Per qualificare i proventi derivanti da carried interest come redditi di natura finanziaria, ove non ricorrano le condizioni previste dall’art. 60 del D.L. n. 50/2017, occorre indagare l’idoneità in concreto dei caratteri dell’investimento (quali l’esposizione al rischio di perdita del capitale investito) a garantire l’allineamento di interessi tra investitori e management.

Nota a AdE Risp. 28 luglio 2023, n. 403

Francesco Palladino

L’Agenzia delle entrate, con la Risposta in oggetto, ha fornito taluni chiarimenti sul trattamento fiscale da riservare ai proventi derivanti dalle azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati di cui all’art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (c.d. Carried Interest), percepiti da coloro che intrattengono un rapporto di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione di fondi d’investimento.

Come noto, tali strumenti comportano una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori e accordano il rimborso dell’investimento solo una volta che la generalità dei soci abbia ottenuto il rimborso del capitale investito, oltre ad un rendimento adeguato. Il maggior rendimento connesso agli strumenti finanziari in esame è denominato “carried interest” e rappresenta una forma di incentivo riconosciuto, al realizzarsi di determinati risultati, ai soggetti maggiormente esposti al rischio derivante dall’investimento.

Questi strumenti hanno posto un problema circa l’esatta qualificazione reddituale da dare ai proventi che producono. Infatti, considerato il duplice ruolo rivestito dai loro titolari in seno alle società, vale a dire amministratore o dipendente, per effetto dell’esistenza di un rapporto di lavoro (e quindi possibili titolari di un reddito di lavoro dipendente o assimilato) e azionista/quotista, per effetto della titolarità di tali strumenti (e quindi anche possibili titolari di reddito di natura finanziaria), si è a lungo discusso se, alla luce del principio di omnicomprensività del reddito da lavoro dipendente ex art. 51 TUIR, dovesse prevalere la qualificazione dei connessi proventi come redditi di lavoro, piuttosto che come redditi (di capitale o diversi) di natura finanziaria. In linea principio, il predetto principio di omnicomprensività fa, infatti, ricomprendere nell’alveo del reddito da lavoro dipendente ogni erogazione riconducibile al rapporto di lavoro (inclusi i compensi erogati in natura). In altri termini, si è a lungo posto il problema circa quale delle due “anime” dovesse prevalere.

L’art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 ha risolto la situazione prevedendo che detti proventi siano “in ogni caso” ricondotti nel novero dei redditi di natura finanziaria e siano, dunque, qualificati come di capitale (se si tratta dei proventi derivanti dall’incasso di cedole) o diversi (se si tratta dei proventi derivanti dalla loro negoziazione) e non già come redditi di lavoro dipendente, purché siano rispettate talune condizioni:

a) l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori titolare dei titoli, comporta un esborso effettivo pari ad almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato dall’OICR o del patrimonio netto (capitale sociale più riserve) nel caso di società od enti;

b) i proventi dei titoli che assicurano diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i quotisti dell’OICR o i soci della società hanno percepito un ammontare pari al capitale investito e un rendimento minimo previsto nel regolamento dell’OICR o nello statuto della società (c.d. hurdle rate), ovvero, in caso di cambio di controllo (o di gestione), alla condizione che gli altri quotisti o soci abbiano realizzato, con la cessione, un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito ed al suddetto rendimento minimo;

c) i titoli con diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e dagli amministratori (o dai loro eredi) per un periodo non inferiore a 5 anni o, qualora precedente, al cambio del controllo della società o del gestore per l’OICR.

In particolare, in merito al requisito sub a), l’Agenzia delle entrate, con la Risposta n. 403/2023 in esame, ha chiarito che la carenza del requisito minimo dell’investimento non esclude aprioristicamente la natura finanziaria dei proventi da carried interest. Anche in assenza di tale requisito, i rendimenti di titoli con diritti patrimoniali rafforzati possono ancora essere inquadrati tra i redditi di natura finanziaria, se sussiste l’idoneità dell’investimento a garantire l’allineamento di interessi tra investitori e management e la correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito che contraddistingue l’investimento del manager. Si tratta, però, di un’analisi da effettuare in concreto, caso per caso.

Nella vicenda alla base della Risposta in argomento era previsto che la società emittente, a parziale copertura della sottoscrizione degli strumenti finanziari, erogasse in favore di taluni manager un finanziamento fruttifero a tasso agevolato. Tale circostanza poneva dei dubbi in relazione al fatto che si realizzasse un’effettiva condivisione del rischio di impresa da parte dei manager sottoscrittori rispetto agli altri investitori. Al riguardo l’Agenzia delle entrate, con la Risposta in analisi ha in primo luogo chiarito, richiamando un suo precedente (Circ. n. 25/E/ 2017), che la condizione dell’esborso effettivo risulta tipicamente soddisfatta laddove non siano previste ipotesi di rinuncia al credito da parte del finanziatore. Non ricorrendo questa ipotesi nel caso di specie, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto sussistenti indici per considerare i proventi percepiti dai titolari di tali strumenti quali redditi di capitale in quanto detti strumenti comportavano un effettivo rischio di perdita del capitale investito ed avevano una remunerazione pienamente allineata agli standard di settore costituita da una parte fissa e di una variabile.

Carried Interest: idoneità dell’investimento da valutare in base al rischio d’impresa
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