con la sentenza di cui all’epigrafe, accolse l’appello del contribuente e
riformò la sentenza di prime cure, ritenendo che il R. fosse effettivamente
residente in Svizzera ai fini fiscalmente rilevanti.

Avverso la sentenza d’appello, l’Agenzia delle
Entrate ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Il contribuente si è costituito con controricorso ed
ha prodotto memoria.

Il Sostituto Procuratore generale ha concluso
chiedendo di rigettare il ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, rubricato «Violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 2, comma 2 bis, D.P.R. 917/1986 nonché dell’art.
2729 cod.civ., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c.», l’Agenzia delle
Entrate ha premesso che l’art. 2, comma 2-bis, d.P.R. n. 917 del 1986, pone
un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve
provare di risiedere effettivamente in uno dei paesi a regime fiscale
privilegiato (nel caso di specie, la Svizzera).

Quindi la ricorrente ha rappresentato i fatti e le
circostanze risultanti dal giudizio, ribadendo che, a suo dire, essi avrebbero
dovuto indurre la CTR a ritenere che il contribuente, nell’anno d’imposta in
questione, non avesse fornito la prova contraria, della quale era onerato, di
residenza effettiva in Svizzera nell’anno d’imposta in questione.

A tale conclusione la ricorrente perviene assumendo
che i documenti prodotti in giudizio dal contribuente sarebbero
“inammissibili” nel processo, in quanto scritti in lingua diversa da
quella italiana, contrariamente a quanto prescrivono gli artt. 122 e 123 cod.
proc. civ.

Inoltre, gli stessi documenti, riferiti ad un
periodo successivo a quello accertato dall’atto impositivo, sarebbero
irrilevanti. Viceversa, la documentazione prodotta dall’Agenzia a sostegno
della pretesa tributaria sarebbe concludente e confermativa della residenza
effettiva in Italia del contribuente.

2. Con il secondo motivo, rubricato «Difetto di
motivazione: art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.», l’Agenzia delle Entrate ha
sostenuto che la sentenza impugnata fosse sostanzialmente priva di motivazione,
essendo le argomentazioni rassegnate dalla CTR apodittiche, generiche ed
apparenti, prive di riferimenti al materiale istruttorio ed illogiche nel
ritenere rilevante, nella parte della motivazione specificamente destinata alla
valutazione del materiale istruttorio, il conseguimento della cittadinanza
svizzera del contribuente nel 2009, ovvero successivamente al periodo d’imposta
contestato.

3. I due motivi vanno trattati contestualmente, per
la loro connessione.

Deve, innanzitutto, escludersi la radicale carenza
di motivazione denunziata con il secondo mezzo.

Infatti «La riformulazione dell’art. 360, primo
comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n.
83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce
dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al
“minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante,
in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice
difetto di “sufficienza” della motivazione.» (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Nessuna
delle predette fattispecie patologiche ricorre nel caso di specie, nel quale la
motivazione della sentenza impugnata passa in rassegna una serie di dati di
fatto, individuandoli tra le «risultanze processuali» offerte dalle parti, e li
soppesa, concludendo con una loro valutazione complessiva. In particolare, poi,
nella parte della motivazione specificamente destinata alla valutazione delle
prove, manca quel preteso riferimento alla rilevanza preponderante del
conseguimento della cittadinanza e del passaporto svizzeri, denunziato ed
enfatizzato nel secondo motivo di ricorso.

La motivazione della sentenza impugnata, per quanto
sintetica, è idonea a dare atto del percorso logico-giuridico che la CTR ha
adottato per giungere alla decisione, non risultando dunque inferiore al c.d.
“minimo costituzionale” indispensabile.

4. E’ parimenti infondato il primo motivo, nella
parte in cui sostiene l’inutilizzabilità, nel processo tributario, dei
documenti redatti in lingua straniera prodotti dal contribuente, dei quali il
giudice di merito non ha disposto la traduzione.

