Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2019, n. 28511

Contratti di collaborazione coordinata e continuativa a
progetto, Riammissione in servizio, Rapporto di lavoro subordinato,
Differenze retributive

 

Fatti di causa

 

Con sentenza del 22.6.2015, la Corte d’appello di
Roma accertava l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal I settembre
2004 tra S.L.C. e la s.p.a. H.R.C., condannava la società all’immediata
riammissione in servizio del lavoratore con inquadramento nel IV livello del
CCNL (attuale liv. D2) di settore e al pagamento, in suo favore, delle
differenze retributive relative al periodo dal 16.3.2009 alla data della
sentenza, da determinarsi sulla base della media dei compensi percepiti, oltre
accessori di legge: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva
invece rigettato la domanda del lavoratore.

Al di là della formale instaurazione nel suindicato
periodo di rapporti tra le parti in forza di due contratti di collaborazione
coordinata e continuativa a progetto, a norma degli artt. 61 e 62 d.lg. 276/2003, la
Corte territoriale riteneva l’esistenza, a far data dalla stipulazione del
primo contratto a progetto del 1.9.2008, di un rapporto di lavoro subordinato,
sugli essenziali elementi dell’eterodirezione dell’attività del lavoratore e
della sua soggezione al potere disciplinare datoriale, in base alle scrutinate
risultanze istruttorie. Pure in forza di queste, essa riconosceva
l’inquadramento professionale corrispondente alle mansioni di cameraman svolte
dal lavoratore e rendeva le superiori statuizioni, in particolare liquidando il
danno subito dal predetto nel periodo intermedio (tra la cessazione della
prestazione in fatto e la pronuncia) in applicazione della normativa di diritto
comune e non dell’art. 32, quinto
comma I. 183/2010.

Con atto notificato il 17 dicembre 2015, la società
ricorreva per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi
dell’art. 380 bis 1 c.p.c., cui il lavoratore
resisteva con controricorso. Ritenuta l’insussistenza dei presupposti per la
trattazione in adunanza camerale, la causa era rinviata a nuovo ruolo e quindi
rifissata all’odierna pubblica udienza. Il controricorrente comunicava memoria
ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Nelle more decedeva l’avv. A.S., come dichiarato in
udienza dal codifensore della ricorrente avv. S.C..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 61 d.lg. 276/2003, 2094, 2222 ss. c.c.in relazione all’art. 2697 c.c., per erroneo accertamento di un
rapporto di lavoro subordinato tra le parti, senza un’attenta né corretta
distinzione tra questo e il lavoro autonomo professionale, alla luce delle
scrutinate risultanze della prova orale, deponenti per l’assenza di un
penetrante potere direttivo (tanto meno disciplinare, né conformativo della
prestazione) datoriale, ma per la presenza di semplici direttive programmatiche
rispettose dell’autonomia del prestatore d’opera.

2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362, 2094 c.c., 115, 116, 409, n. 3 c.p.c.,
per la natura effettivamente parasubordinata dei rapporti instaurati tra le
parti, corrispondenti alla volontà formalizzata a norma dell’art. 62 d.lg. 276/2003,
congruente con la collaborazione, variabile e flessibile (appunto a programma),
necessaria alla società gestrice di ippodromi e di centri di addestramento,
nonché di iniziative sportive, giochi e scommesse ippiche.

3. Con il terzo, la ricorrente deduce nullità della
sentenza per omessa pronuncia su specifiche eccezioni e per vizio di
ultrapetizione, nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
oggetto di discussione tra le parti, in ordine all’inquadramento delle mansioni
del lavoratore al livello D2 (ex IV livello) del CCNL Società C.C..

4. Con il quarto, essa deduce violazione dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010,
per la non corretta liquidazione del danno risarcibile al lavoratore nel
periodo intermedio (tra la cessazione della prestazione in fatto e la pronuncia
della Corte d’appello) sulla base delle retribuzioni maturate e non
dell’indennità omnicomprensiva prevista dalla norma denunciata, applicata dalla
giurisprudenza di legittimità in senso estensivo ad ogni contratto lavorativo a
termine, convertito in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
in esito all’accertata nullità del termine.

5. I primi due motivi, relativi alla violazione
delle norme suindicate per non corretta qualificazione del rapporto tra le
parti come di lavoro subordinato anziché di collaborazione parasubordinata a
progetto, possono essere congiuntamente esaminati, per ragioni di evidente
connessione.

