Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 settembre 2021, n. 24260

Tributi, IRPEF, Onorario per l’attività di amministratore
giudiziario, Tassazione, Redditi assimilati al lavoro dipendente

 

Fatti di causa

 

1. Con decreto n. 227/02 del 13 gennaio 2003 la
Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione Misure di Prevenzione, liquidò in
favore di P.G., avvocato, ed a carico dell’Erario, la somma di euro 407.051,56,
al lordo di euro 63.446,73 già liquidati a titolo di acconto, oltre C.P.A. ed
I.V.A. nella misura di legge, a titolo di compensi relativi all’attività di
amministratore giudiziario, e l’Ente debitore applicò le ritenute Irpef (45 per
cento), regionale e comunale. Con successivo decreto del 21 novembre 2003, il
Presidente della Corte di Appello, richiamando la circolare del Ministero della
Giustizia n. 7/02 del 14 novembre 2002, dispose che sull’onorario come
determinato nel decreto di liquidazione n. 227/02, per l’attività di
amministratore giudiziario svolta dall’avv. P.G., dovesse essere applicato il
regime fiscale previsto per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.

2. In data 22 dicembre 2003 il contribuente inoltrò
al Centro Servizi Imposte di Salerno una istanza di rimborso delle ritenute
d’acconto versate in eccedenza; in difetto di riscontro, impugnò il silenzio
dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria che, con
sentenza del 14 dicembre 2004, dichiarò inammissibile il ricorso, in quanto
l’istanza di rimborso era stata inoltrata al Centro servizi che era stato già
soppresso e non competente ad esaminarla; la sentenza venne confermata dalla
C.T.R. con sentenza n. 05/17/09 del 5 marzo 2009, passata in giudicato.

3. In data 4 aprile 2005 il contribuente notificò
identica istanza di rimborso all’Agenzia delle entrate, Ufficio di Reggio
Calabria, e propose successivamente autonoma impugnazione dinanzi alla C.T.P.
avverso il conseguente silenzio-rifiuto, deducendo che l’attività posta in
essere quale amministratore giudiziario rientrava nella propria attività professionale
e che il decreto del Presidente della Corte di Appello che modificava il regime
fiscale era inesistente perché incideva su un provvedimento giurisdizionale
definitivo, in violazione della circolare dell’Agenzia delle entrate n. 105 del
12 dicembre 2001, e non faceva corretta applicazione della circolare del
Ministero della Giustizia del 14 novembre 2002 che non si riferiva agli
amministratori giudiziari.

L’Ufficio finanziario, costituendosi in giudizio,
rilevò la correttezza dell’applicazione del regime fiscale di cui all’art. 47,
lett. f), del d.P.R. n. 917 del 1986, che assimilava ai redditi di lavoro
dipendente i compensi corrisposti per l’esercizio di pubbliche funzioni,
sottolineando altresì che la legge finanziaria del 2004 aveva novellato la
citata lett. f), inserendo espressamente una clausola di salvezza riferita alle
prestazioni rese da professionisti iscritti agli albi, in tal modo confermando
la correttezza dell’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria
rispetto al periodo precedente. Il contribuente evidenziò che, con sentenza n.
16080 del 14 luglio 2006, passata in cosa giudicata, il Tribunale di Roma aveva
rigettato l’opposizione alla esecuzione avverso il decreto di liquidazione n.
227/02 proposta dal Ministero della Giustizia, statuendo che al compenso
liquidato dovessero essere aggiunte I.V.A. e C.P.A., stante l’inesistenza del
decreto modificativo adottato dal Presidente della Corte di Appello in data 21
novembre 2003.

La C.T.P., in accoglimento dell’eccezione sollevata
dall’Ufficio, dichiarò l’inammissibilità del ricorso per violazione del
principio del ne bis in idem, sul presupposto che il giudizio conclusosi con la
sentenza 5/17/09 del 5 marzo 2009, ormai passata in giudicato, aveva trattato
le medesime questioni riproposte con il nuovo ricorso.

4. Proposto appello dal contribuente, la C.T.R.
della Calabria, in riforma della sentenza impugnata, dichiarò ammissibile il
ricorso e, decidendo nel merito, lo rigettò.

Accogliendo il primo motivo di appello, i giudici
regionali, rilevando che la sentenza del 5 marzo 2009, si era limitata ad
accertare l’inesistenza del silenzio-rifiuto impugnato, affermò che sulle
questioni dedotte dal contribuente nessun giudicato si era formato.