Premessa, la genericità della denuncia (non
puntualmente focalizzata su singoli documenti), deve rilevarsi che il principio
dell’obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall’art. 122 cod. proc.
civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai
documenti esibiti dalle parti, sicché, quando siffatti documenti risultino
redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 cod. proc.
civ., ha la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un
traduttore, di cui può farsi a meno allorché trattasi di un testo di facile
comprensibilità, sia da parte dello stesso giudice che dei difensori ( Cass.
12/03/2013, n. 6093).

A conferma che la produzione del documento in lingua
straniera integra già, di per sé solo, una produzione istruttoria, con la quale
la parte può assolvere all’onere di comprovare le proprie allegazioni, a
prescindere dalla successiva ed eventuale traduzione dello stesso scritto,
questa Corte ha del resto affermato che « Non è tardiva la produzione, con la
memoria di cui all’art. 183, comma 6, n. 3, c.p.c., della traduzione in
italiano di documenti redatti in lingua straniera tempestivamente depositati, atteso
che detta traduzione non integra un nuovo mezzo di prova soggetto alle
preclusioni istruttorie di cui alla norma citata in quanto l’attitudine
dimostrativa di uno scritto discende dal contenuto che esso esprime, quale che
sia l’idioma impiegato nella sua redazione, sicché è con la produzione del
documento in lingua straniera che la parte assolve all’onere di comprovare le
proprie allegazioni difensive, mentre la traduzione, che può essere disposta
dal giudice ai sensi dell’art. 123 c.p.c. senza previsione di termini, è
incombente meramente accessorio e facoltativo che si colloca al di fuori
dell’area delle attività processuali finalizzate alla definizione del
“thema decidendum” e del “thema probandum”, soggette a
termini perentori.» (Cass. 18/05/2018, n. 12365).

Pertanto la produzione di documenti redatti in
lingua straniera, e non muniti contestualmente di traduzione allegata, non è
vietata dall’ordinamento processuale e, a differenza di quanto pare voler
affermare la ricorrente, non può quindi ritenersi ex se nulla, né comunque
“inutilizzabile”, categoria di matrice penalistica che comunque, ove
pure la si voglia trasferire nel contesto del giudizio civile, non può
prescindere da un riferimento normativo, assente nel caso di specie.

Dalla ritualità della produzione istruttoria in
questione consegue che, in tema di valutazione delle prove, l’art. 122 cod.
proc. civ. che prescrive l’uso della lingua italiana in tutto il processo, non
esonera il giudice dall’obbligo di prendere in considerazione qualsiasi elemento
probatorio decisivo, ancorché espresso in lingua diversa da quella italiana,
restando affidato al suo potere discrezionale il ricorso ad un interprete a
seconda che sia o meno in grado di comprenderne il significato o che in ordine
ad esso sorgano contrasti tra le parti (cfr. Cass. 24/01/2011, n. 1608). Ed
infatti questa Corte non ha ritenuto precluso, al giudice, di utilizzare
eventualmente le proprie conoscenze linguistiche, avendo ad esempio affermato
che «Quando si tratti di lingua universalmente nota, come il francese, e se il
giudice dimostri di averne perfetta conoscenza, non occorre la nomina di un
traduttore, prevista dall’art. 123
c.p.c.» (Cass. 06/06/1969, n. 1991). Nello stesso senso, si è detto che
qualora si renda necessario procedere all’esame di documenti che non sono
scritti in lingua italiana, la nomina di un traduttore, ai sensi dell’art. 123
cod. proc. civ., non costituisce un dovere del giudice del merito, ma una sua
facoltà discrezionale, sicché la mancata nomina del traduttore (nella specie,
per essere stata la traduzione operata da tale giudice) non può formare oggetto
di censura in sede di legittimità (Cass. 05/04/1984, n. 2217).

Dunque, la discrezionalità del giudicante, rispetto
alla nomina o meno di un traduttore, dipende dalla sua possibilità, o meno, di
comprendere comunque il significato del documento in lingua straniera, pur in
assenza di una traduzione.

