Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2021, n. 15129

Cessione del contratto di lavoro, Applicazione del regime
previsto dall’art. 2112 c.c., Verifica

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 24
agosto 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato – per
quanto qui ancora rileva – “la nullità della cessione del contratto di
lavoro” di L.R., con “la giuridica prosecuzione del rapporto di
lavoro nei confronti della B.M. – M.C. Spa”.

2. La Corte territoriale ha rilevato che la R.,
dipendente di detta azienda dal 1995, in data 3 agosto 2009 era stata assegnata
alla “Unità Servizi Generali e Sicurezza, Section Supporto operativo”
(costituita in pari data) e dal 23 settembre successivo era stata adibita
“ad attività di supporto nella formazione dei ruoli esattoriali”; in
seguito a procedura di consultazione ex art. 47 I. n. 428 del 1991 attivata il
10 novembre 2009, il ramo d’azienda denominato “Supporto operativo”
era stato trasferito alla U.B.P. Scpa e, con nota del 31 dicembre 2009, era
stata comunicata alla lavoratrice la cessione del rapporto di lavoro a
quest’ultima società.

La Corte – in estrema sintesi – ha escluso, dopo
aver esaminato il materiale probatorio acquisito al giudizio, che nella specie
ricorresse il presupposto della “autonomia funzionale del ramo d’azienda
ceduto” ai fini dell’operatività degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c., anche nella formulazione
successiva alle modifiche introdotte dal d. Igs. 10
settembre 2003, n. 276; secondo i giudici di appello “la struttura
ceduta … si risolve nella aggregazione di attività identificate in modo
unitario per volontà della società all’atto della cessione ma sprovviste di una
propria identità organizzativa e funzionale che consentisse alla struttura di
operare autonomamente”.

3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
separati ricorsi prima la B.M. – M.C. Spa e poi U.B.I.S. Scpa, entrambe con due
motivi. Ha resistito con distinti controricorsi L.R.

Le società hanno anche comunicato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente le impugnazioni proposte
separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite ai sensi dell’art. 335 c.p.c.

2. La B.M. – M.C. Spa, con il primo motivo di
ricorso, denuncia: “violazione dell’art. 2112
c.c. in relazione all’accertamento del requisito della preesistenza del
ramo d’azienda ceduto – violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c.)”. Si critica la
sentenza impugnata con molteplici argomentazioni per avere ritenuto che
“non fossero sussistenti, nel caso di specie, i requisiti dell’autonomia
funzionale e della preesistenza del ramo di azienda ceduto da MCC ad
UBIS”.

Con il secondo motivo la stessa società denuncia:
“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti in relazione all’accertamento del requisito
dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto” (art. 360, n. 5., c.p.c.). Secondo la ricorrente
sarebbe mancata, da parte della Corte d’appello, l’analisi di taluni elementi,
“specialmente quelli relativi alla continuità dei rapporti tra nuovo e
vecchio imprenditore, al grado di analogia tra le attività esercitate prima e
dopo la cessione, alla sospensione o meno della attività dopo la cessione ed
alla durata di tale eventuale sospensione”; si lamenta altresì l’omessa
ovvero erronea valutazione di elementi decisivi, “in particolare la
professionalità della R. e degli altri addetti al settore e la rilevanza di
tali conoscenze e professionalità anche in vista dell’utilizzo presso l’impresa
acquirente”, oltre che la contraddittorietà della pronuncia “avendo
la Corte riconosciuto l’esistenza di una sia pur minima struttura organizzata
in grado di funzionare, cioè di rendere un servizio”.

3. La U.B.I.S. Scpa, con il primo motivo del ricorso
dalla stessa proposto, denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2112, comma 5, c.c., anche alla luce dell’art. 12 disp. att. c.p.c., ed in relazione alla Direttiva nn. 1998/50 e 2001/23/CE,
degli artt. 2082, 2555,
1362 e ss. c.p.c. e 2697
c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3,
c.p.c.”. In particolare si lamenta una “violazione della nozione
di ramo d’azienda alla luce dei dati normativi di riferimento”, nonché una
“interpretazione non conforme alla lettera e alla ratio dell’art. 2112, comma 5, c.c., circa la pretesa
insussistenza del requisito dell’autonomia funzionale del ramo ceduto e di
quello della preesistenza dello stesso quale articolazione funzionalmente
autonoma”.

