Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2019, n. 28926

Licenziamento per giusta causa, Reintegrazione nel posto di
lavoro, Indennità risarcitoria, Ammanco di cassa Contestazione tardivamente
formulata

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 522/2017, pubblicata il 27
novembre 2017, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza, con la
quale il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il
licenziamento per giusta causa intimato, in data 24 febbraio 2016, a O.F. da O.I.
S.r.l. in relazione a plurimi addebiti allo stesso contestati con lettere del
13 gennaio e del 15 febbraio 2016, con la condanna della società alla
reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria
determinata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. La Corte di appello ha ritenuto a sostegno della
propria decisione: – quanto al fatto che il lavoratore, all’epoca gerente del
punto vendita di San Giovanni Teatino (CH), avesse consigliato di ripianare un
ammanco di cassa mediante versamenti personali dei dipendenti e omesso di
informare la direzione aziendale dell’accaduto, che la relativa contestazione
era stata tardivamente formulata, posto che l’ammanco si era verificato
nell’ottobre 2013; – quanto al fatto di aver consentito che alcuni dipendenti
fossero segnalati ai clienti come installatori accreditati dal punto vendita,
che tale condotta, comunque limitata a pochi ed eccezionali casi di urgenza,
fosse tollerata in virtù di una prassi aziendale consolidata e risalente nel
tempo; – quanto alla vendita a prezzo ridotto di taluni quantitativi di pellet,
che non era emerso dall’istruttoria che la merce fosse integra e senza difetti,
risultando, in ogni caso, tra le facoltà del gestore del punto vendita, anche
quella di operare sconti in caso di deterioramento; – quanto al fatto, oggetto
di una precedente contestazione disciplinare, di essersi espresso in modo
inurbano durante un colloquio telefonico con un rappresentante sindacale, che
il relativo procedimento era stato archiviato, con conseguente operatività del
divieto di bis in idem,

– quanto al fatto di avere impedito di effettuare
rimborsi ai clienti e di avere obbligato i dipendenti a convincere gli stessi
ad aderire a cambi merci, che non si trattava di costrizione ma di persuasione,
come emerso in sede istruttoria, integrando la condotta così addebitata, pur
parzialmente inosservante delle direttive aziendali, una mancanza soggetta a
sanzione disciplinare conservativa e non espulsiva, come anche il dimostrato
uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, anch’esso oggetto
di contestazione; – che infine fosse insufficiente la prova del fatto di avere
spinto una lavoratrice madre a dimettersi o a chiedere la riduzione di orario
e, quanto al fatto di avere rivolto un’accusa di tossicodipendenza ad una
dipendente, che tale addebito, alla stregua delle risultanze istruttorie,
dovesse essere ridimensionato.

3. Ha proposto ricorso per la cassazione della
sentenza la società, affidandosi a cinque motivi, assistiti da memoria.

4. Il lavoratore è rimasto intimato.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, deducendo la violazione o
falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 7 I. n. 300/1970 e agli artt. 1175 e 1375 cod.
civ., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha
ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, senza considerare che la
valutazione del principio di immediatezza deve essere condotta in base al
criterio di relatività, e cioè avendo riguardo alle circostanze di natura
oggettiva (come la complessità e l’articolazione dell’impresa sul territorio)
che possono ritardare la percezione o l’accertamento dei fatti, ed inoltre
senza considerare che ciò che rileva, ai fini dell’indagine circa la
tempestività della contestazione, non è il momento dell’astratta conoscibilità
dell’infrazione commessa ma quello in cui il datore di lavoro ne acquisisca una
reale e piena conoscenza.

2. Con il secondo viene dedotta la violazione o
falsa applicazione dell’art.
18, commi 4 e 5, I. n. 300/1970 per avere la Corte di appello, confermando
la decisione di primo grado, ritenuto che dovesse applicarsi la tutela della
reintegrazione nel posto di lavoro, sebbene in caso di tardività della
contestazione, come nell’ipotesi di fatto sussistente ma privo di illiceità, la
tutela da riconoscersi a favore del lavoratore potesse essere soltanto quella
risarcitoria.

3. Con il terzo e con il quarto viene dedotto il
vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione fra le parti, fatto consistito (3°) nella difficoltà incontrata
dalla società nell’accertamento dei fatti a causa della condotta degli altri
dipendenti del punto vendita, fra cui in particolare il comportamento
connivente dell’area manager, (4°) in una delle condotte contestate, avente ad
oggetto il ripetuto impiego di modi ineducati nei confronti di taluni
dipendenti.

4. Con il quinto viene dedotta la violazione o falsa
applicazione degli artt. 2119 e 2697 cod. civ. e degli artt. 220 e 229 C.C.N.L.
Commercio per avere la Corte di appello, con l’affermazione che l’unico fatto
di rilievo disciplinare dimostrato in giudizio era costituito dall’uso abituale
di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, offerto una valutazione
assolutamente riduttiva dei fatti di causa e del tutto contraria alle
risultanze istruttorie.

