Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 marzo 223, n. 8306

Lavoro, Licenziamento per giusta causa, Permessi ex lege 104/1992, Nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, Il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, Onere del datore provare l’aliunde perceptum o percipiendum dal lavoratore illegittimamente licenziato, Rigetto

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 41/2019 del 28.3.2019, il Tribunale di Larino aveva respinto l’opposizione che l’attrice (…), aveva proposto contro l’ordinanza emessa il 24.10.2017 ai sensi dell’art. 1, comma 49, L. n. 92/2012, dal medesimo Tribunale, con la quale ordinanza era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato alla (…) dalla datrice di lavoro convenuta, (…) s.p.a., in data 27.11.2015.

2. La citata ordinanza, resa all’esito della fase sommaria, aveva rilevato che la (…) dipendente della resistente con mansioni di cassiera, in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, aveva utilizzato i permessi ex lege 104/1992, a lei concessi nei giorni 29, 30 e 31 ottobre 2015, per espletare attività diverse dall’assistenza alla madre disabile, come contestatole, ed aveva ritenuto che tale condotta, integrante una sicura e ripetuta violazione dei doveri di correttezza e buona fede, nonché degli obblighi contrattualmente assunti, di diligenza e di fedeltà, fosse idonea a recidere il vincolo fiduciario con la datrice di lavoro.

3. La sentenza emessa in sede d’opposizione, nel confermare l’ordinanza suddetta, alla luce dell’espletata istruttoria orale, rilevava in aggiunta che dalla deposizione della teste di parte opponente, (…), era emerso che la (…) nella giornata di sabato 31.10.2015, pur fruendo del permesso ex lege 104/1992 non si era affatto presa cura della madre, la quale era rimasta affidata per la gran parte della giornata proprio alla sua amica (…).

4. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Campobasso accoglieva il reclamo che la (…) aveva proposto contro la sentenza di primo grado, e, in riforma della stessa, annullava il licenziamento intimato alla reclamante con atto del 27.11.2015 e condannava la società reclamata a reintegrare la (…) nel posto di lavoro occupato alla data del recesso, nonché al pagamento, in favore della stessa, di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, entro il limite delle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per il medesimo periodo, maggiorati degli interessi nella misura legale; condannava, inoltre, la reclamata a rifondere alla reclamante le spese del doppio grado di giudizio, come liquidate e in distrazione.

5. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, dopo aver dato ampiamente conto dei motivi di reclamo, e all’esito di un capillare riesame delle risultanze processuali, giungeva alla conclusione dell’infondatezza degli addebiti mossi alla lavoratrice, giudicando che non era emerso, alla luce della espletata istruttoria, che sui tre giorni cui si riferiscono i permessi di cui aveva usufruito la (…) parametrati all’orario di lavoro effettivamente svolto, la stessa sarebbe stata impegnata in attività diverse dall’assistenza alla madre disabile, da intendersi nella accezione più ampia riconosciuta anche da questa Corte Suprema. Riteneva, in particolare, dimostrato dalla lavoratrice che ella curava gli interessi della madre anche quando era all’esterno dell’abitazione, facendo la spesa, sbrigando pratiche (o informandosi sulla possibilità di una visita domiciliare), rifornendo di carburante l’autovettura, acquistando capi di abbigliamento per la stessa; attività che difficilmente potevano essere delegate a terzi, anche dietro pagamento di un compenso.

6. Avverso tale decisione la (…) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

7. Ha resistito l’intimata con controricorso e deposito di successiva memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 della legge n. 183 del 2010, e 33, co. 3, L. n. 104/1992, nonché degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. Secondo la stessa, la Corte d’appello avrebbe ancorato “le proprie determinazioni alla novella di cui all’art. 24 della legge n. 183 del 2010 che, ai fini della legittimazione ai benefici della legge n. 104/92 ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza” e, “siccome l’ammissione ai suddetti benefici prescinde dai richiamati requisiti, anche la fruizione dei permessi ex Ig. 104/92 sarebbe svincolata dalla necessità di rivolgere l’assistenza al beneficiato nei predetti termini”.

