Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2022, n. 33343

Rapporto di lavoro, Sospensione e collocazione in CIGS del
lavoratore, Genericità dei criteri di scelta, Illegittimità, Risarcimento
del danno

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata è stata parzialmente
confermata la pronuncia del Tribunale di Bari con la condanna della “N.
S.p.A.” a risarcire i danni patiti da C.C. in misura pari alla differenza
tra la retribuzione spettante nel periodo dal 16 dicembre 2008 fino al 2 marzo
2015 ed il trattamento di integrazione salariale percepito, attesa la
illegittimità della sospensione e contestuale collocazione in CIGS del
lavoratore;

per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso la “N. S.p.A.”, affidato a diciannove motivi;

C. ha resistito con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria;

il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente – denunciando
nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione
da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nonché mancanza della esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ex art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
– si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sul motivo di
gravame incentrato sul rilievo che la sentenza di primo grado non avesse preso
in considerazione l’onere del lavoratore di prendere posizione su ogni accordo
di CIGS e sui singoli vizi degli stessi;

con il secondo motivo – denunciando nullità della
sentenza e violazione dell’artt. 112 e 114 c.p.c., con riguardo all’assenza di specifiche
contestazioni in merito alla procedura di cassa di cui al verbale sottoscritto
in data 10 ottobre 2013, “extrapetitum”, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che
le violazioni indicate nella sentenza di appello sono state frutto di una
“valutazione autonoma” effettuata dal giudice di primo grado e dalla
Corte di Appello, i quali si sono di fatto integralmente sostituiti al
ricorrente, ignorando integralmente le censure formulate e rilevando
autonomamente pretesi vizi della procedura, in quanto, con la deduzione che non
risultavano specificati i criteri da adottare per l’individuazione dei
lavoratori da sospendere, il dipendente si era limitato a contestare la mera
mancata previsione dei criteri e non la genericità degli stessi; sicché il
“petitum” si sostanziava nel verificare la corretta o meno esecuzione
degli accordi sottoscritti con le 00.SS senza estendersi alla verifica della
legittimità di quanto ivi previsto;

con il terzo motivo – denunciando nullità della
sentenza e violazione dell’artt. 112 c.p.c., in
merito alla procedura di cassa di cui al verbale sottoscritto in data 3 marzo
2015, non oggetto del giudizio “extrapetitum”, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che
il giudice del gravame abbia ritenuto altresì illegittimi i criteri statuiti
nel verbale del 14 ottobre 2015 avente efficacia dal 16 ottobre 2015 benché la
domanda formulata dal lavoratore fosse limitata al periodo precedente a tale
data;

con il quarto motivo- denunciando violazione e falsa
applicazione dell’art. 2948 c.c., in relazione
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. –
lamenta che il predetto giudice abbia ritenuto non assoggettato al termine di
prescrizione quinquennale il credito del lavoratore – omettendo di considerare
che una volta annullato l’atto di gestione con cui è stato sospeso il rapporto
si determina la reviviscenza del rapporto originario con conseguente diritto
alla percezione delle retribuzioni -, nonché l’azione di annullamento dell’atto
di gestione del rapporto;

con il quinto motivo – denunciando violazione o
falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che
la Corte territoriale abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore
– tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa volta a contestare i
provvedimenti datoriali e/o a rivendicare ipotetiche differenze retributive –
nei dieci anni di collocazione in CIGS aveva determinato la perdita del
diritto;

con il sesto motivo – denunciando omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato fatto oggetto di discussione tra
le parti, avuto riguardo alla sussistenza di ulteriori elementi di fatto,
ritualmente dedotti ed acquisiti al processo, tali da determinare
l’acquiescenza al disposto collocamento in cassa integrazione, in relazione
all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. –
lamenta che la predetta Corte abbia omesso di esaminare i fatti dedotti nella
memoria di costituzione e nel ricorso in appello che avrebbero consentito di
qualificare il comportamento dei dipendenti come volontà di rinuncia a ogni
pretesa risarcitoria;

con settimo motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1219, primo comma, c.c.,
in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia ritenuto insussistente
l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il datore di lavoro,
mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto;

