L’abitudine al fumo del lavoratore non esclude l’origine professionale del tumore polmonare per esposizione all’amianto.

Nota a Cass. ord. 21 luglio 2023, n. 21950

Francesco Belmonte

In materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali trova applicazione il principio di equivalenza delle cause, di cui all’art. 41 c.p., secondo in quale deve riconoscersi efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni.

In tale linea si è pronunciata la Cassazione (ord. 21 luglio 2023, n. 21950), in relazione alla domanda di risarcimento danni proposta dagli eredi di un lavoratore deceduto, motivata dall’assunto che la morte era conseguita ad una malattia polmonare derivata dall’esposizione alle fibre di amianto in azienda.

La Corte d’Appello di Roma (14 marzo 2019, n. 823) ha escluso il nesso causale tra l’attività lavorativa ed il decesso del lavoratore sulla base delle seguenti argomentazioni:

  • la manifestazione della malattia era avvenuta solo dopo quattro anni dall’inizio dell’attività lavorativa presso l’azienda, in cui era impiegato prima del decesso;
  • nei precedenti rapporti di lavoro, in altre officine meccaniche, il dipendente era stato in contatto con fibre di amianto per circa 15-20 anni;
  • la durata dell’esposizione nell’ultimo rapporto di lavoro era stata breve ed occasionale, in quanto il dipendente, nelle varie fasi di lavorazioni, entrava in contatto con amianto aerodisperso;
  • il lavoratore fumava 30 sigarette al giorno dall’età di 15 anni.

La Cassazione, invece, accoglie il ricorso degli eredi, ponendosi in linea con il consolidato orientamento secondo cui il nesso causale tra l’esposizione a sostanze nocive e l’evento infausto “può ritenersi dimostrato allorché, applicando leggi scientifiche universali o statistiche ovvero il metodo di giudizio controfattuale, pur non risultando in concreto possibile determinare con esattezza il momento di insorgenza della patologia, si raggiunga comunque la prova che la condotta doverosa omessa avrebbe potuto incidere anche soltanto sul tempo di latenza o sul decorso della malattia” (Cass. pen., nn. 24997/2012, 33311/2012 e 38991/2012).

Ciò comporta, in riferimento alla fattispecie in controversia, che, ferma l’eventuale esposizione a sostanze nocive in precedenti rapporti di lavoro, l’attività svolta dal lavoratore presso l’ultimo datore di lavoro può assumere il ruolo di concausa qualora sia raggiunta la prova dell’apporto causale fornito dalla protratta esposizione, sia pure non intensa, quantomeno in termini di accelerazione del decorso della malattia.

I giudici di legittimità ribadiscono, inoltre, che: «nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia non può esser oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi» (Cass. pen. nn. 12175/2016, 37762/2013; Cass. lav. nn. 13814/2017 e 9057/2004).

Da ciò ne discende che, “la malattia professionale possa essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato escluso che abbia avuto un ruolo eziologico il fattore alternativo. Il che va accertato – ovviamente – tenendo presente che la natura causale di un determinato antecedente non è esclusa dalla esistenza di una concausa (art. 41 cod. pen.). È pertanto opportuno distinguere […] tra fattori interferenti che spiegano un’efficienza sinergica, in corrispondenza dell’insorgenza della malattia e/o della sua ingravescenza, da quelli in grado di operare in assoluta autonomia, per i quali sembra appropriato parlare di fattori alternativi (Cass. pen. nn. 16715/2017 e 37762/2013).

La Corte territoriale non si è attenuta ai principi di diritto richiamati, in quanto ha escluso qualsiasi apporto causale, nella determinazione della malattia tumorale, dell’ultima attività lavorativa svolta dal dipendente, sul rilievo che essa: “non (era) in grado di determinare da sola la produzione dell’evento lesivo, non avendo la forza di superare, in termini di efficienza causale, fattori estranei alla causa di servizio quali la prolungata massiccia dedizione al fumo e lo svolgimento di una precedente attività lavorativa a rischio per un considerevole arco temporale (15-20 anni)”.

Per la Cassazione, i giudici di merito assegnano al tabagismo il ruolo di fattore causale autonomo, idoneo da solo a produrre la patologia tumorale, “non sulla base di un accertamento concreto e agganciato a dati scientifici (probabilità qualificata) bensì sul rilievo, meramente presuntivo, di inidoneità dell’esposizione lavorativa […], in quanto “non intensa” a causare “da sola” l’evento lesivo, così invertendo i termini logici del problema e pretermettendo, del tutto, il criterio di equipollenza delle cause e la considerazione degli effetti sinergici dei fattori concorrenti (Cass. nn. 25968/2022 e 30526/2021).

Sentenza 

Tabagismo e malattia professionale
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