Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 novembre 2022, n. 32810

Licenziamento disciplinare, Guardia giurata, Simulazione
della malattia, Comportamenti idonei a ritardare la guarigione, Insussistenza
– Reintegra, Indennità risarcitoria, Limiti

Rilevato che

 

1) con ricorso depositato il 20.2.2019, la C. s.p.a.
proponeva alla Corte d’appello di Napoli reclamo contro la sentenza del
Tribunale di Napoli n. 4601/2018, che, in accoglimento dell’opposizione
interposta da F.L. avverso l’ordinanza del medesimo tribunale, recante il
rigetto delle domande da quest’ultimo avanzate, aveva, invece, dichiarato
l’illegittimità del licenziamento disciplinare adottato dalla suddetta società
nei confronti del F. e, per l’effetto, aveva ordinato alla convenuta di reintegrarlo
nel posto di lavoro, condannando la stessa al risarcimento dei danni subiti dal
lavoratore in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla
data del licenziamento a quella della reintegra, oltre accessori, nonché al
versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, e al pagamento delle
spese di lite, in distrazione.

2) la Corte di merito adita, con la sentenza
indicata in epigrafe, rigettava tale reclamo e condannava l’appellante al
pagamento delle ulteriori spese di lite, come liquidate.

3) per quanto qui interessa, la stessa Corte
riteneva che correttamente il primo giudice aveva escluso, come invece
contestato al lavoratore in sede disciplinare, una simulazione della malattia
oppure di aver assunto comportamenti idonei a determinare un ritardo nella
guarigione della cennata malattia, disattendendo, altresì, le doglianze della
reclamante società circa il regime sanzionatone applicato dal giudice di primo
grado.

4) avverso la sentenza di secondo grado la C. ha
proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi.

5) ha resistito al ricorso il F, mediante
controricorso.

 

Considerato che

 

1) con il primo, il secondo ed il terzo motivo, la
ricorrente ha dedotto testualmente: “1) Nullità della sentenza, ai sensi
dell’art 360 c. 1 n. 4 c.p.c., nonché
violazione ovvero falsa applicazione, ai sensi dell’art.
360 c. 1 n. 3 c.p.c., degli artt. 112 e 132 c.p.c., per aver la Corte di Appello reso una
motivazione solo apparente, limitata alla mera trascrizione della consulenza
tecnica di ufficio, omettendo l’esame delle censure specifiche poste dalla
Società alla consulenza stessa nell’atto di reclamo e, quindi, omettendo di
esaminare e pronunciarsi sui motivi del gravame. 2) Violazione ovvero falsa
applicazione, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3
c.p.c., degli artt. 61, 62, 63, 132, 195 e 441 c.p.c. laddove la Corte di merito, nel
trascrivere pedissequamente la consulenza tecnica di ufficio, ha recepito le
valutazioni a-tecniche del CTU non di competenza medico legale e non ha
disposto la rinnovazione della consulenza stessa. 3) Omesso esame (ovvero esame
solo apparente), ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 5
c.p.c.”, di una serie di fatti storici, asseritamente decisivi per il
giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, indicati in dettaglio dalla
lett. a) alla lett. i) nelle pagg. 11-12 del ricorso per cassazione;

2) con il quarto motivo, deducendosi
“Violazione ovvero falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., dell’art. 2700 c.c.”, si sostiene che “Altro
vizio della consulenza tecnica di ufficio, e quindi della sentenza, risiede
nell’aver attribuito fede privilegiata alla valutazione medica espressa nei
certificati emessi dall’INAIL”;

3) con il quinto motivo, deducendosi
“Violazione ovvero falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., dell’art. 2119 c.c.”, si assume che:
“L’attività di guardia giurata, che consiste prevalentemente in mera
attesa e controllo, non richiede particolare impegno fisico, per cui il
lavoratore, se idoneo a guidare l’auto, trasportare pesi etc., muovendo gli
arti e mostrando assoluta naturalezza nei movimenti, ben avrebbe potuto
assolvere la propria attività. Anche volendo ammettere che la patologia fosse
vera, non può dubitarsi che il Lavoratore, con il comportamento contestato,
abbia inesorabilmente ritardato la guarigione ovvero espostosi al pericolo di
ritardarla”, richiamandosi, quindi, una serie di precedenti di
legittimità;