con ottavo motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente in ordine alle argomentazioni esposte dalla
corte territoriale quanto alla illegittimità della CIGS, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che
il predetto giudice, dopo aver dato atto del passaggio in giudicato dei capi di
sentenza di primo grado relativi alle richieste correlate agli accordi
antecedenti a quello del 10 ottobre 2013 per mancanza di impugnativa sul punto,
abbia erroneamente assimilato quest’ultimo accordo a quelli precedenti, da un
lato obliterando la circostanza che l’accordo in questione prevedeva, a
differenza degli altri, i criteri di scelta dell’anzianità di servizio, dei
carichi di famiglia e delle esigenze tecnico organizzative e produttive ai fini
dell’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS, nonché, dall’altro,
omesso di valutare che il citato accordo, sempre a differenza degli altri, non
prevedeva un meccanismo di rotazione;

con il nono motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1, comma
7, della I. n. 223 del 1991, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale, nella
parte in cui ha rilevato che le parti contrattuali si sono limitate a
richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella
procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991,
omettendo di considerare che la legge non prevede alcun tipo di sanzione
nell’ipotesi di mancata indicazione dei criteri dell’accordo, peraltro non
obbligatorio, attenendo la genericità alla comunicazione, però dal lavoratore
mai dedotta;

con decimo motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1, comma
7, della I. n. 223 del 1991, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte, nella parte
in cui ha confermato quanto statuito dal tribunale e, quindi, che “le
parti contrattuali si sono limitate a richiamare i criteri di scelta dei
lavoratori in esubero da licenziare nella procedura di licenziamento collettivo
di cui all’art. 5 della legge
223.1991”; in tal modo I Giudice d’appello ha omesso di considerare
che, da un lato, la legge non prevede che in sede di accordo debbano essere
indicate le concrete modalità applicative dei criteri di scelta e, dall’altro,
che la genericità dei criteri deve ritenersi esclusa ove siano richiamati i
parametri individuati direttamente dal legislatore (che ha evidentemente
ritenuto gli stessi specifici), con la conseguenza che il richiamo a detti
criteri implica, attesa l’assenza nel caso di una diversa disposizione
dell’accordo, che gli stessi dovevano essere applicati in maniera concorrente
(incidenza di 1/3 per ogni criterio);

con undicesimo motivo – è denunciato l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra
le parti circa la corretta indicazione dei criteri relativi all’identificazione
dei lavoratori da sospendere, nonché il mancato esame del documento del
fascicolo di parte N. ( doc. 22), contenente tutta la documentazione esibita
alle OOSS durante l’incontro del 10.10.2013 ed anche richiamato nella
comunicazione inviata ad ogni lavoratore.

con dodicesimo motivo-si denuncia omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti, con riguardo alla ritenuta proroga di fatto degli accordi del 10.10.2013
nell’accordo del 3.3.2015. Ci si duole della mancata valutazione del mutamento
delle condizioni del sito produttivo di Ginosa;

con il tredicesimo motivo si denuncia la violazione
della legge n. 148/2015, non considerata ai fini dell’esame congiunto dei
lavoratori da sospendere;

con quattordicesimo motivo – denunciando violazione
o falsa applicazione degli artt.
1, comma 7, della I. n. 223 del 1991, e 24, comma 2, della I. n. 148 del
2015, in relazione all’art. 360, primo comma,
n. 3, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte, con riferimento alla
sospensione del rapporto disposta nell’ambito delle procedure di CIGS relative
ai periodi dal 3.3.2015 al 15.10.2015 e dal 16.10.2015 al 13.10.2016,
giustificate, rispettivamente, per sospensione e cessazione integrale
dell’attività presso l’unità produttiva di Ginosa, non abbia considerato che
nella fattispecie di cessazione dell’attività con sospensione integrale di
tutti i lavoratori addetti ad una unità produttiva non sussiste alcun obbligo
di indicare i criteri di rotazione e quelli connessi con l’identificazione di
quelli sospesi;

con il quindicesimo motivo – denunciando violazione
o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– si duole che il giudice del gravame abbia posto in capo ad essa ricorrente un
onere che essa non aveva, in quanto la dimostrazione del mancato rispetto, da
parte del datore, dei principi generali di correttezza e buona fede nella
scelta dei lavoratori da sospendere, grava sul lavoratore, il quale deve non
solo provare l’esistenza di diversi criteri di selezione, ma anche dimostrare
che la loro applicazione avrebbe comportato la sospensione di altro lavoratore;

