Il violento diverbio litigioso fuori del luogo di lavoro non giustifica il licenziamento.

Nota a Cass. 9 gennaio 2018, n. 297 

Mara Mancini

L’accesa discussione con un collega di lavoro e poi il litigio con toni aggressivi in presenza di altri dipendenti e clienti che prosegua fuori del luogo di lavoro, degenerando in rissa, con uso di armi da taglio e lesioni, non legittima il licenziamento.

L’affermazione è di Trib. Milano (6 maggio 2015), secondo cui, nel caso di specie, non era configurabile una condotta disciplinarmente rilevante (ai sensi del ccnl applicabile alla fattispecie), per la quale era prevista la massima sanzione espulsiva, sicché doveva “escludersi la giusta causa di licenziamento, non essendo stato il comportamento tenuto fuori dei locali dell’azienda in continuità spaziale e temporale con quello avveratosi nel contesto aziendale”.

Pertanto, alla fattispecie in esame risultava applicabile la disciplina contenuta nell’art. 18, co. 5, Stat. Lav. (L. n. 300/1970, come mod. dalla L. n. 92/2012) che prevede, per i casi ulteriori rispetto a quelli contemplati dal co. 4 (mancanza di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa… per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili), la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro “al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.

In proposito, la Corte di Cassazione (9 gennaio 2018, n. 297), pur ritenendo illegittimo il licenziamento determinato dal pesante diverbio litigioso, ha rimesso la causa alla Corte di Appello per una nuova determinazione dell’indennità, sul presupposto che la misura dell’indennità stessa, come fissata dalla Corte di merito, non era quella prevista dal co. 5 dell’art. 18, quanto quella, di entità minore (da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), prevista al successivo co. 6 dell’art. 18 e relativa all’ipotesi di accertamento dell’inefficacia del licenziamento per violazione del requisito della motivazione. A tale riguardo, come noto, la legge stabilisce che: “nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”.

Rissa fuori dal locale aziendale: licenziamento e indennità risarcitoria
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