5.1. Essi sono infondati.

5.2. E’ noto che il contratto di lavoro a progetto,
disciplinato dall’art. 61 d.lg.
276/2003, integri una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato
da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente
personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente
collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente,
ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e
quindi senza vincolo di subordinazione (Cass. 6
settembre 2016, n. 17636).

E che ai fini della distinzione fra lavoro
subordinato e autonomo, anche nel caso di contratto di lavoro a progetto, debba
attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto,
da cui sia ricavabile l’effettiva volontà delle parti (iniziale o
sopravvenuta), rispetto al nomen iuris adottato dalle parti (Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289).

D’altro canto, in tema di qualificazione del
rapporto di lavoro in generale, la prolungata esecuzione ed il nomen iuris, pur
essendo elementi necessari di valutazione, non costituiscono fattori
assorbenti, occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento
del rapporto di lavoro (Cass. 1 marzo 2018, n.
4884; e con specifico riferimento ad una qualificazione del rapporto di
lavoro, operata dalle parti, come contratto di collaborazione coordinata e
continuativa: Cass. 8 aprile 2015, n. 7024).

5.3. Occorre allora ribadire che, ai fini della
distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, l’elemento della
subordinazione (ossia della sottoposizione al potere direttivo, disciplinare e
di controllo del datore di lavoro) costituisce una modalità d’essere del
rapporto, desumibile da un insieme di circostanze che devono essere
complessivamente valutate da parte del giudice del merito; e ciò in particolare
nei rapporti di lavoro aventi natura professionale o intellettuale e
indipendentemente da una iniziale pattuizione scritta sulle modalità del
rapporto (Cass. 26 agosto 2013, n. 19568). Tra
le circostanze da valorizzare, speciale importanza ha il vincolo di soggezione
del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di
lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici (e non soltanto
di direttive di carattere generale, ben compatibili con il semplice
coordinamento sussistente anche nel rapporto libero professionale: Cass. 16 novembre 2018, n. 29646), oltre che
dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione
delle prestazioni lavorative (Cass. 8 febbraio
2010, n. 2728).

Una tale valutazione di fatto è poi rimessa in via
esclusiva al giudice del merito e, se immune da vizi giuridici e adeguatamente
motivata, è insindacabile in sede di legittimità, ove è censurabile soltanto la
determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto
(Cass. 25 febbraio 2019, n. 5436).

5.4. Ebbene, la Corte territoriale ha esattamente
applicato i suenunciati principi di diritto, focalizzando la distinzione tra
collaborazione coordinata e continuativa a progetto e rapporto di
subordinazione nell’effettivo, e non formale, margine di autonomia (pg. 5 della
sentenza).

Essa ha quindi compiuto un accertamento in fatto,
sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie, congruamente argomentato
(per le ragioni esposte al paragrafo 3 delle pgg. 5, 6 e 7 della sentenza),
pertanto insindacabile in sede di legittimità.

6. Il terzo motivo, relativo ai vizi di error in
procedendo e di motivazione suindicati in ordine all’inquadramento delle
mansioni del lavoratore, è pure infondato.

6.1. Anche qui la Corte territoriale ha
correttamente accertato (al punto 4 di pg. 8 della sentenza) l’attività (di
cameraman) concretamente svolta dal lavoratore e individuato la qualifica
prevista dal contratto collettivo di categoria, in esito al cd. procedimento
trifasico, consistente nel raffronto tra il risultato della prima indagine e
della seconda (Cass. 27 settembre 2010, n. 20272;
Cass. 28 aprile 2015, n. 8589; Cass. 27 settembre 2016, n. 18943). Senza con
ciò omettere alcuna pronuncia su eccezioni della società datrice (disattese
dall’accertamento in fatto), né incorrere in vizio di ultrapetizione, avendo la
Corte capitolina pronunciato sulla domanda di inquadramento nel livello D2 (ex
IV livello) del CCNL di settore, cui è seguita quella delle relative differenze
retributive, mantenuta nei due gradi di merito.

6.2. Neppure si configura, infine, il vizio di
motivazione come denunciato, alla luce del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., non essendo
stato allegato un fatto storico (ma piuttosto contestata una valutazione
giuridica) di cui sia stato omesso l’esame: tanto meno secondo il prescritto
paradigma deduttivo, secondo cui il ricorrente deve indicare il “fatto storico”,
il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale,
da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale
fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua
“decisività” (Cass. s.u. 7 aprile 2014,
n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

7. Il quarto motivo, relativo ad error in iudicando
per non corretta liquidazione del danno risarcibile al lavoratore nel periodo
tra la cessazione della prestazione in fatto e la sentenza d’appello sulla base
delle retribuzioni maturate e non dell’indennità omnicomprensiva ai sensi dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010,
è invece fondato.

