Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2022, n. 35235

Lavoro, Mobbing, Rimozione dall’incarico dirigenziale di maggiore pregnanza, Accoglimento

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Bari, confermando la sentenza del Tribunale di Trani, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni per mobbing proposta, nei riguardi del Comune di Bisceglie, dal lavoratore P.C., già responsabile del Primo Settore Segreteria Generale (1^ Ripartizione amministrativa) e poi trasferito come dirigente del Settore Servizi Demografici e, infine, dell’Area Ambiente e Sanità;

la Corte di merito ha escluso che vi fosse prova dell’intento lesivo e persecutorio, che muoveva dall’assunto, erroneo e aprioristico ad avviso del giudice d’appello, che i diversi incarichi rivestiti dal C., rientranti tutti nella qualifica dirigenziale, non fossero equiparabili a quello originario nella Segreteria Generale, perché caratterizzati da minor importanza e grado di responsabilità;

tale assunto non teneva conto, infatti, che non era configurabile un diritto del C. a conservare, nel rispetto di professionalità acquisite, un incarico dirigenziale di specifica tipologia e che non era applicabile al dirigente pubblico locale la disposizione dell’art. 2103 cod. civ.;

i vizi degli atti sindacali, come riscontrati in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato o in sede giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo, erano legati poi a «rilievi di tipo meramente formale», onde l’impossibilità di inferirne, per ciò solo, la lesività delle condotte della P.A. nel diverso campo privatistico, anche perché era rimasta indimostrata «la mala fede e scorrettezza dell’agere del Sindaco», avv. F.N., in carica dal 1996 al 2005, essendo piuttosto evincibile ex actis «la tensione che ha caratterizzato il rapporto tra il dirigente e il suo Sindaco»;

né infine poteva attribuirsi rilevanza alla vicenda penale, posto che la Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 320/2012, limitandosi a rilevare che difettasse «l’evidenza dell’innocenza», aveva escluso la punibilità del Sindaco per il reato di abuso d’ufficio per effetto della maturata prescrizione;

la Corte distrettuale riconosceva come l’amministrazione avesse dato «giustificazioni plausibili» rispetto ai plurimi episodi richiamati dal C. a supporto del mobbing, quali dinieghi di ferie e di richieste di partecipazione a corsi, sistemazioni logistiche inadeguate ecc., siccome occasionati da situazioni contingenti e non dai ventilati intenti persecutori;

2. P.C. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, resistito da controricorso del Comune di Bisceglie; entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative; F.N. è rimasto intimato.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. nonché violazione dell’art. 2043 cod. civ., dell’art. 109 d.lgs. n. 267/2000, dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.;

ad avviso del ricorrente, il giudice d’appello ha proceduto a un’errata qualificazione della fattispecie che era incentrata non sull’illegittimità di singoli atti di attribuzione degli incarichi e sull’esercizio dello ius variandi datoriale né tanto meno sul diritto del dirigente a conservare le posizioni occupate in precedenza, ma sul complesso delle condotte unitariamente considerate in termini di mobbing, profilo su cui era innestata domanda, su cui la Corte territoriale non si è pronunciata, di risarcimento del danno;

2. con il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 2087, 2103 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost, degli artt. 1175-1375 cod. civ., dell’art. 109 d.lgs. n. 267/2000 e dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.;

il ricorrente ripercorre la motivazione dei vari pronunciamenti del Tar e del Consiglio di Stato e osserva che «tutti gli atti adottati dal Sindaco aventi ad oggetto il mutamento di incarico di C. sono stati annullati per illegittimità… ed hanno sicura lesività anche in ambito privatistico», tradendo la volontà punitiva e persecutoria del sindaco, fonte di responsabilità anche per la P.A.;

3. con il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2087 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.;

si deduce in particolare illegittimità degli atti di attribuzione degli incarichi, per mancanza di valutazioni comparative tra gli aspiranti in violazione del canone di buona fede, che impingerebbe in responsabilità contrattuale; peraltro, l’elemento psicologico dell’illecito si evince dalle prove raccolte nel diverso ambito del giudizio amministrativo ed ove mai il giudice d’appello avesse ritenuto indimostrato il fine persecutorio, ben poteva valutare se alcune delle condotte denunciate, pur non unificate da tale fine, potessero essere considerate nondimeno mortificanti per il lavoratore e comunque ascrivibili a responsabilità datoriale;

4. con la quarta critica si denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.: il ricorrente aveva dedotto, e provato, il maggior rilievo dell’incarico alla

Segreteria Generale rispetto a quello alla Ripartizione Ambiente e il fatto, peraltro confermato dal Consiglio di Stato nei pareri adottati, non era contestato ex adverso, sicché la Corte di merito, sostenendo l’equivalenza degli incarichi dirigenziali, aveva violato l’art. 115 cod. proc. civ. e anche l’art. 112 cod. proc. civ. perché avrebbe pronunciato su una eccezione mai proposta dall’amministrazione comunale;