Da ultimo si contesta il principio che sarebbe stato
condiviso dalla sentenza impugnata circa la necessità della preesistenza del
ramo ceduto quale requisito di legittimità della cessione del ramo d’azienda ex
art. 2112, co. 5, c.c., nella versione di testo
applicabile alla fattispecie.

Con il secondo mezzo la società invoca il vizio di
cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per un
“deficit motivazionale” in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale
per aver omesso di valutare se, successivamente al trasferimento, il ramo
d’azienda ceduto avesse continuato a svolgere la propria attività.

4. I motivi di entrambi i ricorsi possono essere
esaminati in connessione in quanto essi, parallelamente, lamentano prima errori
di diritto, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.,
in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale nell’escludere la sussistenza di un
trasferimento di ramo d’azienda e, poi, l’omesso esame di fatti, a mente del n.
5 dell’art. 360 citato, che – secondo le
società – non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici d’appello.

La Corte giudica tutte le doglianze non meritevoli
di accoglimento.

5. In premessa occorre ribadire l’oramai costante
insegnamento di questa Corte secondo il quale la verifica dei presupposti
fattuali che consentano l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c. implica una valutazione di merito
che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al
sindacato di legittimità (v. Cass. n. 20422 del
2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del
2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238- del
2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora, Cass. n. 2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020 e, da ultimo, Cass. n. 7364 del 2021).

Ciò inevitabilmente, considerato che l’accertamento
in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la
fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in
astratto dal comma 5 dell’art. 2112 c.c.,
implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e,
poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del
giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.

In particolare non può negarsi che la valutazione,
nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda
ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che opera, come
tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, per
l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli
elementi che integrano il parametro normativo dell’art.
2112 c.c. Come già ritenuto da questa Corte “spettano inevitabilmente
al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro
materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in
termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in
motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata;
v. pure Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

Da tale pregiudiziale rilievo derivano conseguenze
rilevanti dal punto di vista dei limiti del sindacato di legittimità di questa
Corte e dei vizi che possono essere utilmente denunciati nel ricorso per
cassazione in tali controversie. Infatti, salvo i casi in cui si lamenti che la
sentenza impugnata abbia errato nella ricognizione degli elementi legali
identificativi del trasferimento del ramo d’azienda e, quindi, errato
nell’ascrizione di significato alla disposizione normativa astratta, nelle
altre ipotesi l’alternativa praticabile è che: o si denuncia un errore di
diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c., sub specie
di errore di sussunzione commesso dai giudici del merito (v. in proposito Cass.
SS.UU. n. 5 del 2001 e, più di recente, Cass. n. 13747 del 2018); oppure si
denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ex art.
360, n. 5, c.p.c., ovvero, alternativamente, una motivazione che violi il
cd. “minimo costituzionale”.

Nella prima prospettiva è indispensabile, così come
in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla
ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di
merito e cioè da quel fatto così come da costoro accertato, in quanto è solo
l’applicare ad un accadimento accertato giudizialmente una norma dettata per
disciplinare ipotesi diverse a costituire una falsa applicazione della legge,
usualmente definita “vizio di sussunzione” (cfr. tra le altre: Cass.
n. 6035 del 2018; Cass. n. 8760 del 2019); diversamente si trasmoderebbe nella
revisione di un accertamento che appartiene al dominio dei giudici ai quali
esso compete. Infatti il sindacato sulla -violazione o falsa applicazione di
una norma di diritto (cfr. Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007)
presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata (tra
molte: Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 23851 del 2019); al contrario, laddove
si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla
sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360, n. 3, c.p.c., e la censura è attratta
inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella
formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora
oggetto di contestazione tra le parti.

