La revoca della licenza di porto d’armi priva la guardia giurata del titolo che la abilita al servizio e può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Francesca Albiniano

Il porto d’armi costituisce una specifica autorizzazione amministrativa che, nel caso della guardia particolare giurata (g.p.g.), deve essere necessariamente posseduta per poter esercitare la professione. La domanda, per ottenere tale licenza, deve essere presentata al Prefetto, che valuterà l’esistenza di una serie di requisiti, tra i quali l’assenza di condanne penali.

Il Prefetto concede alle guardie particolari giurate che prestano servizio armato il porto di pistola, tramite il rilascio di un libretto, avente durata di sei anni, e di una licenza, da rinnovare ogni due anni. Per ottenere la licenza sono necessari requisiti specifici, che si aggiungono alle regole di carattere generale sulle autorizzazioni di polizia contenute negli artt. 8 e 13 R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (TULPS).  La guardia giurata, infatti, deve essere persona affidabile, tant’è che, in sede di richiesta di rinnovo della licenza, eventuali precedenti autorizzazioni già rilasciate non comporteranno un affievolimento dell’attività di controllo sull’effettiva permanenza di dette condizioni (v. T.A.R. Sardegna, Sez. I, 26 marzo 2009, n. 356).

Nelle licenze di pubblica sicurezza, infatti, i requisiti attitudinali o di affidabilità devono essere desunti da condotte del soggetto interessato, anche diverse da quelle aventi rilievo penale e devono essere significative in rapporto al tipo di funzione o di attività da svolgere, “non essendo ammissibile che, da episodi estranei al soggetto, discendano conseguenze negative, diverse ed ulteriori, rispetto a quelle previste dalla legge e non suscettibili, secondo una valutazione ragionevole, di rilevare un’effettiva mancanza di requisiti o di qualità richieste per l’esercizio delle funzioni o delle attività di cui si tratta, traducendosi così in una sorta di indebita sanzione extralegale” (così, T.A.R. Veneto, Sez. III, 14 aprile 2006, n. 1017).

Il diniego, ovvero la revoca del porto d’armi, infatti, non costituiscono l’esercizio di un potere sanzionatorio bensì un’azione cautelativa della sicurezza pubblica in quanto diretto ad evitare il pericolo determinato dalla possibile disponibilità di armi in capo ad un soggetto che non ne faccia un uso corretto.

Ne consegue che sul titolare della licenza per il porto d’armi non devono sussistere indizi negativi e deve esserne assicurata l’affidabilità circa il buon uso, escludendo il pericolo di abusi. Pertanto, qualunque elemento di pericolo giustifica l’esercizio del potere di revoca da parte della Prefettura, quale Autorità di pubblica sicurezza (tra le tante,  v. T.A.R. Emilia Romagna 27 marzo 2015, n. 102; T.A.R. Puglia 18 dicembre 2013, n. 1702).

Nello specifico, ai fini dell’applicazione delle misure interdittive ex art. 39 del TULPS, non occorre che sia ricorso un oggettivo e accertato abuso delle armi, essendo sufficiente che il soggetto abbia dato prova di non essere del tutto affidabile (Cons. Stato, Sez. I, 15 gennaio 2015, n. 50; T.A.R. Abruzzo 10 aprile 2014, n. 324).

Per quanto delineato, appare evidente che la revoca della licenza di porto d’armi, disposta dal Prefetto, priverà la guardia giurata del titolo che la abilita al servizio.

La giurisprudenza prevalente ritiene che il ritiro del porto d’armi, determinante  l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, sia essa totale e definitiva, oppure, come più frequentemente accade, parziale e temporanea, non produce effetti automaticamente, ma può costituire un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, a norma dell’art. 3 della L.15 luglio 1966, n. 604, in quanto condizione indefettibile per lo svolgimento dell’attività lavorativa (in tal senso, v. Cass. SS.UU. 7 agosto 1998, n. 7755; Cass. 11 luglio 2001, n. 9407; Cass. 24 ottobre 2000, n. 13986; Cass. 7 settembre 1988, n. 5076; Cass. 15 luglio 1983, n. 4849).

In particolare, secondo un indirizzo della giurisprudenza, i casi di revoca del porto d’armi, adottati dall’autorità procedente, sono del tutto svincolati dalle esigenze imprenditoriali del datore di lavoro. La volontà del datore di lavoro resta, pertanto, avulsa dalla motivazione del provvedimento di revoca; tuttavia, la prestazione dovuta diventa impossibile, con la conseguente liberazione del debitore, ai sensi dell’art. 1463 c.c., quando interviene un caso di forza maggiore, nell’ambito del quale sia riconducibile il fatto del terzo (Cass. 6 giugno 1989, n. 2727; Cass. 2 dicembre 1985, n. 6032).

 

Revoca del porto d’armi alla guardia giurata: profili e conseguenze.
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