7.1. La questione devoluta riguarda dunque
l’applicabilità o meno dell’indennità omnicomprensiva istituita dall’art. 32, quinto comma I. 183/2010
anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo.

La norma in esame prevede che, nei casi di
conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanni il datore di
lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva
da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 I. 604/1966.

La lettura comparativa con il quarto comma dello
stesso articolo rivela immediatamente come il quinto richiami esclusivamente
l’istituto del “contratto a tempo determinato”, senza alcuna sua
regolamentazione specifica; al contrario del quarto, che indica invece
analiticamente, per ciascuna ipotesi, la disciplina di riferimento. Sicché, il
quinto comma contiene una formulazione unitaria, indistinta e generale di
“casi” di “conversione del contratto a tempo determinato”
senza alcuna specificazione normativa di riferimento, né aggiunta di ulteriori
elementi selettivi.

7.2. Sulla base di tale piana constatazione
interpretativa, questa Corte già da tempo ha adottato una lettura estensiva
della formula “casi di conversione del contratto a tempo
determinato”, comprensiva anche dei contratti di lavoro temporaneo, non
preclusa da una “indicazione”, contenuta nella sentenza 9 novembre 2011, n. 303 della Corte
costituzionale, in quanto “non vincolante e limitata ad un inciso,
peraltro riguardante il contratto di somministrazione, in una sentenza
focalizzata su altro problema” (Cass. 17
gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013,
n. 13404).

Ed infatti, nello scrutinio di legittimità
costituzionale dell’art. 32,
quinto comma I. 183/2010, alla stregua di previsione irragionevolmente
riduttiva del risarcimento del danno integrale già conseguibile dal lavoratore,
illegittimamente estromesso alla scadenza del termine, sotto il regime
previgente e (per quanto qui interessa) “con effetti discriminatori nei
confronti di una serie di lavoratori … in situazioni comparabili”, la
Consulta ha escluso (al p.to 3.3.3. del Considerato in diritto) una
“indebita omologazione, da parte del modello indennitario delineato dalla
normativa in esame, di situazioni diverse” per le “ulteriori
disparità di trattamento segnalate dal Tribunale di Trani”, attesa
“l’obiettiva eterogeneità delle situazioni”, preclusiva
dell’assimilabilità del “contratto di lavoro subordinato con una clausola
viziata (quella, appunto, appositiva del termine) … ad altre figure
illecite”: quali la somministrazione irregolare di manodopera
(specificamente rilevante nei due arresti di legittimità citati), la cessione
illegittima del rapporto di lavoro e quella dell’utilizzazione fraudolenta della
collaborazione continuativa e coordinata (qui appunto rilevante).

L’inesistenza di un vincolo interpretativo nel passo
della sentenza della Corte costituzionale appena illustrato, già ritenuta da
questa Corte nei precedenti richiamati, deve essere qui ribadita. E non
soltanto per l’ovvia considerazione del limitato effetto (processuale) della
pronuncia di rigetto sulla questione rimessa, in assenza di alcuna decisione
sulla legge; ma anche per l’inidoneità dell’argomentazione a costituire dato
ermeneutico impegnativo, in riferimento alla (in)applicabilità dell’art. 32, quinto comma I. cit.
alle diverse fattispecie illecite richiamate in via esemplificativa, in
funzione di mera esclusione della prospettata disparità di trattamento per
obiettiva eterogeneità delle situazioni. Sia pure non esplicitato dalle due
sentenze citate, questo è stato I’ “altro problema” sul quale la
“sentenza” si è “focalizzata”, senza una più puntuale
definizione del perimetro della norma, in quanto eccedente la questione di
costituzionalità prospettata.

7.3. Tanto chiarito, occorre allora assumere come
dato acquisito, per indirizzo giurisprudenziale di legittimità ormai
consolidato in diritto vivente, la necessità (e, al tempo stesso, la
sufficienza) di verificare, per l’inclusione nell’art. 32, quinto comma I. 183/2010
della fattispecie in esame, la sussistenza delle due sole condizioni: a) di
natura a tempo determinato del contratto di lavoro; b) di presenza di un
fenomeno di conversione.