Nel merito, ritenuta non rilevante la sentenza del
Tribunale di Roma del 14 luglio 2006, che non affermava che il regime fiscale
del compenso dell’amministratore giudiziario dovesse essere quello del lavoro
autonomo, e considerato che il decreto del Presidente della Corte di Appello,
sebbene inesistente, faceva corretta applicazione della normativa tributaria,
osservò che la circolare del Ministero della Giustizia del 14 novembre 2002
individuava la ratio dell’art. 47, lett. f), del d.P.R. n. 917 del 1986
nell’esigenza di <<razionalizzare una serie di fattispecie i cui redditi
erano di incerta qualificazione>> ed elencava <<a titolo
esemplificativo>> una serie di figure rientranti nella previsione
normativa, tra le quali non era indicato l’amministratore giudiziario, ma erano
inseriti, tra gli altri, <<i consulenti, periti, custodi>>.
Aggiunse che nel testo della disposizione normativa all’epoca vigente non si
prevedevano eccezioni per l’ipotesi che le prestazioni fossero rese da un
soggetto iscritto in un albo professionale o rientrassero totalmente
nell’attività del professionista, essendo stata la lett. f) dell’art. 47
modificata dalla legge finanziaria del 2004 (legge n. 350 del 2003), non
applicabile al caso in esame. Evidenziò, altresì, che l’attività di
amministratore giudiziario costituiva esercizio di pubbliche funzioni cui
corrispondeva un compenso da parte dello Stato, rientrava nell’ambito
applicativo del citato art. 47, lett. f) del d.P.R. n. 917 del 1986 e poteva
essere svolta anche da soggetti non iscritti agli albi professionali, per cui
il legislatore aveva scelto di tassarla come reddito di lavoro dipendente, al
fine di evitare incertezze connesse alla difficoltà di inquadramento. Il fatto
che nel 2004 il legislatore avesse ravvisato la necessità di escludere
espressamente l’assimilazione nei confronti dei professionisti iscritti agli
albi, dimostrava come prima della novella tale esclusione non sussistesse e che
anche il compenso corrisposto al professionista per l’esercizio di una pubblica
funzione dovesse essere assoggettato al regime di lavoro dipendente.

5. Ricorre per la cassazione della decisione
d’appello P.G., con tre motivi. L’Agenzia delle entrate resiste mediante
controricorso e propone ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui resiste
il contribuente con controricorso al ricorso incidentale.

In prossimità dell’udienza pubblica il ricorrente ha
provveduto al deposito telematico di memoria ex art. 378 cod. proc. civ., in
difetto di istanza di discussione orale.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo del ricorso principale il
contribuente deduce la «violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex
art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento all’art. 2909
cod. civ. in rapporto agli artt. 12 prel. e 112 e 113 cod. proc. civ., per
omessa presentazione del giudicato formatosi sul decreto n. 227/02 R.I.V.
connessa all’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di
discussione tra le parti, ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con
riferimento sempre al medesimo decreto 227/02 R.I.V. ed alla sentenza CC.
2638/2002, presupposto giuridico, ex art. 384 cod. proc. civ., al decreto
227/02 R.I.V.>>.

Sostiene che il giudice d’appello, acclarata
l’inesistenza del provvedimento amministrativo correttivo ed interpretativo
della natura del compenso, avrebbe omesso di esaminare e rilevare che: a) la
Corte d’Appello con il decreto n. 227/02 aveva liquidato un importo <<per
compensi e spese generali forfettarie….oltre c.p.a. ed iva nella misura di
legge>>, con ciò escludendo la natura di reddito di lavoro dipendente
della prestazione; b) nel corpo della decisione passata in giudicato, la Corte
di appello, quale giudice di rinvio, aveva precisato che il ricorrente aveva
impugnato per cassazione un precedente decreto di liquidazione e che la Corte
di Cassazione aveva annullato il decreto fissando il principio di diritto
secondo cui <<nel caso in cui sia stato nominato amministratore un
professionista iscritto agli albi degli avvocati, il giudice, nel liquidare i
compensi, deve tenere conto della tariffa professionale relativa…>>,
precisando altresì che <<…deve ritenersi che il ricorso alle tariffe
locali sia riservato alle sole ipotesi in cui sia nominato amministratore
persona che non esercita attività professionale. c) esclusa dal giudice di
legittimità l’opponibilità delle tariffe risultanti dalla circolare interna
adottata dal Tribunale di Reggio Calabria nella materia delle custodie ed
amministrazioni di beni sottoposti a sequestro, doveva necessariamente essere
applicata al caso di specie la tariffa professionale di avvocato, essendo
pacifico che egli svolgesse l’attività professionale. Il che avrebbe dovuto
condurre a non applicare l’art. 47, lett. f), del d.P.R. n. 917 del 1986, con
riferimento alla natura del compenso liquidato, in conformità alle disposizioni
regolamentari tributarie espresse nella Circolare del 12 dicembre 2001, n. 105
dell’Agenzia delle entrate.