In questa seconda prospettiva, inevitabilmente
legata alla quaestio facti, potrà essere denunciato l’omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le
parti, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Ma in tal caso dovranno essere rispettati gli enunciati posti
nell’interpretazione della novellata formulazione della disposizione dalle
Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn.
8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse
Sezioni unite, v. sentenze n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del
2015, oltre che dalle Sezioni semplici).

Solo ove vengano rispettati tali enunciati potrà
valutarsi, in sede di legittimità, se la totale trascuratezza ad opera dei
giudici del merito di un fatto storico connesso alla vicenda traslativa del
trasferimento d’azienda avrebbe condotto, per la sua sicura decisività, ad un
opposto esito della lite.

In entrambi i casi resta fermo quanto ancora di
recente ribadito dalle Sezioni unite civili circa l’inammissibilità di censure
che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa
applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso
l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici
da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale
di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360
c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito
degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n.
34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950
del 2020).

6. Tanto premesso dal punto di vista dei limiti del
controllo di legittimità, i motivi di ricorso di entrambe le società non
possono, come si anticipava, trovare accoglimento.

Le pretese violazioni o false applicazioni di legge
in realtà propongono un diverso apprezzamento del peso da attribuire alle varie
circostanze di fatto che hanno dato origine alla vicenda contenziosa,
collocandosi al di fuori, per quanto innanzi chiarito, del paradigma dettato
dal n. 3 dell’art. 360 c.p.c.; quanto poi al
vizio, pure denunciato, di cui al n. 5 dell’art.
360 c.p.c., le parti ricorrenti, lungi dall’enucleare un fatto storico
realmente decisivo la cui valutazione sarebbe stata omessa dalla Corte romana e
che avrebbe condotto ad un esito diverso della lite con una prognosi di
certezza e non di mera probabilità, si limitano a proporre una diversa lettura
della vicenda traslativa ed in particolare del grado di autonomia funzionale
del ramo ceduto, nella sostanza opponendo solo un diverso apprezzamento dei
fatti.

In punto di diritto, infatti, il Collegio reputa che
il giudice d’appello abbia deciso le questioni in modo conforme alla
giurisprudenza di questa Corte e l’esame dei motivi di ricorso non offre
elementi per mutare condivisi orientamenti.

6.1. Secondo un risalente principio di legittimità
la cessione di ramo d’azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di
beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria
autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di
un’attività volta alla produzione di beni o servizi (Cass. n. 17919 del 2002; Cass. n. 13068 del 2005; Cass. n. 22125 del
2006).

Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è
coerente con la disciplina in materia dell’Unione Europea (direttiva 12 marzo
2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come
modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE)
secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente
direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità,
intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività
economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).

La ratio della disciplina comunitaria è intesa ad
assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell’ambito di
un’attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e,
quindi, è finalizzata a proteggere i lavoratori nella situazione in cui
siffatto cambiamento abbia luogo (Corte di Giustizia, 7 febbraio 1985, C-186/83,
Botzen e a., punto 6; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers,
punto 11); essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso
di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di
stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente nelle ipotesi in cui
non si controverta del “mantenimento dei diritti dei lavoratori
trasferiti” presso la cessionaria, in difetto dei presupposti previsti dal
diritto dell’Unione (cfr. Corte di Giustizia, 6
marzo 2014, C-458/12, Amatori e a., punti 35 e 37).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio
interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis: Cass. n. 19740 del 2008), ha ripetutamente
individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di
persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica
finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di
Giustizia, 11 marzo 1997, C- 13/95, Siizen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C- 340/2001,
Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005,
C- 232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia
sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre
1998, Hernandez Vidal e a., C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini,
C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6
settembre 2011, C-108/ 10, Scattolon, punto 60; Corte
di Giustizia, 20 luglio 2017, Piscarreta Ricardo, C-416/16, punto 43; Corte
di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 60).

Anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003,
questa Corte ha ribadito che, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda
previsto dall’art. 2112 c.c., rappresenta
elemento costitutivo della cessione “l’autonomia funzionale del ramo
ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso
cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed
organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza
integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione
cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della
cessione” (sul tema v. diffusamente Cass. n.
11247 del 2016; di analogo tenore, assunte in decisione nella medesima
udienza pubblica del 26 febbraio 2016, Cass. nn.
9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016; tra le
successive conformi v.: Cass. n. 19034 del 2017;
Cass. n. 28593 del 2018).

Si è inoltre sottolineato che il “fatto che la
nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario- di identificare
l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito
di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta
come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della
speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile
frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere
definiti i contenuti e l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che
realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e
funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo”; tanto in
continuità con una tradizionale impostazione secondo cui non è consentita la
creazione di una struttura produttiva ad hoc in occasione del trasferimento o
come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa
l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non
coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non
autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non
dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito (tra altre,
Cass. n. 2429 del 2008; Cass. n. 21711 del 2012;
Cass. n. 8757 del 2014; Cass. n. 19141 del
2015).

Negli arresti in- discorso non si è poi
disconosciuta la legittimità di cessioni di rami aziendali
“dematerializzati” o “leggeri” dell’impresa, nei quali il
fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, in conformità con
principi, anche comunitari (Corte di Giustizia 11 marzo 1997, C-13/95, punto
18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C- 127/96, C-229/96, C-74/97,
Hemandez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia,
20 gennaio 2011, C-463/09, CLECE, punto 36), che si sono affermati
essenzialmente nel campo della successione negli appalti laddove sono i
lavoratori ad invocare l’applicazione dell’art.
2112 c.c. per transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi
oggetto del trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di
dipendenti specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, senza
elementi materiali significativi (in precedenza, tra molte, v. Cass. n. 17207
del 2002; Cass. n. 206 del 2004; Cass. n. 20422
del 2012; Cass. n. 5678 del 2013; Cass. n.
21917 del 2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il compito
del giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti
sia dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità
tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso
servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che si
traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere
dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura
cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul mercato
ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il
quale è organizzato” (in termini Cass. n.
11247/2016 cit.; di recente anche Corte di Giustizia, 13 giugno 2019,
C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69, ha sottolineato come l’autonomia
del ramo ceduto, dopo il trasferimento, non debba dipendere da scelte
economiche effettuate “unilateralmente” da terzi, senza che vi siano
garanzie sufficienti che le assicurino l’accesso ai fattori di produzione).

6.2. Nel complesso di pronunce assunte in decisione
nel febbraio del 2016, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia
funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con
il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto
deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni
di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso
risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla
cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi sull’organizzazione
assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie
alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma
all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso
produttivo costituita dal ramo ceduto”.

A conforto si richiama anche la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi”
nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia
dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12,
Amatori ed a., punto 34).

Anche dopo le modifiche introdotte dall’art. 32 del d. Igs. n. 276 del 2003,
con l’insieme delle decisioni citate si conferma, dunque, la necessità della
preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell’alveo
dell’art. 2112 c.c.; principio già presente
nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017
del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo che la
conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria (da
ultimo v. Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia
AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già
esista – e costantemente ribadito sino ai giorni nostri con innumerevoli
sentenze (tra le più recenti v. Cass. n. 30667 del 2019; Cass. n. 6649 del 2020; Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del
2020), tanto da assurgere oramai a principio consolidato del diritto vivente,
dal quale, per evidenti ragioni dettate anche dall’esigenza di non recare
vulnus all’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, non si ravvisa ragione
per discostarsi.