4) con il sesto ed il settimo motivo si deduce:
“6) Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c. n. 3 c.p.c., dell’art. 18 della L. 20.5.1970, n.
300; 7) Nullità della sentenza, ai sensi dell’art.
360 c. 1 n. 4 c.p.c., per insanabile contraddittorietà laddove, pur
richiamato il limite di 12 mensilità nella determinazione dell’indennità
risarcitoria nell’ipotesi di cui all’art. 18 c. 4 della L. n. 300/1970,
ha poi confermato la sentenza di primo grado che aveva genericamente, e senza
limite, condannato la Società al pagamento dell’indennità risarcitoria
commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
(del lontano 1.2.2017) all’effettiva reintegra, senza porre il limite delle 12
mensilità”. Sostiene la ricorrente che: “Nel caso di specie, il
“fatto contestato” è inconfutabilmente sussistente e l’addebito non è
sanzionato dalla contrattazione collettiva con un provvedimento conservativo.
Di conseguenza, dovrebbe trovare (in caso di denegata dichiarazione di
illegittimità del licenziamento) applicazione il comma 5 dell’art. 18 L. n.
300/1970, così come modificato dalla L.
28.6.2012, n. 92, e non il comma 4″, e, in via ulteriormente
subordinata, si assume che, “ove fosse confermata la tutela
reintegratoria, il risarcimento del danno andrebbe limitato alla misura di 12
mensilità e non, come erroneamente disposto, dalla data del licenziamento
(1.2.2017) alla reintegra”.

5) osserva il Collegio che la trattazione dei primi
tre motivi di gravame, alquanto prolissa, è sostanzialmente unitaria (cfr.
pagg. 10-27 del ricorso), ma che, rispetto al primo motivo, non è certamente
riscontrabile la motivazione apparente, sostenuta dalla ricorrente.
Diversamente da quanto opina quest’ultima, infatti, il giudice di secondo grado
non si è limitato a riportare e far proprie le parti valutative salienti della
C.T.U. medico-legale fatta espletare (cfr. pagg. 2-4 della sentenza), ma, dopo
aver dato conto in sintesi del dibattito come instauratosi in appello tra le
parti (cfr. pagg. 1-2 della stessa), aveva premesso talune precisazioni in
fatto e in diritto (cfr. sempre pag. 2 della stessa), ed aveva, quindi,
rilevato che apparivano “condivisibili, in quanto in linea con le
precisazioni ora dette, le conclusioni del CTU di primo grado”. Indi
concludeva che “correttamente il giudice di prime cure escludeva la simulazione
di malattia, alla luce dei certificati medici rilasciati dall’INAIL, e
l’assunzione di comportamenti idonei a determinare un ritardo nella guarigione,
alla luce delle argomentazioni espresse dal C.T.U.” (così a pag. 4 della
sentenza).

6) pertanto, l’iter motivazionale consente di ben
comprendere il significato della decisione, la quale rispetta il c.d.
“minimo costituzionale” (come delineato da Cass. SU. 8053/2014).

7) analogamente, e sempre in relazione al primo
motivo di ricorso, nel quale ci si duole altresì dell’omesso esame dei motivi
di reclamo, formulati dall’attuale ricorrente, quest’ultima non pone in
discussione che tali motivi fossero quelli sinteticamente considerati anche
dalla Corte distrettuale (cfr. pagg. 1-2 della sua decisione), che, invero, non
evidenziavano alcunché di specifico in grado di contrastare le valutazioni già
operate dal primo giudice sulla scorta, anche, ma non solo, del parere
dell’ausiliare tecnico d’ufficio. Tutte le considerazioni critiche in proposito
ora sviluppate dalla ricorrente, in seno alla cennata esposizione unitaria dei
primi tre motivi di ricorso, neppure è dedotto dove e come fossero state
versate in qualcuno dei motivi di reclamo, onde investire dell’esame delle
stesse la Corte di merito.