Per la ricorrente, tuttavia, per tal modo detta Corte avrebbe confuso “i requisiti relativi alla concessione del beneficio ex art. 104/92 (ndr ex lege art. 104/92) con le finalità, del tutto diverse e specifiche, cui sottendono i permessi retribuiti”. La ricorrente, inoltre, assume che “la sentenza impugnata è pervenuta a conclusioni che rappresentano l’esatto contrario rispetto al risvolto logico-deduttivo fatto proprio dalla Corte di Cassazione in innumerevoli pronunce, che la stessa Corte territoriale, peraltro, cita”. Per altro verso, secondo la ricorrente <le asserzioni “generiche” della Corte territoriale stridono fortemente con le risultanze processuali, violando i precetti di cui agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.>.

2. Col secondo motivo, deduce: “violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c., in particolare: a). violazione dell’art. 1, comma 40, paragrafo 4, della legge n. 92/2012 nonché dell’art. 1227 c.c. sull’onere della prova in relazione all’aliunde perceptum o percipiendum. b). violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché dell’art. 115 c.p.c. In particolare: sull’onere probatorio relativo all’aliunde perceptum e sulla dichiarata inammissibilità degli ordini di esibizione diretti a determinati enti pubblici”. Assume, infatti, che la “Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata dalla scrivente difesa, e reiterata in tutti i precedenti, numerosi, scritti difensivi in merito alla richiesta rivolta ai Giudice, di ordinare l’esibizione, ai rispettivi Enti preposti, dei documenti attestanti l’indennità di disoccupazione percepita nelle more dalla sig.ra (…) le eventuali occupazioni nel frattempo avute e/o la certificazione dell’iscrizione nelle liste di disoccupazione”.

3. Il primo motivo è privo di fondamento.

3.1. Esso presenta anzitutto profili d’inammissibilità per tutta la parte in cui, nella chiave di apparente deduzione della violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., in realtà, da una parte, critica nel merito l’apprezzamento probatorio compiuto dalla Corte territoriale e, dall’altra, propone una propria diversa lettura della fattispecie concreta sul piano probatorio, preclusa ovviamente in questa sede (cfr. pagg. 21-28 del ricorso).

4. Per il resto, nell’impugnata sentenza non sono riscontrabili le pur dedotte violazioni dell’art. 24 L. n. 183/2010 e dell’art. 33, co. 3, L. n. 104/1992.

4.1. Per chiarezza occorre precisare che l’art. 33 L. n. 104/1992 e, in particolare, il suo comma 3 hanno formato oggetto nel tempo di numerose modifiche e riformulazioni, da ultimo, con la (nuova) sostituzione di detto comma ad opera dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 105/2022, n. 105.

La Corte territoriale ha preso in considerazione il testo dell’art. 33, comma 3, cit., come sostituito dall’art. 24, comma 1, lett. a), L. n. 183/2010, e, cioè, la versione della norma pacificamente applicabile ratione temporis alla fattispecie di cui è causa.

4.2. Ciò per ora rilevato, per pacifica giurisprudenza di questa Corte può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784 del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749-del 2016; ancora di recente: Cass. n. 23891 del 2018 e Cass. n. 8310 del 2019).

In coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. sez. VI, 16.6.2021, n. 17102; id., sez. lav., 19.7.2019, n. 19580; id., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310; id., sez. lav., 13.9.2016, n. 17968), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell’abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione Europea, l’art. 54, dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza Europea: in termini v. Cass. n. 9217 del 2016).

4.3. Inoltre, la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito (in termini: Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062 del 2017; Cass. n. 30676 del 2018).

Nondimeno, in relazione a fattispecie concrete più simili a quella che ci occupa, questa Corte ha sancito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 L. n. 104 del 1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (cfr. Cass. sez. lav., 20.8.2019, n. 21529, in cui fu respinta la tesi datoriale secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile); ovvero che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell’aver svolto l’attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce pertanto giusta causa di recesso del datore di lavoro (così Cass. sez. lav., 22.3.2016, n. 5574, già cit.).

Tutti tali principi sono stati, di recente, confermati anche in Cass. 24.8.2022, n. 25290, pure riferita a caso analogo a quello in esame, ponendosi in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall’altro, possono essere fruiti “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, ma per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”.