con il sedicesimo motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice, nel
motivare, non abbia tenuto conto del fatto che i criteri fissati erano stati
oggetto di discussione nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero
del Lavoro e condivisi con le 00.SS. firmatarie dell’accordo, così come
evidenziato nell’atto di appello, senza che detta circostanza sia stata oggetto
di contestazione ad opera della controparte;

con il diciasettesimo motivo – denunziando nullità
della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla
fattispecie del disposto di cui all’art. 1227 c.c.,
in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4,
c.p.c. – si duole che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulla
richiesta, contenuta nell’atto di appello, di abbattimento del risarcimento
anche in applicazione dell’art. 1227 c.c.;

con il diciottesimo motivo – denunziando violazione
o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– lamenta che la predetta Corte sia incorsa in vizio di extrapetizione, in
quanto, a fronte di una domanda del lavoratore volta all’accertamento
dell’illegittimità della sospensione e contestuale sua collocazione in CIGS,
avrebbe fondato la propria decisione di rigetto del motivo di gravame,
incentrato sulla necessità della rideterminazione del compendio risarcitorio – essendo
stata la società ammessa al trattamento di CIGS in ragione di provvedimenti
amministrativi validi ed efficaci, sicché i lavoratori, comunque, ruotando
sarebbero stati collocati in CIGS, ancorché per un minor periodo rispetto al
sofferto -, sulla base di una richiesta, mai formulata, di
“disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo
concessorio della CIGS”;

con il diciannovesimo motivo – denunciando nullità
della sentenza per motivazione apparente nella parte in cui la Corte territoriale
ha delibato in ordine ai motivi fondanti la richiesta della società di
riduzione del compendio risarcitorio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che
il giudice del gravame abbia rigettato la richiesta di divisione matematica del
periodo di CIGS tra tutti i dipendenti con motivazione apparente, ossia sul
presupposto della “violazione delle disposizioni sulla indicazione e sulla
comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati criteri di scelta del
personale da sospendere e di meccanismi di rotazione della sospensione”,
attesa, per converso, la legittimità dei criteri determinati in sede di accordo
sottoscritto in data 10 ottobre 2013 fra società e OO.SS e la previsione di non
dar corso alla rotazione.

 

Ritenuto che

 

il primo motivo è da disattendere, poiché, quanto al
dedotto vizio di omessa pronunzia, vale il principio che esso non è
configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. 25/01/2018,
n. 1876); peraltro il vizio di ultrapetizione è configurabile solo con riguardo
alla ipotesi in cui il Giudice attribuisca o neghi , ad alcuno dei contendenti,
un bene diverso da quello richiesto e non compreso, neppure virtualmente, nella
originaria domanda (Cass.n. 22753/2019). Nel
caso in esame, peraltro, la corte di merito ha esaminato il materiale
probatorio allegato comprensivo di tutti i documenti e verbali in discussione,
traendo da essi il proprio convincimento decisorio;

il secondo motivo è inammissibile, perché si risolve
nella mera contrapposizione dell’interpretazione della domanda operata dalla
ricorrente a quella effettuata nella sentenza impugnata (la quale, a fronte
della deduzione che non risultavano specificati in tutti gli accordi sindacali
sottoscritti dalla società convenuta i criteri da adottare per l’individuazione
dei lavoratori da sospendere, ha plausibilmente ritenuto che il ricorso
contenesse la denunzia di genericità dei predetti criteri); del resto, la
ipotetica erroneità dell’interpretazione in questione è deducibile in sede di
legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente
entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. (cfr., sul punto,
Cass. 3.12.2019, n. 31546);

il terzo motivo è inammissibile poiché la corte
territoriale nell’esaminare la censura relativa alla genericità dei criteri di
scelta, pur valutando la diversità degli accordi intervenuti in successione,
comunque individua un comune vizio di genericità da cui gli stessi sono
affetti, con ciò utilizzando tutta la documentazione inerente la complessa
vicenda quale strumento interpretativo. Nessuna ultrapetizione è dunque
rinvenibile in tale attività interpretativa;