2. Con il secondo motivo si censura la decisione
impugnata per <<ulteriore violazione e falsa applicazione di norme di
diritto, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., ed omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con riferimento agli
artt. 4 e 12 preleggi, nonché artt. 112 e 113 cod. proc. civ., in rapporto
all’art. 156 cod. proc. civ. ed all’art. 2909 cod. civ.; ancora con riferimento
al giudicato scaturente dal decreto 227/02 R.I.V. alla sent. CC 2638/2002,
presupposto giuridico, ex art. 384 cod. proc. civ., al medesimo decreto 227/02
R.I.V. ed al giudicato scaturente dalla sentenza n. 16080/2006, Tribunale di
Roma; ed ancora con riferimento agli artt. 47 e 49 d.P.R. 22/12/1986, n. 917/A
(testo ante riforma 2004), 17 e 18 legge 20/09/1980, n. 576, all’epoca vigente;
5 e 6 d.P.R. n. 633 del 1972>>.

Ribadisce che i giudici di appello hanno omesso di
esaminare gli effetti derivanti dal giudicato del decreto 227/02 della Corte di
Appello di Reggio Calabria sia del correlativo giudicato della sentenza n.
16080/2006 del Tribunale di Roma che, respingendo l’opposizione erariale, aveva
ritenuto dovuto il pagamento di I.V.A. e C.P.A. sul compenso liquidato; il
riconoscimento degli accessori fiscali di legge, relativi alle liquidazioni di
compensi per professionisti e lavoratori autonomi, iscritti all’albo degli
avvocati, escludeva, in maniera categorica, seppure implicita, il carattere di
reddito di lavoro dipendente del correlativo compenso.

3. Con il terzo motivo si denuncia «violazione e
falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.
proc. civ., con riferimento agli artt. 47, lett. f), e 49 del d.P.R.
22/12/1986, n. 917 (testo ante riforma), 17 e 18 legge 20/9/1980, n. 576, come
modificati ed integrati, rispettivamente, dagli artt. 9 e 10 legge 11/2/1992,
n. 141 e 5 e 6 d.P.R. 26/10/1972, n. 633, nella formulazione all’epoca vigente,
oltreché con riferimento all’art. 12 preleggi, riferito all’art. 50, lett. f),
d.P.R. n. 917 del 1986 (testo ante riforma 2004), in considerazione dell’omesso
esame della Circolare 12/12/2001, n. 105 dell’Agenzia delle entrate- Direzione
generale>>.

Rileva che la Circolare 14/11/2002, richiamata dalla
C.T.R., nulla dispone con riferimento ai compensi degli amministratori
giudiziali, iscritti agli albi professionali e titolari di partita I.V.A.,
limitando le direttive fiscali a quelle categorie di contribuenti,
collaboratori della Giustizia, non iscritti all’albo e non titolari di partita
I.V.A.; inoltre, detta categoria di contribuenti, anche agli effetti del
novellato art. 50, era richiamata nella circolare 12/12/2001, non esaminata dai
giudici d’appello. La circostanza che sul compenso liquidato con il decreto n.
227/02 fosse stato liquidato il corrispettivo dell’I.V.A. era sufficiente da
sola ad escludere l’applicabilità dell’art. 47, lett. f), d.P.R. n. 917 del
1986, avendo la circolare n. 7 del 14 novembre 2002 precisato che al compenso
tassabile ex art. 47, lett. f), non è applicabile l’I.V.A.

