Il danno non patrimoniale per lesione del diritto alla dignità va liquidato in via equitativa.

Nota a Trib. Lanciano 23 settembre 2019, n. 111

Fabrizio Girolami

Va condannato al risarcimento del danno il datore di lavoro (società automobilistica Sevel S.p.A. – con sede in Atessa (CH)) che impedisca materialmente ad un dipendente di recarsi alla toilette, durante il turno lavorativo, costringendo l’operaio, di fronte alla necessità impellente, ad urinare nei pantaloni.

La decisione è del Tribunale di Lanciano (23 settembre 2019, n. 111) in relazione ad un caso (che ha avuto ampio risalto negli organi di stampa) in cui un lavoratore, assunto dalla Sevel con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con qualifica di operaio addetto ai lavori di produzione, durante il turno di lavoro 14.15. – 22.15, precisamente alle ore 16.45 circa, aveva avvertito il bisogno di recarsi ai servizi igienici, azionando conseguentemente il dispositivo di chiamata/emergenza, al fine di chiedere l’autorizzazione ad allontanarsi dal posto di lavoro nel rispetto delle procedure vigenti. Tuttavia, nessun preposto ovvero team leader si era presentato alla sua postazione, ragion per cui l’operaio aveva azionato anche il dispositivo di chiamata/emergenza della postazione vicina, ottenendo anche in questo caso esito negativo. Egli richiedeva, quindi, di essere autorizzato ad allontanarsi ai team leader che si trovavano nei pressi della sua postazione “senza ottenere risposta positiva”. A questo punto, il lavoratore cercava di resistere “per quanto possibile” al fine di non abbandonare la sua postazione in assenza di autorizzazione ma, alla fine, giunto “allo stremo della resistenza”, e non riscontrando alternative possibili, abbandonava la postazione, correndo di gran carriera verso i servizi igienici, non riuscendo ad evitare di urinarsi addosso nei pantaloni.

Nonostante questa spiacevole situazione, l’operaio aveva ripreso immediatamente la propria attività lavorativa con i pantaloni bagnati nella zona dell’inguine, chiedendo il permesso di cambiarsi in infermeria, senza tuttavia ottenere il relativo permesso. Il lavoratore era poi riuscito a cambiarsi soltanto durante la pausa serale, alle ore 18.00, presso il cd. “box Ute” (chiuso solo su 3 dei 4 lati), al cospetto di tutti i lavoratori, inclusi quelli di sesso femminile.

Il lavoratore aveva quindi proposto ricorso dinanzi al Tribunale di Lanciano, chiedendo la condanna dell’azienda al risarcimento del danno per lesione del “diritto alla dignità della persona sul luogo di lavoro”, lamentando di avere patito, dopo lo spiacevole episodio, uno stato ansioso e depressivo, tale da richiedere il bisogno di cure mediche e che aveva pregiudicato “notevolmente il suo stile di vita”.

Il giudice di merito abruzzese, valutate le risultanze delle dichiarazioni testimoniali dei colleghi di lavoro rese in giudizio, ha ritenuto fondati i motivi di doglianza del lavoratore, rilevando che “dagli elementi probatori raccolti in ordine alla gravità oggettiva del fatto è possibile affermare (…) che il datore di lavoro ha arrecato concreto e grave pregiudizio alla dignità personale del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, indubbiamente derivante dall’imbarazzo di essere osservato dai colleghi di lavoro con i pantaloni bagnati per essersi minzionato addosso”.

In particolare, secondo la sentenza in commento, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., avrebbe dovuto adottare tutte le misure idonee a salvaguardare la personalità morale dei lavoratori, omettendo, nel dettaglio, di predisporre “un sistema organizzativo che consenta, anche nel caso in cui tutti i dipendenti addetti alle sostituzioni di altri lavoratori siano per le più svariate ragioni impossibilitati alla sostituzione, al lavoratore di allontanarsi dalla propria postazione di lavoro per soddisfare un bisogno primario, non controllabile né preventivabile”. Il comportamento del datore di lavoro ha dunque determinato la lesione di diritti inviolabili della persona del lavoratore (tutelati anche a livello costituzionale) che dà luogo “a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale”.

Il giudice di prime cure ha quindi proceduto alla liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa, quantificato in Euro 5.000,00, aderendo al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., Sez. III, 3 dicembre 2007, n. 25171), secondo cui la “liquidazione del danno morale conseguente alla lesione dell’onore o della reputazione, allo stesso modo di quanto è previsto per ogni altro risarcimento del danno per fatto illecito, è rimessa alla valutazione equitativa del giudice e sfugge necessariamente ad una precisa valutazione analitica, restando essa affidata al criterio equitativo”.

Al tempo stesso, il Tribunale ha escluso la sussistenza, in favore del dipendente, di ulteriori voci di danno risarcibili (tra cui l’asserito danno biologico, derivante dallo stato depressivo, in quanto non adeguatamente dimostrato in giudizio, mediante produzione della necessaria documentazione sanitaria), non essendo tra l’altro in alcun modo ascrivibile “alla società datrice di lavoro la risonanza mediatica che la vicenda ha avuto, frutto di una scelta del ricorrente, che ha ritenuto opportuno informare la stampa di quanto occorso”.

Pausa “bagno” vietata: il lavoratore che si urina addosso ha diritto al risarcimento del danno esistenziale
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