Nota a App. Milano 15 maggio 2018, n. 617

Daria Pietrocarlo

La condotta dell’Inps, consistente nell’aver introdotto requisiti non previsti dall’art. 1, co. 353, della L. n. 232/2016 per beneficiare del c.d. “premio alla nascita”, ha carattere discriminatorio.

È quanto affermato dalla Corte di Appello di Milano con la sentenza n. 617/2018, che ha respinto l’appello proposto dall’Inps avverso l’ordinanza 12 dicembre 2017, n. 6019, emessa dal Tribunale di Milano.

Secondo la norma citata, “a decorrere dal 1 gennaio 2017 è riconosciuto un premio alla nascita o all’adozione di un minore dell’importo di € 800,00. Il premio, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 del T.U. delle imposte sui redditi di cui al DPR 22.12.1986 n. 917, è corrisposto dall’Inps in unica soluzione su domanda della futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza o all’atto di adozione”.

L’Inps, invece, con tre circolari (n. 39/2017, n. 61/2017 e n. 78/2017) aveva impartito indicazioni sulle modalità di fruizione del beneficio in questione, limitandone l’accesso ad alcune categorie di donne non comunitarie e, precisamente, alle sole donne titolari della carta di soggiorno o carta di soggiorno di lunga durata (nello specifico, l’INPS aveva ristretto la platea dei destinatari della prestazione assistenziale a coloro che: avevano residenza in Italia; avevano cittadinanza italiana o comunitaria; le cittadine non comunitarie in possesso dello status di rifugiato politico e protezione sussidiaria sono equiparate alle cittadine italiane per effetto dell’art. 27, D.LGS. n. 251/2007. Per le cittadine non comunitarie, aveva riconosciuto il c.d. premio alla nascita esclusivamente a quelle in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9, D.LGS., n. 286/1998, oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17, D.LGS. n. 30/2007).

Per la Corte di Appello di Milano l’Istituto si è di fatto arrogato il potere di imporre, in sede amministrativa, condizioni o requisiti che la legge non ha né previsto e né disciplinato, di introdurre modifiche a una norma di fonte primaria e di restringere, di conseguenza, la platea delle destinatarie del beneficio.

Per il Collegio è di immediata evidenza la illegittimità della condotta dell’Inps in quanto l’Ente ha emesso delle circolari, aventi mera natura regolamentare, che di fatto attribuiscono alla legge un contenuto diverso da quello espresso e voluto dal legislatore.

Così facendo l’Inps non solo ha derogato alla norma di legge disponendo diversamente da quanto prescritto da quest’ultima, ma lo ha fatto introducendo disposizioni palesemente discriminatorie per nazionalità. Difatti, ancorando la possibilità di ottenere il beneficio a una condizione, quale il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ha introdotto una differenza di trattamento non giustificata da alcuna ragionevole e oggettiva finalità.

Pertanto, secondo il Giudice dell’appello, la individuazione dei requisiti fatta dall’Inps, oltre che illegittima, va qualificata come discriminatoria, poiché esclude dal beneficio, per ragioni di nazionalità e senza alcuna ragionevole motivazione, una parte delle donne residenti in Italia per le quali ricorrono le condizioni previste dall’art. 1, co. 353, della L. n. 232/2016.

Da ultimo, sebbene non oggetto di esame da parte del primo giudice, il Collegio ha ritenuto altresì opportuno chiarire la natura della provvidenza in esame, inserendola tra le prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 3 del regolamento CE 883/2004 ove tra i settori della sicurezza sociale sono compresi alla lettera b) “i trattamenti di maternità e paternità assimilati”.

Non appare quindi dubitabile, secondo la Corte di Appello, che tra essi debba essere inclusa la prestazione in oggetto, quale prestazione una tantum concessa in occasione della maternità.

Pertanto, il cittadino extra UE ammesso in Italia ai fini diversi dall’attività lavorativa, a norma del diritto dell’Unione o nazionale, al quale è consentito lavorare (come nel caso in commento) ovvero ammesso a fini lavorativi, ha diritto a tale beneficio in applicazione del principio di parità di trattamento disciplinato dall’art. 12 della direttiva 2011/98.

Detto principio per il Collegio appare chiaro, preciso e incondizionato, dunque dovrà essere applicato direttamente dalle pubbliche amministrazioni e la sua violazione costituirà una vera e propria discriminazione.

Premio di natalità esteso a tutte le madri regolarmente presenti in Italia
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