Ad avviso del ricorrente, la circolare del 14
novembre 2002 esclude l’applicabilità dell’art. 47, lett. f), ai compensi
soggetti ad I.V.A, mentre la circolare del 12 dicembre 2001 regolamenta le
posizioni fiscali degli amministratori di società ed enti, non ricadenti nella
tipologia descritta nell’art. 47 citato, iscritti agli albi professionali;
l’art. 50 della novella, diversamente da quanto ritenuto dal giudice d’appello,
non ha introdotto una nuova fattispecie giuridica, ma ha legalizzato una
fattispecie in precedenza solo individuata dalla prassi regolamentare per dare
efficacia erga omnes alla stessa. Di conseguenza, aggiunge il ricorrente, il
caso di specie è disciplinato dall’art. 49 del d.P.R. n. 917 del 1986, anche in
applicazione degli artt. 17 e 18 della legge 20 settembre 198, n. 576, come
modificati ed integrati, rispettivamente dagli artt. 9 e 10 della legge 11
febbraio 1992, n. 141 e dagli artt. 5 e 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale la
difesa erariale, denunciando la violazione e falsa applicazione del d.lgs. n.
300 del 1999 e dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’alt.
360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., sostiene che, risalendo il decreto di
liquidazione dei compensi spettanti al contribuente al 2003, impropriamente è
stato evocato in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze, stante il
suo difetto di legittimazione. Analogamente la Corte di Appello di Reggio
Calabria – Ufficio contabile – o il Ministero della Giustizia, risultano privi
di <<competenze>> in materia fiscale.

5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si
censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art.
2909 cod. civ. e dell’alt. 324 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360,
primo comma, n. 3 o n. 4, cod. proc. civ.

Considerato che il contribuente, in precedenza,
aveva presentato altro ricorso avverso il silenzio-rifiuto sulla istanza di
rimborso inoltrata al Centro Servizi di Salerno, definito con sentenza
sfavorevole al contribuente, ormai definitiva, il giudicato derivante da tale
pronuncia rendeva inammissibile il secondo ricorso avverso il silenzio- rifiuto
opposto alla successiva istanza di rimborso inviata all’Agenzia delle entrate.

6. Preliminarmente, in accoglimento del primo motivo
del ricorso incidentale, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso in
riferimento al Ministero dell’Economia e delle Finanze posto che, come questa
Corte ha in più occasioni precisato, nei «rapporti giuridici»>,
<<poteri>> e <<competenze>> in materia tributaria, al
Ministero sono succedute ex lege (decreto legislativo n. 300 del 1999, art. 57,
comma 1, con decorrenza dal 1 gennaio 2001 d.m. 28 dicembre 2000, ex art. 1) le
agenzie fiscali, enti dotati di autonoma e distinta soggettività impositiva,
nonché di legittimazione sostanziale e processuale (Cass. sez. 5, 26/02/2019,
n. 5556; Cass., sez. 5, 28/01/2015, n. 1550; Cass., sez. 5, 12/11/2010, n.
22992; Cass., sez. 5, 12/03/2008, n. 6591).

7. Il secondo motivo del ricorso incidentale, che va
esaminato con priorità, è infondato.

7.1. Risulta pacifico, nella ricostruzione in fatto
della vicenda processuale, che il contribuente ha inoltrato una prima istanza
di rimborso al Centro Servizi delle imposte di Salerno, a quell’epoca già
soppresso ad opera dell’art. 73 del d.lgs. n. 300 del 1999, e che II
contenzioso tributarlo avviato è stato definito con la declaratoria di
inammissibilità del ricorso per inesistenza del provvedimento di
silenzio-rifiuto.

L’odierna controversia scaturisce, invece, dal
silenzio-rifiuto formatosi a seguito della istanza di rimborso rivolta
all’Agenzia delle entrate Ufficio di Reggio Calabria, legittimata a riceverlo.

7.2. Sebbene i ricorsi proposti ed i conseguenti
giudizi si siano svolti dinanzi al giudice tributario e si caratterizzino per
l’identità dell’oggetto, questo Collegio non può che escludere che la
declaratoria in rito resa con riferimento al primo ricorso rivolto a soggetto
già soppresso e, quindi, inesistente, sia idonea alla formazione di giudicato e
precluda, pertanto, la riproposizione della istanza di rimborso.

Come è stato precisato da questa Corte (Cass., sez.
5, 11/05/2012, n. 7303), in assenza di un esplicito provvedimento di diniego
del rimborso, il contribuente, che intenda ottenere il rimborso di somme che
assume indebitamente versate a titolo d’imposta, può proporre ricorso avverso
il c.d. silenzio-rifiuto dell’Amministrazione, che si forma decorso il termine
di novanta giorni dalla presentazione della domanda di restituzione in sede
amministrativa, previsto dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.