8) a torto, poi, con il secondo mezzo, la ricorrente
assume che detta Corte, “nel trascrivere pedissequamente la consulenza
tecnica di ufficio, ha recepito le valutazioni a-tecniche del CTU non di
competenza medico legale e non ha disposto la rinnovazione della consulenza
stessa”. La ricorrente qui allude al passo in cui il C.T.U. aveva
concluso: “Non ritengo quindi validi i motivi di contestazione nei periodi
del 03/01/2017 e 04/01/2017 dalla S.C. S.P.A. al Sig. F L., ritenendo
illegittimo il licenziamento in quanto privo di giusta causa o giustificato
motivo” (passo riportato alla fine di pag. 18 del ricorso per cassazione).
Invero, com’è agevole riscontrare, proprio quel passo della relazione peritale
non è stato trascritto in sentenza dalla Corte d’appello, la quale, come già
visto, ha formato il suo convincimento anzitutto “alla luce dei
certificati medici rilasciati dall’INAIL”, e poi tenendo conto “delle
argomentazioni espresse dal CTU”, ma sempre sul terreno medico legale; il
che emerge dalle parti valutative salienti, queste sì trascritte in sentenza.

9) inammissibile è il terzo motivo nel quale, come
si è visto, ci si duole dell’omesso esame di una serie di fatti storici,
anzitutto praticamente coincidenti con tutti i fatti positivi o anche negativi
(come quando al punto b) si sostiene “che nessuno ha assistito al riferito
episodio di supposta colluttazione di cui al denunciato infortunio”) che
venivano in considerazione nel processo, e, per giunta, rappresentati per lo
più in forma deduttiva o valutativa (come quando, ad es., al punto i) si
asserisce “che l’attività di guardia giurata consiste prevalentemente in
mera attesa e controllo e non richiede particolare impegno fisico, per cui il
Lavoratore, se idoneo a guidare l’auto, trasportate pesi etc., muovendo gli
arti e mostrando assoluta naturalezza nei movimenti, ben avrebbe potuto
assolvere la propria attività”). Del resto, lo sviluppo di tale motivo
(indistinto rispetto ai precedenti due motivi, come già notato), comprende
appunto, da un lato, una riproposizione di quelli che sarebbero i fatti
decisivi il cui esame sarebbe stato omesso (cfr. pagg. 21-23 del ricorso), e,
dall’altro, significativamente si conclude nel senso che: “In definitiva,
la consulenza, e quindi la sentenza sulla quale la stessa è basata, è viziata
sotto molteplici ed eclatanti aspetti che ne determinano la nullità”; così
rivelando definitivamente che in realtà l’impugnante intenderebbe muovere
propri rilievi di merito al parere dell’ausiliario tecnico, rilievi che – come
già posto in luce – non risulta fossero stati specificamente e ammissibilmente
prospettati nei motivi di reclamo. E’ inoltre altrettanto evidente che la
ricorrente si duole, non già di un effettivo omesso esame di fatti davvero
decisivi per il giudizio, bensì di come l’intero caso sia stato valutato dai
giudici di merito, anche sulla scorta del ridetto parere tecnico.

10) infondato, poi, è il quarto motivo di ricorso,
in cui, richiamandosi            un
precedente di legittimità (Cass. 18.1.2017, n. 19089) circa il non essere
fidefaciente la prognosi di guarigione certificata da medico pubblico
ufficiale, si ascrive alla Corte territoriale un’affermazione mai fatta, e,
cioè, di aver attribuito fede privilegiata alla valutazione medica espressa nei
certificati emessi dall’INAIL (il che integrerebbe la dedotta violazione o
falsa applicazione dell’art. 2700 c.c.), come è
riprovato dal rilievo che in proposito è richiamato a pag. 28 del ricorso un
passo della relazione di C.T.U., passo, per giunta, non trascritto o altrimenti
citato nella parte motiva della decisione qui oggetto di gravame, secondo
quanto ben risulta dal suo testo.

11) inammissibile, ancora, è il quinto motivo, nel
quale neppure è specificato come e perché il giudice di secondo grado avrebbe
violato o falsamente applicato l’art. 2119 c.c.
in tema di recesso per giusta causa, e, piuttosto, vi si sostiene – come si è
visto – che il lavoratore “ben avrebbe potuto assolvere la propria
attività” di guardia giurata e inoltre, in chiave, peraltro in parte
ipotetico-concessiva e in parte assertiva, e quindi anche in modo
contraddittorio, che lo stesso “abbia inesorabilmente ritardato la
guarigione” o si sarebbe esposto “al pericolo di ritardarla”;
così contrapponendo semplicemente una valutazione della ricorrente
all’apprezzamento anzitutto probatorio e fattuale, compiuto dalla Corte di
merito, in via di conferma di quello espresso dal primo giudice, circa
l’esclusione sia della simulazione di malattia da parte del lavoratore che di
suoi comportamenti idonei a ritardare la guarigione della malattia conseguita
all’infortunio lavorativo occorsogli.

