Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2020, n. 12499

Pubblica amministrazione, Contratto a termine, Illegittimità
– Proroga, Omessa verifica della sussistenza della condizione inerente la
valutazione dei rischi

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 194, resa in data 13 febbraio
2014, la Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento dell’impugnazione
proposta da M.B., riteneva l’illegittimità del contratto a termine stipulato
tra quest’ultima e il Comune di Pontedera nel periodo 11 settembre 2003-30
giugno 2004, con proroga fino al 31 luglio 2004, per omessa verifica della
sussistenza della condizione di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001
(valutazione dei rischi), disposizione da applicarsi anche ai contratti
conclusi con le pubbliche amministrazioni;

riteneva la Corte territoriale tardiva la produzione
documentale effettuata dal Comune solo in appello, stante il divieto di cui
all’art. 437 cod. proc. civ.;

escludeva la possibilità di conversione del rapporto
e condannava il Comune appellato al pagamento in favore della ricorrente a
titolo di risarcimento di un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto (quantificato ex art. 18, comma 5, St. lav.);

2. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso il Comune di Pontedera con quattro motivi;

3. M.B. ha resistito con controricorso;

4. entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia
nullità della sentenza per violazione dell’art. 112
cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n.
4, cod. proc. civ.;

censura la decisione impugnata per non essersi
pronunciata sulla eccepita inammissibilità dell’appello proposta dalla B. che
non aveva rispettato le prescrizioni di cui all’art.
434 cod. proc. civ.;

2. il motivo è inammissibile;

2.1. non sono trascritti né la sentenza di primo
grado né il ricorso in appello della B.;

2.2. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità (v. Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077);

la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di
indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato
e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il
rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di
Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in
condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere
solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (v. Cass. 4
luglio 2014, n. 15367; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21226);

2.3. dal principio di diritto discende che, qualora,
come nella fattispecie, il ricorrente assuma che l’appello doveva essere
dichiarato inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di
impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano
riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di
primo grado e l’atto di appello;

nè è sufficiente che il ricorrente assolva al
distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., indicando la sede
nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi
necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità
di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai
fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non
sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia
violazione dell’art. 3 del d.lgs.
n. 368/2001 in relazione all’art. 360, n. 3,
cod. proc. civ.;

censura la sentenza impugnata per aver applicato
anche alle p.a. il suddetto art.
3, norma di stretta interpretazione che fa espresso riferimento alle
‘imprese’;

4. il motivo è infondato;

4.1. con l’emanazione del d.lgs.
6 settembre 2001, n. 368 (che per vero, in termini generali, all’art. 10 non indica tra le
esclusioni dal campo di applicazione della disciplina nel medesimo prevista le
pubbliche amministrazioni) si è posto il problema dell’estensione anche ai
contratti a tempo determinato stipulati dalle pp.aa. della nuova disciplina
generale;

l’interpretazione assolutamente prevalente (v., ex
multis, Cass. 15 giugno 2010, n. 14350) è stata nel senso di escludere che il
divieto di conversione di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del
2001, di natura speciale, fosse stato abrogato implicitamente per effetto
della normativa sopravvenuta, valendo nel resto, per i contratti a temine
stipulati con la pubblica amministrazione, la regolamentazione della disciplina
del lavoro a tempo determinato come fissata dal d.lgs.
n. 368 del 2001;

4.2. si aggiunga che all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del
2001 è stato aggiunto il comma
5-ter dall’art. 4, comma 1, lett. b), del d.l. 31 agosto 2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla I. 30 ottobre
2013, n. 125 secondo il quale: “Le disposizioni previste dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si
applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando per tutti i settori
l’obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere ai contratti di
lavoro a tempo determinato esclusivamente per rispondere alle esigenze di cui
al comma 2 e il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo
determinato a tempo indeterminato” norma che, pur essendo ratione temporis
non applicabile alla fattispecie in questione, assume, in una logica di interpretazione
sistematica della normativa complessiva, valenza chiarificatrice del
significato e della portata delle disposizioni precedenti (v., tra molte, Cass.
6 agosto 2019, n. 20997);

invero il suddetto comma 5 ter è stato
successivamente abrogato dall’art.
9, comma 1, lettera e), del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 che ha tuttavia
apportato modifiche all’art.
36 del d.lgs. n. 165 del 2001 prevedendo, tra l’altro, che: “b) al
comma 2 il primo e il secondo periodo sono sostituiti dai seguenti: «Le
amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato a
tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione
di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi delle forme contrattuali
flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di
lavoro nell’impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne
preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche»” e dunque
introducendo una previsione ulteriormente confermativa dell’applicabilità in
generale della disciplina prevista per il lavoro privato salvi i limiti
espressamente previsti (e così, in particolare, il limite della conversione,
rimasto inalterato nonostante tutte le modifiche legislative apportate all’art. 36 ovvero quello,
previsto dall’art. 4, comma 1, del
d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito con modific. nella I. 30 ottobre 2013, n. 125 dell’assunzione a
termine per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale
attingendo dai vincitori ed idonei delle graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato, anziché indire nuove procedure concorsuali a
tempo determinato, limite ribadito in sede di d.lgs.
n. 75/2017);

4.4. la disposizione di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001,
che sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine
per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la
sicurezza e la salute dei lavoratori, costituisce, del resto, norma imperativa,
la cui ‘ratio’ è diretta alla più intensa protezione dei lavoratori rispetto ai
quali la flessibilità d’impiego riduce la familiarità con l’ambiente e gli
strumenti di lavoro, con la conseguenza che, ove il datore di lavoro non provi
di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione, la
clausola di apposizione del termine è nulla (cfr. tra le più recenti Cass. 23 agosto 2019, n. 21683);