4.4. Ebbene, la decisione della Corte di merito risulta in linea con tali principi di diritto.

In particolare, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, il giudice del reclamo non ha annesso soverchio rilievo alle modifiche derivanti all’epoca dalla sostituzione del testo normativo ex art. 24, comma 1, lett. a), L. n. 183/2010.

La Corte d’appello ha piuttosto condivisibilmente ritenuto “che il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, essendo evidente che la cura di un congiunto affetto da menomazioni psico-fisiche, non in grado di provvedere alle esigenze fondamentali di vita, spesso richiede interventi diversificati, non implicanti la vicinanza allo stesso”.

A riguardo ha svolto delle considerazioni esemplificative di tale più lata nozione di assistenza (cfr. pag. 15 della sua decisione).

Indi, ha richiamato in proposito la sopra già cit. Cass. civ., sez. lav., 2.10.2018, n. 23891, evidenziando che quest’ultima aveva “confermato, ritenendola in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di permessi ex lege 104/1992, la sentenza della Corte di appello di Roma che aveva escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso utilizzate dal lavoratore per attività come il fare la spesa, l’usare lo sportello Postamat, incontrare il geometra e l’architetto, essendo emerso, dalle prove raccolte, che le stesse erano ricollegate a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti”.

4.5. In punto di fatto, quindi, la Corte di merito ha accertato in estrema sintesi: 1) che nel giorno (…), in quanto cadeva di giovedì, ossia, il giorno della settimana che era abitualmente “libero” per la lavoratrice, questa non avrebbe comunque lavorato, anche senza beneficiare del permesso apposito, sicché non poteva “assumere alcun rilievo, ai fini disciplinari, la circostanza che la stessa non fosse stata per tutto il giorno presso l’abitazione nella quale conviveva con la madre disabile”; 2) che per gli altri due giorni 30 e 31.10.2015, cui si riferiva la contestazione disciplinare, essendo “incontestato che”, in difetto dei permessi, la stessa “avrebbe lavorato venerdì 30 ottobre dalle 17.00 alle 20.00 e sabato 31 ottobre dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 17.00 alle 20.00”, riteneva “dimostrato che anche allorquando si è allontanata da casa si è per lo più dedicata ad attività (come fare la spesa, compiere acquisti, sbrigare incombenze) funzionali alla cura e alla assistenza della anziana madre, non risultando i comportamenti rilevati per le ore per le quali tale prova non è stata fornita (anche in ragione della genericità degli addebiti), comunque significativi di una omessa assistenza” (ma v. in extenso le pagg. 16-19 della sua sentenza).

4.6. Sul piano giuridico, allora, le considerazioni svolte dalla Corte distrettuale, in relazione a quanto accertato e diffusamente apprezzato a livello probatorio, risultano ineccepibili; viepiù tenendo conto del dato, evidenziato dalla stessa Corte, che la lavoratrice conviveva con la madre disabile e non essendosi constatato che nei tre giorni oggetto di contestazione la (…) si fosse dedicata, magari in via del tutto preponderante, ad esigenze esclusivamente personali o comunque assolutamente estranee ad un’assistenza a detta stretta parente già normalmente prestata appunto in regime di convivenza tra le due donne.

In relazione in particolare al giovedì 29.10.2015, la Corte d’appello non ha affermato quello che sembra ad essa attribuire la ricorrente, e cioè che “il lavoratore che richiede ed usufruisce della giornata di permesso ex L. 104/92 nel giorno in cui, solitamente, non presta attività lavorativa, è di fatto esentato dal dover prestare assistenza al disabile per il quale è beneficiario dei suddetti permessi poiché non avendo comunque dovuto lavorare non deve necessariamente dedicarsi al disabile!”.

Come si è visto, infatti, la Corte di merito ha piuttosto considerato che, per quel particolare giorno, non poteva assumere rilievo disciplinare la circostanza che la lavoratrice non fosse stata per tutto il giorno presso l’abitazione nella quale conviveva con la madre disabile.

Del resto, ribadito che il grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del congedo spetta al giudice del merito, la prospettiva di parte ricorrente denuncia una visione meramente quantitativa dell’assistenza rispetto alla quale occorre invece che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale (v. Cass. n. 29062/2017 cit.) che deve avere carattere permanente e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile, tenuto altresì conto dei valori di rilievo costituzionale coinvolti dalla disciplina in esame che postulano una peculiare e rafforzata tutela degli interessi regolati (v. Corte Cost. n. 232 del 2018).