Tale approdo interpretativo (oltre che nelle citate Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404, in numerose
successive, tra le quali: Cass. 1 agosto 2014, n.
17540; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24887; Cass.
3 aprile 2018, n. 8148; Cass. 12 giugno 2019, n. 15753, in materia di
prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a) I.
196/1997 e di somministrazione a termine) è stato ribadito con l’inequivoca
affermazione della rilevanza, a fini di applicazione dell’indennità in
questione, del duplice presupposto della natura a tempo determinato del
contratto di lavoro dedotto in giudizio e della sua “conversione”,
estensibile all’accertamento di ogni ragione che comporti la stabilizzazione
del rapporto, anche se derivante da una deviazione dalla causa o funzione ad
esso propria, come nell’ipotesi di nullità del termine finale apposto al
contratto di formazione e lavoro per mancato adempimento dell’obbligo formativo
(Cass. 21 giugno 2018, n. 16435), o
addirittura di illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine,
convertito in contratto a tempo indeterminato, poiché la predetta indennità
consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di altra fattispecie
contrattuale a tempo determinato (Cass. 3 agosto
2018, n. 20500).

7.4. Occorre allora verificare l’applicabilità dei
suenunciati principi di diritto al contratto di lavoro a progetto, che, si
ribadisce, è disciplinato dall’art.
61 d.lg. 276/2003 alla stregua di una particolare forma di lavoro autonomo,
caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa,
prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici,
funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati
dal committente, ma gestiti dal collaboratore nel rispetto del coordinamento
con l’organizzazione del primo e indipendentemente dal tempo impiegato per
l’esecuzione dell’attività lavorativa, senza che si configuri una soggezione al
potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione: con la
conseguenza che il progetto concordato non può consistere nella mera
riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque nella
previsione di prestazioni a carico del lavoratore coincidenti con l’ordinaria
attività aziendale (Cass. 6 settembre 2016, n. 17636).

Si deve poi ritenere che la nozione di
“specifico progetto” consista, tenuto conto delle precisazioni
introdotte nell’art. 61 cit. dalla I. 92/2012,
in un’attività produttiva chiaramente descritta e identificata, funzionalmente
ricollegata ad un determinato risultato finale (e dunque di un termine) cui
partecipa con la sua prestazione il collaboratore e con la precisazione della
non necessaria inerenza del progetto specifico ad un’attività eccezionale,
originale o del tutto diversa rispetto all’ordinaria e complessiva attività di
impresa (Cass. 16 ottobre 2017, n. 24379; Cass. 26 aprile 2018, n. 10135).

Sicché, l’art. 69, primo comma d.lg. 276/2003
(ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche dell’art. 1, ventitreesimo comma, lett. f)
I. 92/2012) si interpreta nel senso che, quando un rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza individuare uno
specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si proceda ad
accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i
canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma all’automatica conversione in
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di
costituzione (Cass. 21 giugno 2016, n. 12820; Cass. 17 agosto 2016, n. 17127; Cass. 5 novembre 2018, n. 28156).

Né un tale regime sanzionatorio contrasta con il
principio di “indisponibilità del tipo”, per il quale è stato escluso
che il legislatore o le parti possano imporre presunzioni o qualificazioni
contrattuali di autonomia che sottraggano alle indefettibili garanzie del
lavoro subordinato una fattispecie che come tale si realizza (Corte cost. 25
marzo 1993, n. 121; Corte cost. 23 marzo 1994, n.
115), in quanto posto a tutela del lavoro subordinato e non invocabile nel
caso inverso, nemmeno essendo sottratti al giudice i poteri di qualificazione
del rapporto, ma introdotta una sanzione consistente nell’applicazione al
rapporto delle garanzie del lavoro dipendente; neppure esso contrasta con l’art. 41, primo comma Cost., traendo origine da una
condotta datoriale di violazione di prescrizioni di legge ed essendo coerente
con la finalità antielusiva perseguita dal legislatore (Cass. 4 aprile 2019, n.
9471).

Se allora le condizioni di applicabilità
dell’indennità omnicomprensiva prevista dall’art. 32, quinto comma I. 183/2010
sono costituite dalla natura a tempo determinato del contratto di lavoro e
dalla presenza di un fenomeno di conversione, occorre affermare, in coerente
continuità con l’indirizzo interpretativo di questa Corte, la loro ricorrenza
anche nel caso in esame.

7.5. Posto che la temporaneità deve naturalmente
essere intesa non soltanto nel senso di predeterminazione cronologica
espressamente individuata dall’apposizione di un termine finale, ma di
intrinseca limitazione nel tempo di un’attività, destinata a cessare con il
raggiungimento di un obiettivo chiaramente predefinito, il contratto di lavoro
a progetto integra questa prima condizione.