Le conclusioni appena illustrate possono trasferirsi
anche al processo tributario (cfr. Cass. 17/06/2015, n. 12525), per effetto del
rinvio generale sussidiario alle norme del codice di procedura civile disposto
dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (« I giudici tributari
applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e
con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile.») ed in difetto
di ragioni di incompatibilità dei richiamati artt. 122 e 123 cod. proc. con la
disciplina specifica del rito tributario.

Tanto premesso, può quindi formularsi il seguente
principio: « Ai sensi degli artt. 122 e 123 cod. proc., applicabili ex art. 1,
comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 al giudizio tributario, anche in quest’ultimo,
come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti
processuali in senso proprio e non per i documenti prodotti dalle parti. I
quali, se redatti in lingua straniera, devono pertanto ritenersi acquisiti ed
utilizzabili ai fini della decisione, avendo il giudice la facoltà, ma non
l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno
allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti, o
qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione
giurata allegata dalla parte».

Nel caso di specie, valutando l’insieme delle
«risultanze processuali», comprensive quindi dei documenti redatti in lingua
straniera, il giudice del merito ha quindi implicitamente, ma necessariamente,
ritenuto di comprenderne il contenuto, senza che peraltro la ricorrente abbia
allegato puntualmente uno specifico contrasto delle parti sul significato degli
stesi elementi istruttori.

5. Il primo motivo è inammissibile, e comunque
infondato, anche quando censura la violazione degli artt. 2, comma 2-bis,
d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 2729 cod.civ.

Quanto alla presunzione legale relativa posta dalla
prima norma richiamata, la censura si limita sostanzialmente a ribadirne
l’esistenza ed il contenuto, soprattutto con riferimento alla conseguente
inversione dell’onere della prova circa l’effettività del trasferimento della
residenza in Svizzera. Al principio invocato in tema di onere della prova si è
comunque espressamente conformata la CTR nella motivazione della sentenza
impugnata, non incorrendo quindi nel vizio genericamente denunciato.

Quanto alla violazione o falsa applicazione
dell’art. 2729 cod. civ., è vero che « In tema di presunzioni, qualora il
giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori
della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non
sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è
censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5
dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio
della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c.,
oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo
sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che
effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.» (Cass.
16/11/2018,n. 29635).

Tuttavia, nel caso di specie, la ricorrente non ha
neppure individuato puntualmente quale sarebbe la prova critica, e quale il
relativo ragionamento inferenziale, che il mezzo vorrebbe censurare,
limitandosi, sul punto, ad evocare il parametro normativo violato.

Anche il mero richiamo alla datazione, posteriore
all’anno d’imposta controverso, dei documenti prodotti dal contribuente, appare
al riguardo generico, non essendo riferito specificamente alle singole
circostanze di fatto valutate espressamente nella motivazione sentenza
impugnata; né, comunque, la censura tiene conto della possibile differenza
logica e cronologica tra data del documento e data del fatto in esso
rappresentato ( ad esempio relativamente all’attestazione, nel 2007, del
rapporto « ininterrottamente dal 1989» con la C.M.A., come da elenco degli
allegati all’appello riprodotto a pag. 8 nel ricorso e come da sentenza
impugnata).

In generale, deve rilevarsi che tutte le censure
della ricorrente appaiono in concreto finalizzate ad attingere il merito,
ovvero la valutazione dei fatti di causa operata dalla CTR, ciò che in questa
sede di legittimità non è consentito, neppure con riferimento alle prove
indiziarie ( cfr. Cass., 17/01/2019, n. 1234; Cass. 13/02/2020, n. 3541; Cass.
14/11/2019, n. 29540).

Infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione
che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione
di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti
storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U, 27/12/2019, n. 34476).

6. Va quindi rigettato il ricorso, in conformità
peraltro a quanto già deciso da questa Corte con riferimento alle stesse parti
per gli anni d’imposta 2004 (Cass. 17/05/2022, n. 15895) e 2008 (Cass.
05/02/2021, n. 2894).

Le spese seguono la soccombenza.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa
alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione
pubblica difesa

dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica
l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 1.800,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro
200,00, ed agli accessori di legge.

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2022, n. 33079
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