5. In definitiva, la decisione gravata, in relazione al caso di specie come approfonditamente valutato dai giudici di secondo grado, è conforme ai più recenti precedenti di questa Corte in subjecta materia, i quali, quando hanno confermato le decisioni di merito che avevano ritenuto legittimi i licenziamenti intimati per contestati abusi circa i permessi in questione, lo hanno fatto in relazione a casi concreti significativamente difformi rispetto a quello che qui ci occupa (cfr. Cass., sez. VI, 16.6.2021, n. 17102, relativa a conferma di licenziamento del lavoratore che durante i permessi ex lege 104 aveva svolto attività incompatibili con l’assistenza alla madre, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre; Cass., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310, relativa a fattispecie in cui il dipendente di una municipalizzata aveva chiesto ed ottenuto alcuni permessi per assistere il padre, che, invece, risultava essere regolarmente operativo nella stessa azienda del figlio).

6. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.

6.1. Pure tale censura presenta anzitutto profili d’inammissibilità, anche in termini di autosufficienza, per la parte in cui vi si asserisce che la Corte territoriale avrebbe dichiarato inammissibile un’istanza di esibizione da rivolgere ad enti competenti, asseritamente sempre reiterata dalla difesa della convenuta.

Invero, in primo luogo di un provvedimento della Corte d’appello che abbia dichiarato inammissibile una richiesta in tal senso dell’attuale ricorrente per cassazione non v’è traccia nell’impugnata sentenza.

Inoltre, non solo non è stato prodotto in questa sede il provvedimento della Corte distrettuale (se precedente e distinto dall’impugnata sentenza) che avrebbe dichiarato inammissibile tale istanza, ma di tale provvedimento neanche sono stati indicati gli estremi e la sua attuale collocazione negli atti di causa e men che meno è riferita l’eventuale motivazione.

Infine, l’impugnante neanche ha richiamato proprie specifiche deduzioni in merito ai profili dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum.

6.2. Errato in diritto è, poi, l’assunto della stessa, secondo il quale il comportamento diligente del lavoratore nella ricerca di una occupazione “costituisce vero e proprio onere probatorio che incombe sul lavoratore stesso e l’omissione del quale – come nel caso che ci occupa – obbliga il Giudice ad una valutazione ex officio”.

Occorre, infatti, sottolineare che nella motivazione di Cass. civ., sez. lav., 7.2.2022, n. 3824 (e, negli esatti termini, id., sez. lav., 13.4.2022, n. 12034), questa Corte aveva specificato che: “il semplice dato della esplicitazione, nella L. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come riformulato dalla L. n. 92 del 2012, della detraibilità dell’aliunde perceptum e percipiendum, non altera la natura dei compensi percepiti nello svolgimento di altre attività lavorative, quali fatti impeditivi della domanda risarcitoria del lavoratore (v. Cass. n. 1636 del 2020; n. 30330 del 2019), da veicolare nel processo sotto forma di eccezioni, sia pure in senso lato (v. Cass. n. 21919 del 2010; n. 5610 del 2005; n. 10155 del 2005)”. E su tali basi era stato ribadito “l’onere, del datore di lavoro che contesti la pretesa risarcitoria del lavoratore illegittimamente licenziato, di provare, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, l’aliunde perceptum o percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. n. 22679 del 2018; n. 9616 del 2015; n. 23226 del 2010)”.

Ergo, l’indirizzo ermeneutico circa l’onere di allegazione e prova sugli aspetti suddetti a carico del datore di lavoro, che aveva seguito la Corte territoriale, è stato da ultimo confermato espressamente in relazione alla formulazione attuale dell’art. 18, comma quarto, L. n. 300/1970, applicabile ratione temporis alla fattispecie che qui ci occupa.

7. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore dello Stato, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. Risulta, infatti, che la controricorrente vittoriosa è stata ammessa al patrocinio al spese dello Stato in relazione a questo procedimento (giusta delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso in data 5.2.2020, in copia agli atti). La ricorrente è inoltre tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dello Stato, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella – misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

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