Esso è, infatti, ontologicamente a tempo
determinato, siccome da ricondurre costitutivamente ad uno o più progetti
specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale:
al punto di essere contratto di lavoro a progetto in quanto
“finalisticamente a tempo”, o di non esserlo, così divenendo altro.

7.6. La perdita della caratteristica coessenziale
del “progetto” introduce la seconda condizione necessaria: la
presenza di un fenomeno di conversione.

È noto che l’espressione “conversione”, in
materia di contratti di lavoro a tempo determinato, sia utilizzata in dottrina
e giurisprudenza per descrivere il meccanismo in base al quale la nullità della
clausola di apposizione del termine non produce la nullità dell’intero
contratto, ma la sua elisione, secondo il meccanismo previsto dall’art. 1419, secondo comma c.c., comportante la
conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in
rapporto a tempo indeterminato, e cioè in un contratto privo della clausola
accidentale nulla. L’operatività di questo meccanismo in alcuni casi si ricava
dal sistema, in altri è stabilito espressamente dalla legge (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404).

Ed è ciò che accade anche per il contratto in esame,
per esplicita previsione dell’art.
69, primo comma d.lg. 276/2003, secondo il quale un rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa, che sia instaurato senza
l’individuazione di uno specifico progetto, si converte automaticamente in
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

La conclusione raggiunta in via di coerente
interpretazione sistematica neppure è smentita dall’art. 50 I. 183/2010, che anzi
esplicitamente menziona la conversione. Esso prevede: “Fatte salve le
sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della natura subordinata
di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili
ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro
il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai
sensi dell’articolo 1, comma
1202 e seguenti della legge 27 dicembre 2006, n. 296, nonché abbia, dopo la
data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la
conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto
l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte
durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a
indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra
un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo
ai criteri indicati nell’articolo
8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

È indubbio che la norma introduca un regime speciale
finalizzato a limitare, in sede di prima applicazione della legge 183/2010 ed alle condizioni indicate, le
conseguenze sanzionatorie in caso di accertamento della natura subordinata del
rapporto delle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, già
oggetto di un’offerta di stabilizzazione ai sensi dell’art. 1, comma 1202 ss. I. 296/2006
(cosiddetta “legge finanziaria 2007”); non potendo così trarsene una
regola generale nel senso di escludere, in difetto delle condizioni di
stabilizzazione eccezionalmente indicate, il contratto in esame dalla
soggezione al nuovo generale regime indennitario.

Il contenuto normativo dell’art. 50 in parola, che risponde
a finalità proprie e attende ancora un più compiuto chiarimento interpretativo,
si colloca pur sempre nell’alveo di una fondamentale istanza legislativa di
determinazione del risarcimento del danno in via forfettizzata, congruente con
la ratio di attribuzione al sistema del lavoro temporaneo di un maggior grado
di certezza e stabilità.

Per quanto qui interessa, esso stabilisce in
particolare una riduzione, per così dire premiale (dell’emersione delle
collaborazioni coordinate e continuative, anche se riconducibili ad un progetto
o programma di lavoro, in seguito alle procedure di stabilizzazione
suindicate), in misura di metà del massimo dell’indennità; non diversamente
dalla previsione del sesto comma dell’art. 32 cit., di dimidiazione
della misura dell’indennità del quinto comma (“In presenza di contratti
ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di
lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche
graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto
alla metà”), in funzione promozionale di soluzioni sindacali del
contenzioso rilevante sedimentatosi, in materia, in alcuni settori produttivi.

Sicché, non ci sono ragioni per dubitare che l’art. 50 I. cit. osti
all’applicabilità dell’indennità omnicomprensiva istituita dall’art. 32, quinto comma I. 183/2010
anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo.

8. Le superiori argomentazioni comportano
l’accoglimento del quarto motivo esaminato, con rigetto degli altri e la
cassazione della sentenza, in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche
per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte
d’appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio
di diritto, enunciato a norma dell’art. 384,
secondo comma c.p.c.:

“Il regime indennitario istituito dall’art. 32, quinto comma I. 183/2010
si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, in
quanto fattispecie nella quale ricorrono le condizioni della natura a tempo
determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di
conversione”.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il quarto motivo, rigetta gli altri; cassa
la sentenza, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte d’appello di
Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione
delle spese del presente giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2019, n. 28511
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