Il dipendente che posta su facebook un commento offensivo sul datore di lavoro configura un reato di diffamazione, incrina il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro e può condurre al licenziamento.

Nota a Cass. 27 aprile 2018 n. 10280

Flavia Durval

Il licenziamento adottato dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente che su Facebook aveva usato frasi scurrili e lesive del buon nome dell’azienda è legittimo.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione (27 aprile 2018 n. 10280), la quale ha sottolineato che l’utilizzo del social network (anche se l’accesso alla bacheca risultava limitato) è uno strumento con una potenzialità illimitata e tale da diffondere le espressioni in questione, lesive in modo irreparabile del vincolo fiduciario che deve sussistere alla base del rapporto di lavoro.

I giudici non hanno accolto la difesa della lavoratrice, la quale, sottolineando le proprie precarie condizioni psichiche, aveva sostenuto che il provvedimento era sproporzionato in quanto la diffusione era limitata ai soli interlocutori ammessi al profilo e le espressioni veicolate sul social network dovevano considerarsi di uso corrente nel linguaggio dei social. In particolare, aveva affermato che le modalità espressive, usuali nel linguaggio sociale, rappresentavano “forme verbali critiche, dirette a manifestare un proprio disagio, avvertito come intollerabile rispetto all’organizzazione del lavoro ritenuta inadeguata, senza riferire le espressioni diffamatorie a soggetti direttamente individuabili”.

I giudici, per contro, ravvisando mancanza di correlazione tra ambiente lavorativo e stress, hanno affermato che la condotta di postare un messaggio offensivo (“mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà”) su di una persona individuata o facilmente individuabile comporta necessariamente la diffusione di esso ad un pubblico indeterminato, realizzando così il reato di diffamazione che,  valutata in concreto, può condurre, come nel caso in esame, ad una valutazione di gravità tale da giustificare il licenziamento per giusta causa.

Secondo la Corte, poi, “al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto” (v. anche Cass. n. 13512/2016).

Sono infine ormai noti e consolidati i principi alla base della giusta causa di licenziamento, la quale:

a) “integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici”. (v. Cass. n. 6498/2012);

b) deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro con particolare riguardo all’elemento fiduciario; spetta al giudice valutare sia la gravità dei fatti addebitati al lavoratore – relativamente alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze in cui sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale -, sia la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, in modo da stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del lavoratore, giustifichi in concreto l’applicazione della massima sanzione disciplinare, quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Critica con invettive all’organizzazione aziendale, delitto di diffamazione e lesione del vincolo di fiducia
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