La mancata formazione del silenzio-rifiuto comporta
l’inammissibilità del ricorso per difetto del presupposto processuale del
giudizio tributario; una volta formatosi il silenzio, il ricorso, secondo
l’espressa previsione dell’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, è
sempre proponibile <<fino a quando il diritto alla restituzione non è
prescritto>>.

7.3. Peraltro, nell’ipotesi in cui una sentenza
passata in giudicato abbia definito il giudizio su di un presupposto
processuale e non sia entrata nel merito della causa, la statuizione sulla
questione di rito, dando luogo ad un giudicato formale e non sostanziale, ha
effetto limitato al rapporto processuale nel quale è emanata e non è Idonea a
produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale, sicché non preclude la
riproposizione della domanda in altro giudizio (Cass., sez. 5, 11/05/2012, n.
7303).

In senso conforme si è espressa anche di recente
questa Corte (Cass., sez. 5, 4/09/2020, n. 18382), puntualizzando che i
principi sopra esposti trovano giustificazione nella natura della lite
tributaria di rimborso che, al di là del meccanismo di formazione del
silenzio-rifiuto e della relativa impugnazione, è propriamente quella di
giudizio di accertamento negativo della non debenza di quanto versato, in cui
il contribuente riveste la natura di attore in senso sostanziale.

7.4. Alla stregua delle considerazioni che
precedono, mancando nel primo giudizio il presupposto del provvedimento
impugnabile, deve, dunque, escludersi che la riproposizione della domanda di
rimborso e la conseguente introduzione, entro i termini di cui all’art. 38 del
d.P.R. n. 600 del 1973, del giudizio di impugnazione del silenzio-rifiuto della
Agenzia delle entrate trovi un ostacolo nel principio del ne bis in idem.

8. Il primo motivo del ricorso principale è
infondato.

8.1. Il ricorrente, con la doglianza in esame,
contesta alla C.T.R. di non avere adeguatamente valutato che il decreto di
liquidazione n. 227/02 emesso dalla Corte di Appello di Reggio Calabria a
conclusione del procedimento in cui era parte la Procura Generale, anche
nell’interesse dell’Erario, era ormai divenuto definitivo, non essendo stato
annullato o modificato nei termini di legge, e che era passata in giudicato
anche la sentenza del Tribunale di Roma n. 16080/2006, resa all’esito del
giudizio di opposizione all’esecuzione, che, acclarando l’inesistenza del
provvedimento correttivo del 21 novembre 2003 apposto in calce al provvedimento
di liquidazione del compenso, aveva ritenuto dovute I.V.A. e C.P.A. e disposto
il pagamento delle somme dovute, e non liquidate.

8.2. Giova premettere che la liquidazione delle
spettanze agli ausiliari del magistrato viene effettuata con decreto di
pagamento, motivato, da parte del magistrato che procede e che tale decreto,
che viene comunicato alle parti, compreso il Pubblico Ministero, è titolo
provvisoriamente esecutivo che, nei rapporti tra l’ausiliario e le parti,
diviene definitivo in mancanza di opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del
2002.

Il decreto de quo ha sicuramente contenuto
decisorio, poiché incide su diritti soggettivi e statuisce sulla pretesa
dell’ausiliario al compenso, e costituisce titolo che può fondare, ai sensi
dell’art. 474 cod. proc. civ., l’azione esecutiva (ma non titolo per
l’iscrizione di ipoteca giudiziale ex art. 2818 cod. civ., data l’assenza di
una specifica previsione in tal senso), ben potendo l’ausiliario, sulla sua
base, intimare precetto di pagamento e, successivamente, pignorare i beni della
parte sulla quale è stato posto il carico delle spese.

In sostanza, si tratta di provvedimento
giurisdizionale, adottato inaudita altera parte, che può venire meno solo
tramite l’esperimento del mezzo di contestazione previsto dalla legge, ossia
attraverso l’opposizione. Ciò comporta che, nella evenienza che sia decorso il
termine entro il quale proporre l’opposizione ed il decreto non sia stato
caducato, la qualità di titolo esecutivo da provvisoria diviene definitiva.

8.3. Tuttavia, anche ritenendo che, in base al
disposto degli artt. 11 legge n. 319 del 1980 e 29 legge n. 794 del 1942, il
provvedimento di liquidazione, avendo carattere giudiziale e decisorio, sia
suscettibile di acquistare valore di giudicato in caso di mancata opposizione
nel termine di legge da parte di tutti coloro che possono averne interesse (in
questo senso, Cass., sez. 3, 30/12/2014, n. 27515; Cass., sez. 2, 28/03/2001,
n. 4537), non possono comunque trascurarsi i limiti soggettivi del giudicato
che non consentono di opporre quest’ultimo a soggetti diversi dalle parti del
procedimento nel quale detto decreto di liquidazione si inserisce.