5. la quinta, ed ultima, censura denuncia violazione degli artt. 2043 e 2087 cod. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: dalla documentazione allegata dal C. si evinceva non già una situazione di «tensione che ebbe a caratterizzare il rapporto tra il Dirigente e il suo Sindaco», come incongruamente osservato dalla Corte barese, ma piuttosto l’animus nocendi di quest’ultimo, disvelato dall’uso di espressioni di sapore intimidatorio, offensive, lesive della dignità professionale del dirigente;

6. le diverse critiche, fra loro intimamente connesse, meritano trattazione congiunta; esse si appalesano, nel complesso, fondate;

6.1 secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698);

6.2 se ne desume che l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto;

6.3 a tal fine, la legittimità dei provvedimenti può rilevare ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore; nel giudizio sulla sussistenza o meno dell’intento persecutorio rileva anche la natura pubblica del datore di lavoro, che, nel rispetto del principio costituzionale di cui all’art. 97 cost., è tenuto ad intervenire per assicurare efficienza, legittimità e trasparenza dell’azione amministrativa;

6.4 senonché, la sentenza impugnata ha escluso la fondatezza della domanda sulla base di argomenti non conferenti e contraddittori perché, oltre a ritenere che la legittimità del provvedimento di rimozione dall’originario incarico dirigenziale nella Segreteria Generale e della conseguente riassegnazione ad altro incarico escludesse in radice la configurabilità del mobbing, ha tenuto in non cale le reiterate pronunce di annullamento degli organi di giustizia amministrativa e le argomentazioni che le sorreggevano, seppure puntualmente richiamate dal C.;

6.5 la Corte di merito ha, in particolare, affermato l’irrilevanza dell’animus puniendi di cui fa cenno il giudice amministrativo, in tal guisa pervenendo a conclusioni difformi da quelle attinte nel diverso ambito giurisdizionale, quando, al contrario, proprio l’intento persecutorio, se debitamente apprezzato, può rendere illecita la condotta, se sistematica e reiterata, finanche nei casi di apparente legittimità degli atti adottati;

6.6 la motivazione si rivela, poi, carente perché si fonda solo sulla valutazione frammentaria e atomistica dei singoli provvedimenti di assegnazione al nuovo incarico dirigenziale e non sviluppa una valutazione globale delle iniziative adottate nei confronti del C. dall’amministrazione comunale, sebbene i motivi di appello chiamassero la Corte territoriale a pronunciare sulla sussunzione del caso concreto a una fattispecie astratta nella quale rilievo determinante assume proprio la reiterazione e la sistematicità della condotta;

6.7 strettamente funzionale a tale incompleta ricostruzione degli accadimenti è poi l’affermazione con cui la Corte distrettuale sottolinea il carattere quasi-politico e fiduciario degli incarichi dirigenziali in discorso, in tal guisa finendo per avallare l’erroneo riferimento del tribunale, giustamente censurato dal ricorrente nell’atto d’appello, alla materia dello spoils system;

nell’ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l’applicazione dello spoils system può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della “apicalità” dell’incarico nonché della “fiduciarietà” della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la fiduciarietà, per legittimare l’applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante (Cass. 5 maggio 2017, n. 11015); pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale, come quello di specie, che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell’indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell’ente di riferimento;

6.8 orbene, discostandosi da tali principi, la Corte di merito svaluta le documentate ingerenze del Sindaco sull’attività amministrativa del ricorrente, certamente non indicative di un’impostazione atta a preservare quella doverosa separatezza tra attività politica e amministrazione attiva;

in definitiva, la rimozione del C. dall’incarico dirigenziale di maggiore pregnanza nell’Area della Segreteria Generale, in virtù di plurimi provvedimenti illegittimi e quindi annullati dagli organi di giustizia amministrativa, la mancata ottemperanza dell’amministrazione a tali pronunciamenti e, ancora, le interferenze nell’attività di gestione amministrativa deputata al C., erano condotte suscettibili di apprezzamento ex art. 2087 cod. civ., disposizione che, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio della salvaguardia del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione, e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.;

6.9 sempre dall’art. 2087 cod. civ. sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa;

la stessa giurisprudenza precisa, poi, che dalla suddetta definizione del mobbing lavorativo si desume che se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati (arg. da Cass., Sez. VI pen., 8 marzo 2006, n. 31413).

In simile evenienza, l’accertamento di tale lesione non può considerarsi impedito dall’eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione che il giudice del merito è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. 10 settembre 2004, n. 17610; Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519);

6.10 spettava, quindi, alla Corte territoriale accertare se le condotte denunciate fossero lesive dei diritti del lavoratore e verificare se vi fossero stati danni da stress-lavoro correlato, potendo, anche d’ufficio, modificare la originaria impostazione della domanda e valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – potesse presuntivamente risalirsi (quanto meno) al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291);

7. conclusivamente, non essendosi la Corte barese conformata ai principi suesposti, il ricorso deve essere accolto;

l’impugnata sentenza deve essere pertanto cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, cui demanda anche di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2022, n. 35235
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