6.3. Infine occorre rammentare che è proprio la
Corte di Giustizia dell’Unione europea a ribadire costantemente che, per
determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l’applicabilità della
direttiva in materia di trasferimento d’impresa, occorre “prendere in
considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano
l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo
d’impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi
materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi
materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior
parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno
della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e
dopo la cessione e la diírata di un’eventuale sospensione di tali
attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti
parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono,
perciò, essere valutati isolatamente” (v. Corte
di Giustizia, 9 settembre 2015, C-160/14, Joào Filipe Ferreira da Silva e
Brito e a., punto 26; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers,
punto 13; Corte di Giustizia, 19 maggio 2002, C-29/91, Redmond Stichting, punto
24; Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Súzen, punto 14; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/01,
Abler e a., punto 33); si è altresì evidenziato che “l’importanza da
attribuire rispettivamente ai singoli criteri varia necessariamente in funzione
dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o
di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di
stabilimento di cui trattasi” (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997,
C-13/95, Siizen, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96,
C-229/96 e C-74/97, Hernéndez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 10
dicembre 1998, C-173/96 e C-247/96, Hidalgo e a., punto 31).

E’ quanto in questa sede intende ribadirsi avuto
riguardo al presente giudizio di legittimità ed ai suoi limiti alla luce del
mai superato insegnamento (Cass. SS.UU. n. 379 del 1999) secondo cui,
allorquando ai fini di una certa qualificazione giuridica di un rapporto
controverso occorre avvalersi di una serie di elementi fattuali sintomatici ai
quali i giudici del merito hanno affidato la propria valutazione, ciò che deve
negarsi è soltanto l’autonoma idoneità di ciascuno di questi elementi,
considerato singolarmente, a fondare la riconduzione ad una certa
qualificazione, non anche la possibilità che, in una valutazione globale dei
medesimi, essi vengano assunti, come concordanti, gravi e precisi indici
rivelatori di ciò che si intende dimostrare.

Sicché, quando gli elementi fattuali da valutare
sono, in via sintomatica ed indiziaria, molteplici al fine di verificare l’autonomia
funzionale del ramo d’azienda ceduto, trattandosi di una decisione che è il
frutto di selezione e valutazione di una pluralità di circostanze, che – per
dirla con la Corte di Giustizia – “sono soltanto aspetti parziali di una
valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere
valutati isolatamente”, chi ricorre, per ottenere la cassazione della
sentenza impugnata, non può invocare una diversa combinazione di tali elementi
oppure un diverso apprezzamento rispetto a ciascuno di essi, sollecitando
questa Corte ad un controllo estraneo al sindacato di legittimità (sui limiti
di tale sindacato in materia di ragionamento presuntivo, per tutte, v. Cass. n.
29781 del 2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Non sfugge al Collegio l’eventualità che
l’arrestarsi sulla soglia del giudizio di merito possa consentire che analoghe
vicende fattuali vengano diversamente valutate dai giudicanti cui compete il
relativo giudizio. Tuttavia è noto che l’oggetto del sindacato di questa Corte
non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al quale le parti
litigano, bénsì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha
deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti limiti delle
critiche vincolate dall’art. 360 c.p.c., così
come prospettate dalla parte ricorrente: ne deriva che contigue vicende possono
dare luogo a diversi esiti processuali, ma si tratta di esiti non altrimenti
evitabili, determinati dalla peculiare natura del controllo di legittimità (ad
ex., proprio in tema di trasferimento d’azienda, v. Cass. n. 10868, n. 10925 e
n. 22688 del 2014, in motivazione), ancor più da quando il legislatore ha
inequivocabilmente orientato il giudizio di cassazione nel senso della preminenza
della funzione nomofilattica, anche riducendo progressivamente gli spazi di
ingerenza sulla ricostruzione dei fatti e sul loro apprezzamento (in tali sensi
v., da ultimo, Cass. n. 7364 del 2021).

7. Conclusivamente, alla stregua di tutte le
osservazioni esposte, entrambi i ricorsi vanno respinti.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da
dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi delle società e condanna ciascuna
di esse al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della
controricorrente liquidate in euro 10.000,00 per compensi professionali, oltre
euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti società,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove
dovuto, per i ricorsi proposti, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13″.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2021, n. 15129
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