8.4. Non è, quindi, ravvisabile, nel caso di specie,
la denunciata violazione dell’art. 2909 cod. civ., poiché la definitività del
decreto di liquidazione è opponibile esclusivamente alle parti che hanno o che
possono partecipare al procedimento liquidatorio ed alla eventuale fase di
opposizione che dovesse allo stesso seguire. Tra tali soggetti non è compresa
l’Amministrazione finanziaria, considerato che essa non è gravata dell’onere di
pagare il compenso dell’ausiliario del giudice.

Né può sostenersi che la necessaria partecipazione
del Pubblico Ministero al procedimento notificatorio sia prevista a tutela
degli interessi dell’Erario o che lo stesso rappresenti l’Ufficio finanziario.

Al riguardo va riscontrato significativamente che
gli artt. 82 e 168 del d.P.R. n. 115 del 2002 omettono di annoverare l’ufficio
finanziario tra i destinatari della comunicazione dei decreti di pagamento del
compenso agli ausiliari e che gli artt. 57 e 62 del d.lgs. n. 300 del 1999, nel
circoscrivere l’ambito di azione dell’Agenzia delle entrate allo svolgimento
dei servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione ed al contenzioso
dei tributi, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali, già di
competenza del Ministero delle Finanze, o affidati alla sua gestione, non
consente di riconoscere all’Agenzia delle entrate alcuna funzione in tema di
erogazione dei compensi dovuti agli ausiliari del giudice (Cass., sez. U,
29/5/2012, n. 8516).

8.5. Quanto, poi, ai limiti oggettivi del giudicato,
l’accertamento contenuto nel decreto di liquidazione riguarda l’esistenza del
diritto al compenso e la sua determinazione nel quantum, ma non si estende al
regime fiscale cui deve essere assoggettato il compenso riconosciuto
all’ausiliario.

Ciò comporta che la definitività del decreto di
liquidazione del compenso all’amministratore giudiziario n. 227/02 non può in
alcun modo vincolare l’Amministrazione finanziaria, nei cui confronti è stata
azionata una domanda di rimborso di somme versate a titolo di trattenute a
titolo d’imposta, ritenute indebitamente corrisposte.

9. Parimenti infondato è il secondo motivo del
ricorso principale.

La censura poggia sul giudicato derivante dalla
sentenza n. 16080/2006 emessa dal Giudice dell’opposizione alla esecuzione, ma
anche tale decisione non è opponibile all’Amministrazione finanziaria.

Come rilevato dai giudici di appello, nella
motivazione di tale sentenza il Tribunale di Roma ha ben evidenziato che non è
stata <<…sollevata alcuna questione di natura tributaria atteso che non
si contesta l’applicabilità dell’I.V.A. o dell’Irpef, ma solo che il
provvedimento azionato…sarebbe stato modificato e sarebbe venuto meno per
effetto di un successivo decreto emesso in via amministrativa dal Presidente
della Corte di Appello di Reggio Calabria>> e, in ogni caso, il
procedimento ha visto come parte opponente il Ministero della Giustizia e non
l’Amministrazione finanziaria, alla quale non sono pertanto estensibili gli
effetti della pronuncia.

10. Anche il terzo motivo del ricorso principale
deve essere rigettato.

10.1. La questione posta con la censura in esame
impone di soffermarsi sulla qualificazione, ai fini tributari, del compenso
erogato al contribuente per l’attività di custodia e di amministrazione
prestata, avendo la Commissione tributaria regionale, in conformità a quanto
sostenuto dall’Ufficio finanziario, ritenuto applicabile al caso in esame
l’art. 47, lett. f), del d.P.R. n. 917 del 1986, nella formulazione vigente prima
della modifica introdotta dall’art. 2, comma 36, della legge 24 dicembre 2003,
ri. 350 (legge finanziaria 2004), in contrasto con la tesi difensiva del
contribuente che sostiene, invece, che le prestazioni rese debbano essere
assimilate ai redditi di lavoro autonomo, perché espletate da soggetto
esercente la professione di avvocato.

10.2. Giova premettere, come precisato dalle Sezioni
Unite di questa Corte (Cass., sez. U, 3/05/2017, n. 1372:1), che le
disposizioni sui redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente hanno subito
nel tempo una evoluzione letterale.