12) in relazione al sesto ed al settimo motivo,
occorre premettere che, pur risultando cumulativamente formulati, non incorrono
nella sanzione d’inammissibilità, perché nel loro svolgimento sono
sufficientemente delineate la censura che afferisce alla violazione o falsa
applicazione dell’art. 18 L.
n. 300/1970 (sesto motivo) e quella attinge il terreno motivazionale
(settimo motivo).

13) ciò premesso, infondato è il settimo motivo, in
cui la pretesa insanabile contraddittorietà sostenuta dalla ricorrente non
coglie l’effettiva ratio deciderteli della Corte territoriale circa la
questione della massima misura delle mensilità da erogare al lavoratore
licenziato.

14) in proposito, la Corte di merito, dopo aver
riaffermato l’insussistenza del fatto contestato in sede disciplinare, aveva
scritto: <inoltre, si rileva che la misura massima delle mensilità da
erogare, in numero non superiore a 12, costituisce applicazione in fase
esecutiva del dettato normativo, rappresentato dall’art. 18 comma 4 della legge n.
300/1970, che, nella formulazione applicabile ratione temporis, prevede
espressamente che il giudice “condanna il datore di lavoro alla
reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria
commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il
lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di
altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi
con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura
dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della
retribuzione globale di fatto”. Pertanto, non si rinviene motivo per
riformare in parte qua la sentenza di primo grado che ha ordinato alla società
di “reintegrarlo nel posto di lavoro” con condanna “al
risarcimento dei danni subiti dall’istante in misura pari alle retribuzioni
globali di fatto maturate dalla data del licenziamento a quella della reintegra
oltre accessori >.

15) dunque, sia pure in modo non cristallino sul
piano espositivo, il giudice di secondo grado aveva voluto significare che la
condanna pronunciata dal primo giudice circa l’indennità risarcitoria era
conforme al dettato normativo di cui all’art. 18, comma quarto, L. n.
300/1970, in quanto il contenimento di essa indennità entro il limite
massimo delle 12 mensilità della retribuzione globale di fatto era aspetto da
verificarsi in sede di esecuzione del relativo comando giurisdizionale, in via
principale rapportato puramente e semplicemente al giorno dell’effettiva
reintegrazione nel posto di lavoro quanto alla misura dell’indennità;

16) tale essendo l’effettiva portata della
motivazione della Corte di merito in parte qua, piuttosto il sesto motivo ne
risulta fondato per quanto di ragione e nella sua versione subordinata.

17) invero, è da disattendere senz’altro la tesi
principale della ricorrente secondo la quale nel caso che ci occupa dovrebbe
trovare applicazione la tutela solo indennitaria ex art. 18, comma 5, L. n. 300/1970,
in quanto detta tesi è sostenuta in base ad un dato probatorio solo
assertivamente profilato dalla stessa, e cioè che il “fatto
contestato” sarebbe “inconfutabilmente sussistente” e che
l’addebito relativo non sarebbe “sanzionato dalla contrattazione
collettiva con un provvedimento conservativo”.

18) come si è già visto, la Corte territoriale ha
ritenuto che quanto contestato al lavoratore non sussisteva sul piano fattuale
sia dal punto di vista della simulazione della malattia conseguita
all’infortunio lavorativo, come addebitato in via principale dalla datrice di
lavoro, che da quello dell’idoneità dei suoi comportamenti in costanza di
malattia a ritardare la guarigione, così applicandosi la tutela ex art. 18, comma quarto, cit.;
conclusione questa che in punto di diritto è senz’altro conforme alla
giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, in tema di licenziamento
individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato, che rende
applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. lav.,
come modificato dall’art. 1, comma
42, lett. b), della L. n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto
sussistente ma privo del carattere di illiceità, come nell’ipotesi del
dipendente che, durante il periodo di assenza per malattia, svolga un’altra
attività lavorativa, senza che ciò determini, per le sue concrete modalità di
svolgimento, alcun rischio di aggravamento della patologia né alcun ritardo
nella ripresa del lavoro, e dunque senza violazione degli obblighi di buona
fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto (così, ad es., Cass. civ., sez. lav., 7.2.2019, n. 3655).