5. Il primo motivo è infondato.

6. Il principio dell’immediatezza della
contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il
diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto
allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il
contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della
contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in
relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare,
nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai
canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto
incriminabile (Cass. n. 13167/2009, fra altre
numerose conformi).

7. Come pure è stato ripetutamente affermato nella
giurisprudenza di questa Corte, il criterio dell’immediatezza deve essere
inteso in senso relativo, poiché si deve tener conto delle ragioni che possono
far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per il compimento
delle indagini dirette ad accertare i fatti e la complessità dell’organizzazione
aziendale: la valutazione in proposito compiuta dal giudice di merito è
insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e
priva di vizi logici (Cass. n. 281/2016).

8. Nella specie, la Corte di appello, con una
congrua e corretta motivazione, comunque non oggetto di (ammissibile) censura,
ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, in relazione agli addebiti
concernenti il ripianamento dell’ammanco di cassa e la svendita di pellet,
osservando come, essendo stato informato di entrambi i fatti l’area manager, e
cioè la figura apicale dell’azienda nel punto vendita, secondo quanto
l’istruttoria aveva consentito di accertare, era da ritenere che la datrice di
lavoro ne avesse avuto piena e immediata conoscenza e ciò anche sul rilievo –
conforme a consolidato principio di diritto (Cass.
n. 15467/2004; n. 9894/1993) – che il ritardo nella contestazione
dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori
gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli
organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in
essere dal dipendente.

9. Il secondo motivo è parimenti infondato.

10. La Corte territoriale ha invero accertato, in
relazione a taluni addebiti, la materiale insussistenza del fatto, così come
contestato (con riferimento all’uso di un linguaggio scurrile e irrispettoso
delle prerogative sindacali, l’intervenuta consumazione del potere disciplinare
per lo stesso fatto storico e violazione del principio di ne bis in idem,
essendo stato archiviato un precedente procedimento disciplinare); ha poi
accertato, in relazione ad altri addebiti, elementi idonei ad escludere la
illiceità della condotta: come l’esistenza di una prassi consolidata e
risalente nel tempo, tollerata dall’azienda, per l’addebito avente ad oggetto
il consenso prestato all’attività di installazione da parte di dipendenti del
punto vendita, la cui prova, peraltro, ha osservato la Corte non essere stata
neppure raggiunta con certezza; e come il fatto che nelle facoltà del gestore
del punto vendita fosse compresa anche quella di praticare sconti, specie in
caso di merce deteriorata, per l’addebito relativo alla contestata
“svendita” di bancali di pellet.

11. Ne consegue che la Corte ha correttamente
richiamato e applicato il principio, per il quale l’insussistenza del fatto
contestato, di cui all’art. 18
della I. n. 300/1970, come modificato dall ‘art. 1, comma 42, della I. n. 92 del
2012, “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del
carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela
reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra
sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (Cass. n. 20540/2015; conformi, fra le molte: Cass. n. 18418/2016; n.
11322/2018).

12. Il terzo e il quarto motivo, da trattare
congiuntamente in quanto connessi, risultano inammissibili per effetto della
preclusione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma,
cod. proc. civ. (c.d. “doppia conforme), a fronte di giudizio di
secondo grado introdotto con reclamo depositato il 25 agosto 2017 e, pertanto,
in epoca successiva all’entrata in vigore della norma.

13. Né la ricorrente, al fine di evitare
l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 n.
5 cod. proc. civ., ha indicato le ragioni di fatto poste a base della
decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto
dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e
successive conformi).

14. Egualmente inammissibile risulta il quinto
motivo di ricorso.

15. Al riguardo si deve innanzitutto ribadire che
“la violazione del precetto di cui all’art.
2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., è
configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere
della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole
di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti
costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la
valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti
(sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti
del ‘nuovo’ art. 360 n. 5 cod. proc. civ.):
Cass. n. 13395/2018.

16. In realtà la ricorrente, sotto il velo della
denuncia del vizio di cui all’art. 360 n. 3,
lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo
dell’affermazione o della negazione dell’esistenza della norma in
contestazione, ovvero dal dedurre una falsa applicazione determinata da un
errore di sussunzione, ha inteso rimettere in discussione l’accertamento di
fatto posto in essere dal giudice del merito con riferimento alla gravità dei
fatti contestati e alla loro idoneità a integrare la fattispecie della giusta
causa, anche tenuto conto delle previsioni della contrattazione collettiva in
materia di licenziamento in tronco.

17. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

18. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese del
giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2019, n. 28926
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