il quarto motivo è inammissibile nella parte in cui
è introdotta la questione dell’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione
di annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso
per cassazione (né dalla sentenza impugnata) che la questione predetta sia
stata fatta oggetto di gravame in appello; per il resto, è da disattendere in
quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di
risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in
C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito
dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto
all’ordinaria prescrizione decennale (così, tra le altre, Cass. 13/12/2010, n. 25139; v., da ultimo, Cass. 20/04/2021, n. 10376, in motivazione);

il quinto motivo va disatteso, perché l’orientamento
nettamente prevalente di questa Corte è nel senso che la mera inerzia non è
sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore,
occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa
volontà abdicativi (cfr., sul punto, Cass.
21/09/2011, n. 19235: «In materia di cassa integrazione guadagni
straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare
l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo
di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per
l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto
a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non
prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o
ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata
proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del
fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del
risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.»; v.,
altresì, di recente, Cass. 5/02/2018, n. 2739: «La rinuncia ad un diritto oltre
che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi
soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo
univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi
in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far
salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere
interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto
di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni»; in senso
analogo v. Cass. 13/02/2020, n. 3657: «La
rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un
comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua
volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che
l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta
dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori
che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto»);

il sesto, l’undicesimo ed il dodicesimo motivo sono
inammissibili per via dell’operatività della preclusione derivante dalla cd.
“doppia conforme”, in difetto di dimostrazione, ad opera della
ricorrente, che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della
decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello siano state
tra loro diverse (cfr., sul punto, tra le altre, Cass. 22/12/2016, n. 26774);

il settimo motivo è inammissibile, non risultando
dal ricorso per cassazione che la questione sia stata fatta oggetto di gravame,
né l’effettuato esame della stessa emerge dalla sentenza impugnata, nella quale
è affrontato il solo tema della mancata offerta della prestazione lavorativa,
mediante il corretto richiamo a Cass. 4/05/2009,
n. 10236 (ove è affermato che «In caso di intervento straordinario di
integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione,
riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza
di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia
illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di
accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi”
del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la
propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio
dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione»);

l’ottavo motivo è da rigettare, poiché la sentenza
impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei
criteri di scelta (cfr., tra l’altro, il seguente passo della motivazione, non
riportata nel motivo: «Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze
tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna
indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in
ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il
datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non
concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze
tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (…). In definitiva,
la N. ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto
rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari
parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità
applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in
riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in
funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione»);

il nono motivo è da rigettare, già sol perché la
genericità dei criteri si riverbera, inevitabilmente, in chiave negativa, sugli
adempimenti prescritti dall’art.
1, comma 7, della I. n. 223 del 1991 (sicché la deduzione della predetta
genericità è idonea ad identificare il “petitum” coerente con la
previsione normativa);

il decimo motivo è inammissibile, perché non si
confronta con la intera motivazione della sentenza impugnata, la quale, con
riguardo al parametro delle esigenze tecnico-organizzative, ha evidenziato che
«La prova evidente dell’assoluta genericità dei criteri è nelle stesse
giustificazioni addotte dall’appellante con l’atto di gravame: “… N. ha
quindi provveduto ad assegnare un punteggio per ciascuno dei tre criteri di cui
sopra (anzianità aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a
tutti i lavoratori aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella
ponderazione dei tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai
fini della graduatoria) avessero un punteggio più basso … Con riferimento al
criterio delle esigenze tecnico – organizzative, veniva assegnato il punteggio
11,11 se in caso di operaio generico ovvero di 33,33 se polivalente ovvero se
specializzato di 22,22”. Dunque il datore di lavoro ha adottato un criterio
totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo
alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (La
qualifica di polivalente, ad esempio, come e da chi è stata accertata? Con
quali criteri è stata attribuita tale qualifica? Perché l’operaio polivalente
andava preferito rispetto all’operaio generico o specializzato, avuto riguardo
alle esigenze riorganizzative?)»; sicché la illegittimità è stata ravvisata, in
primo luogo, nell’attribuzione assolutamente discrezionale dei predetti
punteggi, che ha inevitabilmente alterato l’applicazione in maniera concorrente
dei tre richiamati criteri;

il tredicesimo motivo risulta inconferente poiché,
rispetto alla valutazione della corte di appello circa la genericità dei
criteri di scelta in tutti gli accordi che si sono succeduti nella vicenda in
esame, si sofferma sulla legittima possibilità di mutare i suddetti criteri nei
diversi accordi; questione, quest’ultima, non posta in dubbio dalla decisione
in esame che, lo si ripete, ha valutato comunque il vizio di genericità, non
entrando nel merito degli stessi criteri adottati.