19) piuttosto, come è stato, di recente, riaffermato
da questa Sezione, nell’ambito dei diversi livelli di tutela applicabile per
effetto delle modifiche all’art.
18 L. n. 300/1970, apportate dalla c.d. legge
Fornero, a fronte della tutela reintegratoria c.d. forte, il quarto comma
dell’art. 18 cit. prevede
una tutela reintegratoria che è stata definita “debole” (o anche
attenuata). “Questa si caratterizza per il fatto che all’ordine di reintegrazione
si accompagna la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità
risarcitoria sempre parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto, che
copre il periodo dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, dal cui
importo deve essere dedotto quanto altrimenti percepito dal lavoratore nel
periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative e
quanto avrebbe dovuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una
nuova occupazione, e che in ogni caso non potrà superare le dodici mensilità
della retribuzione globale di fatto” (così al par. 16.4 della motivazione
di Cass. civ., sez. lav., 11.4.2022, n. 11665).

20) ergo, diversamente da quanto opinato dai giudici
di merito di questo procedimento, il massimo delle dodici mensilità, sancito
dall’art. 18, comma
quarto, cit., costituisce il limite entro il quale già il giudice della
cognizione deve quantificare la condanna al pagamento dell’indennità
risarcitoria; il che appunto contraddistingue la tutela reintegratoria c.d.
attenuata disciplinata da tale previsione in confronto a quelle che
contemplano, invece, la tutela reintegratoria c.d. forte, in base alle quali
tale limite non è previsto. Di talché, la questione della misura dell’indennità
risarcitoria che “non può essere superiore a dodici mensilità della
retribuzione globale di fatto” non è tale da poter essere rinviata e/o
demandata alla fase di esecuzione (spontanea o coattiva) del relativo comando
giurisdizionale, come sostenuto dalla Corte territoriale, ma l’esistenza del
ridetto limite massimo deve trovare chiara espressione già nel dispositivo di
sentenza del giudice della cognizione, per modo che risulti chiara la tutela
applicata, e cui deve dare seguito la parte datoriale.

21) pertanto, giusta l’art.
384, comma secondo, seconda ipotesi, c.p.c., la pronuncia gravata in parte
qua dev’essere sul punto cassata con decisione nel merito, non essendo nella
specie necessari ulteriori accertamenti di fatto. S’è visto, difatti, che la
stessa ricorrente non dubita che, in caso di conferma della tutela
reintegratoria (come qui si è ribadito, spettante al lavoratore nella forma
c.d. attenuata ex art. 18,
comma quarto, L. n. 300/1970), il risarcimento del danno debba essere
“limitato alla misura di 12 mensilità”; sicché è necessario e
sufficiente disporre in tal senso nel dispositivo di questa decisione.

22) tenendo conto del limitatissimo accoglimento del
solo sesto motivo di ricorso, nella sua versione subordinata, e della posizione
assunta dal controricorrente, il quale, nella presente sede di legittimità, pur
avendo concluso per l’inammissibilità e/o improcedibilità dell’intero ricorso o
per il suo rigetto, nello svolgimento delle sue (invero sovrabbondanti) difese
ha riconosciuto come gli competesse un risarcimento entro il limite di dodici
mensilità di retribuzione globale di fatto al massimo (cfr. facciate 27-28 del
controricorso, che consta di fogli non numerati), la ricorrente, che resta
soccombente in via del tutto prevalente, dev’essere condannata al pagamento di
4/5 delle spese processuali, liquidate per intero come in dispositivo per questo
giudizio di legittimità e, sempre per intero, come già liquidate nei – due
gradi di merito, e da distrarre per tale quota in favore del difensore del
controricorrente, dichiaratosi anticipatario, con, conseguente compensazione
tra le parti del residuo 1/5 di dette spese.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il sesto motivo; dichiara inammissibili il
terzo ed il quinto; rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, limita la condanna della
C. s.p.a., in persona del suo legale rappresentante prò tempore, quanto alla
condanna all’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale
di fatto, a 12 mensilità di tale retribuzione.

Condanna la ricorrente al pagamento di 4/5 delle
spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per compensi ed €
200,00 per esborsi per l’intero, e nelle misure già liquidate per l’intero per
il primo grado e il secondo grado, oltre rimborso forfetario delle spese
generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. per tali due gradi e per questo
giudizio di legittimità, e che distrae in favore del difensore del
controricorrente, Avv. N.C. per tale quota, compensando tra le parti le
medesime spese nella misura di 1/5.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 novembre 2022, n. 32810
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