Il rispetto dei principi di continenza formale e sostanziale nella manifestazione del dissenso del lavoratore esclude la giusta causa di licenziamento.

Nota a Cass. 25 ottobre 2016, n. 21649 

Michela Santucci

La lettera con cui il lavoratore denuncia di aver subìto comportamenti scorretti e offensivi dal superiore gerarchico, se formulata con espressioni corrette e civili, costituisce esercizio del diritto di critica costituzionalmente garantito, non integrando, pertanto, giusta causa di licenziamento.

Lo ha stabilito la Cassazione (25 ottobre 2016, n. 21649) a proposito del dipendente che aveva manifestato per iscritto il proprio dissenso nei confronti del superiore gerarchico, corredando la missiva di un parere pro veritate di avvocato penalista.

Tale condotta era stata in un primo tempo posta a base della contestazione disciplinare, per poi culminare nel licenziamento del lavoratore.

Mentre il giudice di prime cure aveva accertato la legittimità del licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione, confermando il dictum di secondo grado, inquadra la fattispecie nell’ambito del diritto di critica all’esito di un ragionamento che tocca tre snodi fondamentali.

I primi due individuano i presupposti per il consentito esercizio del diritto di critica del lavoratore, il terzo riguarda la proporzionalità della massima sanzione irrogata alla stregua dell’art. 2106 c.c.

Quanto ai presupposti, la Cassazione ribadisce il necessario rispetto dei principi di continenza formale e sostanziale affinché la critica sia espressione di un diritto garantito dal combinato disposto degli artt. 21 Cost. e 1 dello Statuto dei lavoratori.

Ciò a tutela del contrapposto interesse dell’imprenditore, ugualmente tutelato dalla  Costituzione all’art. 41, ad evitare il danno connesso alle esternalizzazioni dei dipendenti.

Ne consegue che i fatti denunciati devono essere esposti in modo corretto e civile, evitando ogni diffusione esterna all’azienda (continenza formale) e devono corrispondere a verità (continenza sostanziale).

L’onere di dimostrare la non veridicità dei fatti denunciati dal dipendente e della sua preordinata volontà diffamatoria, integrando la prova della giusta causa di licenziamento, spetta al datore di lavoro ai sensi dell’art. 5, L. n. 604/1966.

Nel caso specifico, secondo la Cassazione, il prestatore si è “limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa” (in merito Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).

Il dipendente, quindi, “rinnovando in modo evidente il proprio impegno di collaborazione e fedeltà” ha sollecitato l’attivazione del potere gerarchico e organizzativo del datore di lavoro ex artt. 2086 e 2104 c.c., allo scopo di migliorare, semmai, la macchina imprenditoriale.

La Cassazione “blinda” la statuizione, giudicando non proporzionale la scelta, da parte del datore di lavoro, della massima sanzione espulsiva, alla stregua dell’art. 2106 c.c. a fronte di un comportamento concretamente inidoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

Sulla questione, v. M.N. BETTINI, Il diritto di critica del lavoratore nella giurisprudenza, in Diritto e libertà, Studi in memoria di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 141  e, in questo Blog, F. ALBINIANO, Criticare l’impresa oltre i “limiti” consentiti configura giusta causa di licenziamento (nota a Cass. 21 marzo 2016, n. 5523); ID., Contenuto e limiti del diritto di critica del lavoratore; C. AMBROSIO, I limiti al diritto di critica del lavoratore (nota ad App. Napoli 27 settembre 2016).

Contenuto e limiti del diritto di critica del lavoratore
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