L’originario testo dell’art. 47, comma IL, lett. f),
del t.u.i.r. stabiliva che «Sono assimilati a quello di lavoro dipendente […]
le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo
Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni per l’esercizio di pubbliche
funzioni, ad esclusione di quelli che per legge debbono essere riversati allo
Stato».

L’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), d.lgs. 2
settembre 1997, n. 314 ha integrato il testo originario nel senso che «Sono
assimilati a quello di lavoro CV dipendente […] le indennità, i gettoni di
presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni, dalle
province e dai comuni per l’esercizio di pubbliche funzioni “nonché i
compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie, ai giudici di pace
e agli esperti del Tribunale di sorveglianza”, ad esclusione di quelli che
per legge debbono essere riversati allo Stato».

L’art. 2, comma 36, della legge finanziaria 2004 (24
dicembre 2003, n. 350) ha ulteriormente novellato il testo inserito nel nuovo
art. 50 t.u.i.r. nel senso che: «Sono assimilati a quello di lavoro dipendente
[…] le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti
dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni per l’esercizio di
pubbliche funzioni, “sempreché le prestazioni non siano rese da soggetti
che esercitano un’arte o professione di cui all’articolo 49, comma 1, e non
siano state effettuate nell’esercizio di impresa commerciale,” nonché i
compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie, ai giudici di pace
e agli esperti del tribunale di sorveglianza, ad esclusione di quelli che per
legge devono essere riversati allo Stato». Il richiamo all’art. 49 deve intendersi
riferito al nuovo art. 53 t.u.i.r, come disposto dall’art. 2, comma 3, d.lgs.
12 dicembre 2003, n. 344.

10.3. Come rilevato dal giudice a quo, il reddito
percepito dall’odierno ricorrente, in qualità di amministratore giudiziario,
deve farsi rientrare tra quelli assimilati al lavoro dipendente di cui all’art.
47, lett. f), del d.P.R. n. 917 del 1986, nella formulazione vigente all’epoca
del pagamento, essendosi in presenza di compenso corrisposto per attività che
costituisce esercizio di una pubblica funzione.

La disciplina contenuta nell’art. 47 del t.u.i.r.
(ora rinumerato art. 50, in virtù dell’art. 1 del d.lgs. 12 dicembre 2003, n.
344), applicabile ratione temporis, prevede che i compensi corrisposti per
l’esercizio di pubbliche funzioni sono attratti nell’ambito dei redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente al coesistere dei seguenti
presupposti, ossia che i compensi siano corrisposti dalle Amministrazioni dello
Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni e che gli stessi siano erogati
per l’esercizio di pubbliche funzioni (in tal senso si esprime anche la
risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 66/E del 17 marzo 2003).

Ebbene, l’attività svolta dall’amministratore
giudiziario nell’ambito di un procedimento penale deriva da un incarico di
natura pubblicistica, in quanto egli svolge, su specifica autorizzazione del
giudice, una qualificata funzione di collaborazione alla realizzazione della
procedura giudiziaria (Sez. 6, n. 33724 del 21/06/2010, Cangemi, Rv. 248159),
come chiaramente emerge dalle disposizioni di legge in materia di applicazione
di misure di prevenzione (legge n. 574 del 1965 e Testo Unico in materia di
misure di prevenzione – d.lgs. n. 159 del 2011), cosicché le prestazioni dallo
stesso espletate non possono farsi rientrare tra quelle tipiche della
professione forense, i cui proventi sono inquadrabili tra i redditi di lavoro
autonomo di cui all’art. 49 del t.u.i.r.

