Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 luglio 2020, n. 22253

Infortunio sul lavoro, Responsabilità per il datore di lavoro
– Dichiarazioni degli altri lavoratori presenti sul cantiere

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Appello
di Milano ha confermato il giudizio di responsabilità reso in primo grado dal
Tribunale di quella stessa città nei confronti di E.D.D. per il reato di cui
all’art. 378 cod. pen., modificando unicamente
il trattamento sanzionatorio, ridotto in ragione del riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, denegate in primo grado.

In particolare, nel comune ritenere dei giudici di
merito di primo e secondo grado, l’imputato, mentendo alla PG quanto alle
modalità di un infortunio sul lavoro accaduto ad un suo collega e avvenuto in
presenza del ricorrente, avrebbe reso dichiarazioni potenzialmente utili a
sviare le indagini che si svolgevano, per quel sinistro, nei confronti del
responsabile della sicurezza per l’ipotesi di reato di cui all’art. 590 cod. pen.

2. Interpone ricorso per cassazione l’imputato, per
il tramite del difensore d’ufficio, e adduce due diversi motivi a sostegno
dell’impugnazione.

2.1. Con il primo motivo si lamenta difetto di
motivazione e violazione di legge quanto alla ritenuta configurabilità del
favoreggiamento contestato.

Ad avviso della difesa, la sentenza impugnata
avrebbe accordato credibilità al narrato del D., parte lesa nel sinistro
riferito; e ciò malgrado le iniziali reticenze in particolare mostrate dopo
l’infortunio sul lavoro che ebbe a coinvolgerlo, allorquando diede una versione
diversa dei fatti, che escludeva ogni responsabilità per il datore di lavoro e
per il responsabile della sicurezza del cantiere ove il fatto si era verificato
e che coincideva con le dichiarazioni dell’imputato, ora ritenute mendaci,
quanto alla assenza dell’E.D.D. dal posto del sinistro nel momento in cui lo
stesso ebbe a verificarsi.

Il tutto travisando sia le dette dichiarazioni
quanto al timore di ritorsioni da parte del datore di lavoro rispetto alla
genesi che giustifica la non coincidenza al vero della prima versione offerta;
sia le dichiarazioni degli altri lavoratori presenti sul cantiere, che sentiti
dalla ASL di Milano, avevano negato la presenza dell’imputato sul luogo del
sinistro.

2.2. Con il secondo motivo difetto di motivazione e
violazione di legge vengono riferiti alla ritenuta non configurabilità
dell’esimente di cui all’art. 384 cod. pen.

Nel concludere per la non applicabilità alla specie
dell’esimente in oggetto la Corte territoriale, ad avviso della difesa, si
sarebbe avvalsa di una argomentazione tautologica nel ritenere non dimostrate
le concrete prospettive di licenziamento che nel caso avevano giustificato le
dichiarazioni dell’imputato; per altro verso, non avrebbe considerato che la
situazione di pericolo che nel caso potrebbe aver giustificato le dichiarazioni
del ricorrente trova ragione nella necessità di perseguire un proprio diritto
di difesa, evitando indagini a proprio carico nell’ambito dell’infortunio
occorso al collega.

3. La Procura Generale, con requisitoria del 19
giugno 2020, ha concluso per la inammissibilità del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni
precisate di seguito.

2. Quanto al primo motivo va ribadito che non è
consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la
Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinato in
sede di merito, sollecitandone un nuovo esame attraverso evocati vizi della
motivazione che in realtà surrettiziamente mirano ad una diversa e alternativa
valutazione del compendio di riferimento.

In questo modo, infatti, si sollecita la Corte di
cassazione a sovrapporre la propria valutazione a quella dei Giudici di merito
laddove ciò non è consentito, nemmeno quando si cerchi di pervenire a detto
risultato eccependo, come nella specie, un asserito travisamento della prova,
posto a fondamento, implicitamente, anche della contestata configurabilità del
reato ascritto al ricorrente.

Sotto quest’ultimo versante è stato recentemente
ribadito (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n.m. sul punto), che il
travisamento delle prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta
da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione.
In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e
non sul significato (sul documentato). Non costituisce dunque il mezzo per
valutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della
motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei
quali si fonda il ragionamento.

2.1. Il primo motivo di ricorso non si attiene alle
superiori indicazioni di principio. Non mira, in particolare, a disvelare
errori percettivi tali da rendere la motivazione insanabilmente contraddittoria
con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel
provvedimento impugnato; piuttosto, tende a mettere in discussione il
significato che i due giudici del merito, conformemente, hanno inteso dare
delle risultanze probatorie poste a fondamento del reso giudizio di
responsabilità, con l’obiettivo, non consentito, di ottenere dalla Corte una
diversa valutazione, sia delle dichiarazioni del D. (contestate sotto il
versante della credibilità), sia dei colleghi di lavoro dell’imputato, presenti
sul cantiere al momento del fatto (limitatamente a queste ultime, peraltro,
senza considerare la deposizione di tutti i soggetti sentiti dalla ASL, a
differenza di quanto operato dai Giudici dell’appello).

Da qui l’inammissibilità del motivo, atteso che il
ricorrente più che eccepire un travisamento probatorio, nella sostanza finisce
per lamentare un non consentito travisamento del fatto, perché attinge a piene
mani dagli snodi fondamentali del compendio probatorio per giungere alla
dimostrazione, in base ad una diversa e alternativa lettura dello stesso, della
ritenuta insussistenza degli elementi utili alla configurazione del fatto di
reato oggetto di imputazione.

4. Anche il secondo motivo è inammissibile.

In primo luogo perché evocando l’esimente in
questione il ricorrente entra in immediato contrasto logico con la prospettiva
difensiva sottesa al primo motivo di ricorso, tesa a negare il substrato
fattuale a sostegno del contestato favoreggiamento.

In secondo luogo perché, come del tutto
correttamente segnalato dalla Corte territoriale, il pericolo addotto secondo
la prospettiva difensiva offerta in appello (i.e., il pericolo di venire
licenziato se avesse detto la verità), non risponde ad una concreta
dimostrazione in punto di fatto ma ad una mera suggestione logica, peraltro
immediatamente smentita dalla conferma delle dichiarazioni mendaci che hanno
concretato il favoreggiamento contestato, ribadite dal ricorrente nel corso del
giudizio, allorquando era già stato licenziato da tempo e pur potendo avvalersi
della via d’uscita garantita dall’art. 376 cod.
pen.

Né, infine, vale riferirsi ad una situazione di
necessità correlata all’esigenza di sottrarsi a diretti profili di
responsabilità, per aver in qualche modo contribuito al sinistro del D.: una
siffatta prospettiva, seppur smentita apertamente dal motivare della sentenza
di primo grado, non risulta neppure sollecitata in occasione dell’appello e non
può essere dunque addotta in sede di legittimità, legandosi ad elementi in
fatto diversi da quelli devoluti alla Corte territoriale.

5. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in
favore della Cassa delle Ammende che si stima equo liquidare in euro tremila.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della cassa delle Ammende.

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