è indiscutibile che la stessa ratio di protezione
sussista laddove il contratto a termine sia stato stipulato con una p.a.;

4.5. si consideri, d’altra parte, che l’indicato d.lgs. n. 368 del 2001 è attuativo della direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa
all’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 tra
le organizzazioni intercategoriali a carattere generale CES, UNICE e CEEP,
applicabile anche ai lavoratori a termine assunti dalle pubbliche
amministrazioni, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia UE (v. Corte giust. UE sentenze 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler, nn. 54-57, 7 settembre 2006,
C-53/04, Marrosu e Sardino, n. 39, 7 settembre 2006, C-180/04,
Vassallo, n. 32, 26 novembre 2014, C-22/13, da
C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo e altri; 16 settembre 2016, C-16/15,
Perez Lopez, n. 24);

il recepimento della direttiva sarebbe, allora,
incompleto se non fosse stata prevista l’estensione anche alla pubblica
amministrazione (fatte salve, evidentemente, solo le disposizioni speciali di
cui sopra si è detto);

5. con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione
dell’art. 36 del d.lgs. n.
165 del 2001 sotto il profilo della sussistenza del diritto al risarcimento
del danno in mancanza di allegazione circa i presupposti e la consistenza del
danno;

6. il motivo è infondato;

6.1. le Sezioni Unite questa Corte, nell’arresto del
15 marzo 2016, n. 5072, con riferimento alla norma contenuta nel T.U. n. 165 del 2001, art. 36, hanno enunciato
il principio secondo cui nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti
a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione l’efficacia
dissuasiva richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina
agevolatrice e di favore, che consenta al lavoratore che abbia patito la
reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge
circa l’ammontare del danno;

6.2. dando, poi, atto che il pregiudizio è
normalmente correlato alla perdita di chances di altre occasioni di lavoro
stabile (e non alla mancata conversione del rapporto, esclusa per legge con
norma conforme sia ai parametri costituzionali che a quelli comunitari), le
Sezioni Unite hanno rinvenuto nella I. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5,
una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un
risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, esonera il lavoratore
dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito
danni ulteriori;

6.3. questa Corte in epoca successiva al suddetto
arresto ha precisato (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5319; Cass. 20 luglio 2018, n.
19454) che nel lavoro pubblico contrattualizzato il ricorso alla disciplina di
cui all’art. 32, comma 5, della
I. n. 183 del 2010, al fine di agevolare l’onere probatorio del danno
conseguente all’illegittima reiterazione di rapporti a termine, si giustifica
con la necessità di garantire efficacia dissuasiva alla clausola 5 dell’Accordo
quadro, allegato alla direttiva 1999/70/CE, che
concerne la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti a
termine e che, pertanto, la presunzione non può trovare applicazione nelle
ipotesi in cui l’illegittimità concerna l’apposizione del termine ad un unico
contratto di lavoro;

6.6. da tale ipotesi va tuttavia distinto il caso in
cui siano intervenute una o più proroghe del termine illegittimo apposto
all’unico contratto di lavoro, come pure chiarito da questa Corte (v. Cass. 28
febbraio 2017, n. 5229; Cass. 13 marzo 2017, n.
6413; Cass. 2 ottobre 2018, n. 23945);

la illegittimità del termine originario determina
infatti ex se, indipendentemente da ulteriori verifiche, la illegittimità della
proroga, in questo essa trova la sua causa nella attribuzione di ulteriori
effetti nel tempo ad un termine invalido;

la proroga costituisce, dunque, una condotta
successiva che reitera la illegittimità della iniziale apposizione del termine;
sotto il profilo comunitario si qualifica, pertanto, come abusiva successione
dell’utilizzo del contratto a termine, sanzionata dalla clausola 5 dell’accordo
quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE;

6.7. ne deriva che in caso di illegittimità del
termine originario apposto al contratto di lavoro concluso con la pubblica
amministrazione ove il termine illegittimo venga prorogato il lavoratore che
propone la azione risarcitoria ex art. 36 d.lgs. 165 del 2001
è assistito dalla presunzione di danno (in relazione alla perdita di chances di
altre occasioni di lavoro stabile) codificata dall’articolo 32, comma 5, I. n. 183 del
2010 per il lavoro privato, ferma restando la sua possibilità di provare,
assumendone il relativo onere, di avere subito danni ulteriori;

6.8. nel caso in esame quello stipulato tra le parti
è stato un unico contratto poi, però, prorogato;

si ricadeva, pertanto, nell’ipotesi di agevolazione
probatoria e di operatività della presunzione di legge circa l’ammontare del
danno;

7. con il quarto motivo il ricorrente denuncia
violazione dell’art. 36 del
d.lgs. n. 165 del 2001 dell’art.
18 I. n. 300 del 1970 sotto il profilo della quantificazione del danno;

8. il motivo è fondato;

come già evidenziato ai punti 6.2., 6.3 e 6.7. che
precedono, il criterio di liquidazione del danno, come affermato nella citata
decisione delle Sezioni Unite di questa Corte n.
5072/2016, non può essere quello dell’art. 18 St. lav. bensì quello
dell’art. 32 della I. n. 183 del
2010;

9. da tanto consegue che va accolto il quarto motivo
di ricorso e vanno rigettati gli altri;

la sentenza impugnata va cassata in relazione al
motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Firenze che, in diversa
composizione, procederà ad una nuova quantificazione del risarcimento del danno
tenendo conto del principio sopra richiamato e provvederà anche in ordine alla
spese del presente giudizio di legittimità;

10. non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1, quater d.P.R. n. 115
del 2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il quarto motivo di ricorso e rigetta gli
altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia,
anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2020, n. 12499
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