Il quattordicesimo motivo è inammissibile poiché ,
pur facendo riferimento al vizio di violazione di legge, in realtà richiede una
nuova valutazione di merito rispetto a quella già scrutinata dalla corte
territoriale ( pg 14 sentenza) che ha evidenziato come gli accordi , nel testo
finale, facessero riferimento ad una quota massima di 370 lavoratori dello
stabilimento di Ginosa e non alla totalità degli stessi;

il quindicesimo motivo è inammissibile perché,
riproponendo in parte le censure già contenute nel primo motivo (e sopra
disattese), di nuovo non si misura con la “ratio decidendi” della
sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta, e
dunque sulla prova della loro errata applicazione, bensì sulla previsione di
criteri generici e, quindi, illegittimamente adottati. La censura si appalesa
inadeguata rispetto al decisum.;

il sedicesimo motivo è inammissibile, poiché con
esso – a fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi
sopra riportati) i requisiti minimi di cui all’art.
132 c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame
di una circostanza (“id. est”: discussione dei criteri nell’ambito
degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo
la sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri (per come sopra
visto);

il diciasettesimo motivo è inammissibile,
trattandosi di questione affrontata dalla corte territoriale e comunque da
escludere per costante giurisprudenza (cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011, sopra citata) in punto
di applicabilità dell’art. 1227, secondo comma, c.c
;

gli ultimi due motivi, da trattare congiuntamente,
sono da rigettare, poiché sulla questione della divisione matematica del
periodo di CIGS tra tutti i dipendenti (sulla cui base il lavoratore comunque
sarebbe stato assoggettato ad un periodo di CIGS) il giudice del gravame ha
reso effettiva motivazione citando un precedente di questa Corte (Cass. 29/09/2011, n. 19618, ove si legge che «In
materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, l’illegittimità del
provvedimento concessorio dell’intervento di integrazione salariale in ragione
della mancata indicazione e comunicazione alle organizzazioni sindacali dei
criteri di scelta dei lavoratori da sospendere – di rotazione ovvero, ove tale
meccanismo non sia stato adottato per ragioni di ordine tecnico e organizzativo
ritenute meritevoli di accoglimento, dei criteri alternativi determinati ai
sensi dell’art. 1, comma 8, legge
n. 223 del 1991 – comporta l’illegittimità della sospensione operata dal
datore di lavoro dei lavoratori stessi, i quali, vantando una posizione di
diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l’accertamento,
previa disapplicazione “incidenter tantum” del provvedimento
amministrativo di concessione della c.i.g.s., dell’inadempimento del datore di
lavoro in ordine all’obbligazione retributiva alla stregua dell’ordinario
regime previsto dall’art. 1218 c.c., essendo
venuta meno, quale ragione d’esonero dalle conseguenze dell’inadempimento,
l’elevazione al livello dell’impossibilità della prestazione delle situazioni
di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale») ed
aggiungendo che «la N. non ha neanche provato che ricorrevano tutti i
presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto
tempo»;

la motivazione, sul punto, non si rivela apparente,
in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la
messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione,
sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico
abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo minore
di cassa integrazione;

senza contare che la stessa censura – imperniata sul
rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di
conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un
lato, essa denunzia, nella sostanza, una errata applicazione del principio
dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non
illustra in maniera intelligibile, da un lato, in qual modo il ricorrente
avrebbe potuto essere comunque collocato legittimamente in CIGS a fronte della
accertata genericità dei criteri, e, dall’altro, come avrebbe potuto calcolarsi
in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena detto)
abbattimento della posta risarcitoria;

le spese del presente giudizio, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza con attribuzione all’antistatario;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro
200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2022, n. 33343
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