10.4. La riconducibilità del compenso riconosciuto
all’amministratore giudiziario ai redditi assimilati a quelli di lavoro
dipendente già trova, d’altro canto, riscontro nel parere formulato
dall’Agenzia delle entrate in data 7 marzo 2001, n. 2001/36443, con il quale si
è precisato che, nell’ambito della riforma dei redditi di lavoro dipendente e
di quelli assimilati, si era inteso razionalizzare una serie di fattispecie i
cui redditi erano di incerta qualificazione, con la conseguenza che i redditi
corrisposti nell’esercizio di pubbliche funzioni dovevano essere considerati
«redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente>>, anche se la loro
natura avrebbe portato a farli rientrare tra i redditi di lavoro autonomo
(compensi corrisposti ai consulenti, periti, custodi, interpreti e traduttori
nominati dal pubblico ministero e dal giudice nei procedimenti penali); nonché
ulteriore conferma nella successiva circolare n. 7 del 14 novembre 2002 del
Ministero della Giustizia, che, recependo l’interpretazione dell’Agenzia delle
entrate e affrontando problemi connessi al Testo Unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, ha affermato che
<<i redditi corrisposti nell’esercizio di pubbliche funzioni>>
(art. 47, lett. f), del t.u.i.r.) devono essere considerati «redditi assimilati
a quelli di lavoro dipendente»», anche se la loro natura li farebbe rientrare
fra i redditi di lavoro autonomo, specificando che «a titolo esemplificativo»»
tra i soggetti che percepiscono redditi da assimilare a quelli di lavoro
dipendente sono compresi <<i giudici di pace, i giudici onorari aggregati,
gli esperti per il tribunale di sorveglianza, gli esperti per il tribunale dei
minorenni, i giudici onorari di tribunale, i vice procuratori onorari, i
giudici popolari, i consulenti, periti, custodi, interpreti e traduttori
nominati dal pubblico ministero o dal giudice nei procedimenti penali».

Su tali redditi, secondo tale ultima circolare, deve
essere operata la ritenuta Irpef per scaglioni di reddito in base alle somme
liquidate, senza applicazione dell’I.V.A.

10.5. Anche se la circolare n. 7 del 2002 non
menziona espressamente l’amministratore giudiziario, la legittimità della
sottoposizione del compenso dell’amministratore giudiziario al trattamento
fiscale previsto per i redditi di lavoro dipendente trova ulteriore conferma
nella modifica del citato art. 47, comma 1, lett. f), del t.u.i.r., apportata
dall’art. 2, comma 36, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con decorrenza dal
1 gennaio 2004, che dispone che sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente
«le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo
Stato, dalle regioni, dalle Province e dai Comuni per l’esercizio di pubbliche
funzioni sempreché le prestazioni non siano rese da soggetti che esercitano
un’arte o professione di cui all’articolo 49, comma 1, e non siano state
effettuate nell’esercizio di impresa commerciale».

Per effetto di tale modifica, diversamente da quanto
in precedenza previsto, è stato introdotto un diverso regime fiscale del
compenso percepito che tiene conto della qualificazione soggettiva del percipiente
e con la risoluzione del 10 maggio 2004, n. 68/IE, l’Agenzia delle entrate ha
puntualizzato che i compensi percepiti in relazione all’esercizio di pubbliche
funzioni sono qualificati come redditi assimilati a quelli di lavoro
dipendente, ma gli stessi compensi vengono attratti nel reddito di lavoro
autonomo per coloro i quali esercitano un’arte o una professione.

Il corretto trattamento tributario dei compensi
percepiti per pubbliche funzioni dai soggetti non espressamente indicati
dall’articolo 50, comma 1, lett. f), viene, dunque, determinato in riferimento
all’esercizio o meno da parte dei medesimi di un’arte o professione di cui
all’art. 53, comma 1, del t.u.i.r.

Non potendosi evincere dal tenore della modifica il
carattere interpretativo e, quindi retroattivo, della stessa, deve escludersi
che la nuova disciplina possa trovare applicazione nella fattispecie in esame
in cui l’attività di amministratore giudiziario è stata pacificamente
retribuita nell’anno 2003 e che l’attività di amministratore giudiziario svolta
dal ricorrente possa essere assimilata a quella di libero professionista ed
essere assoggettata al regime fiscale previsto dall’art. 49, comma 1, del
t.u.i.r.

11. Il rigetto del ricorso principale consente di
dichiarare assorbito il primo motivo del ricorso incidentale con riguardo al
Ministero della Giustizia.

12. In conclusione, va dichiarata l’inammissibilità
del ricorso proposto dal contribuente nei confronti del Ministero delle
Finanze; vanno rigettati il secondo motivo del ricorso incidentale ed il
ricorso principale, con conseguente assorbimento del primo motivo del ricorso
incidentale con riguardo al Ministero della Giustizia.

In applicazione del principio della soccombenza, le
spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, vanno poste a
carico del ricorrente principale.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei
confronti del Ministero delle Finanze; rigetta il secondo motivo del ricorso
incidentale; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il primo motivo
del ricorso incidentale in riferimento al Ministero della Giustizia.

Condanna il ricorrente principale al pagamento in
favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità che
liquida in euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma
del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 settembre 2021, n. 24260
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