Il tempo per recarsi sul luogo di svolgimento delle proprie mansioni rientra nell’orario di lavoro e va retribuito solo se costituisce modalità di esecuzione della prestazione.

Nota a Cass. 29 aprile 2021, n. 11338

Sonia Gioia

Il tempo impiegato dal dipendente per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria, e in quanto tale retribuibile, solo quando “lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione”, ossia quando il lavoratore, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia di volta in volta destinato in diverse località per espletare le proprie mansioni.

Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione 29 aprile 2021, n. 11338, in linea con la pronuncia di merito (App. Napoli n. 183/2016) che aveva rigettato la domanda di alcuni lavoratori, impiegati presso una società di trasporti con mansioni di autista, volta ad ottenere l’accertamento del diritto ad essere retribuiti per il tempo necessario a spostarsi dal deposito al posto di cambio o, viceversa, per prendere servizio o tornare a servizio eseguito.

In merito, il tempo impiegato dal dipendente per recarsi sul posto di impiego è computabile come lavoro effettivo e va remunerato ove sia funzionalmente correlato alla prestazione, ossia rappresenti una mera esecuzione degli ordini datoriali e dell’assetto organizzativo aziendale, afferente le modalità operative e logistiche dell’attività, come nel caso in cui il lavoratore sia inviato, di volta in volta, in varie località per svolgere le proprie mansioni (c.d. tempo viaggio comandato).

Diversamente, il tempo di viaggio non va retribuito quando “al termine della prestazione lavorativa, vi è recupero immediato del tempo libero cui il lavoratore ha diritto” e sul quale il datore di lavoro non esercita il potere organizzativo né un potere di ingerenza o conformazione, che potrebbe realizzarsi mediante prescrizioni variamente connesse ad esigenze dell’impresa e da esse in qualche modo giustificate.

Con particolare riguardo al personale addetto ai pubblici servizi di trasporto in concessione,  va considerato come lavoro effettivo, e quindi remunerato, non solo il tempo impiegato in servizio e quello occorrente all’espletamento di prestazioni accessorie, ma anche la metà del tempo necessario “per recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad un’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”, ex art. 17, R.D.L. 19 ottobre 1923, n. 2328 (concernente “Disposizioni per la formazione degli orari e dei turni di servizio del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto in concessione”).

Il computo del tempo dei viaggi, regolarmente comandati, presuppone, cioè, che non vi sia coincidenza tra il luogo di inizio e quello di cessazione del lavoro giornaliero e che tale circostanza sia determinata non da una scelta del prestatore ma, in via esclusiva, da una necessità logistica aziendale. In tal caso, il lavoratore ha diritto ad essere retribuito, nella misura della metà della remunerazione normale, purché dia prova dello svolgimento di un viaggio in ottemperanza alle direttive datoriali, allegando, in giudizio, il tipo di turno praticato, gli spostamenti effettuati, la non coincidenza dei luoghi di inizio e termine della prestazione e di ogni altro elemento utile (Cass. n. 9064/2014; Cass. n. 9063/2014; Cass. n. 9062/2014; Cass. n. 2658/2011).

In attuazione di tali principi, la Cassazione ha ritenuto immune da errori la pronuncia di merito che aveva escluso lo svolgimento di viaggi comandati dal momento che i lavoratori potevano recarsi direttamente presso il posto di cambio quando iniziavano a lavorare in linea, senza essere obbligati a presentarsi preventivamente al deposito di appartenenza o potevano fare ritorno direttamente a casa, quando terminavano il turno presso un posto di cambio.

Viaggi comandati e retribuzione
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