Indurre i propri dipendenti con minacce velate di licenziamento o di trasferimento in sedi disagiate ad accettare compensi inferiori a quelli indicati nelle buste paga, configura reato di estorsione; inoltre l’utilizzo del risparmio in tal modo realizzato per pagare in nero provvigioni ed altri benefit si configura come autoriciclaggio.

Nota a Cass. 7 giugno 2018, n. 25979

Fabrizio Girolami

La condotta del datore di lavoro che, approfittando di una situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, “con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare
consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate” integra il delitto di estorsione (art. 629 c.p.).

È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione (7 giugno 2018, n. 25979; v. anche  n. 11107/2017 e n. 677/2014), la quale ha precisato che il rastrellamento di liquidità attraverso le suddette condotte estorsive (“in particolare, per effetto
della mancata corresponsione degli anticipi, solo formalmente versati in contanti, delle quattordicesime mensilità, del corrispettivo dei permessi non goduti e il successivo utilizzo…per pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero in favore dei venditori della società”) integra una ipotesi di autoriciclaggio consistente nella reimmissione nel circuito aziendale dei fondi illeciti così ottenuti; reimmissione “concretamente ed efficacemente elusiva dell’identificazione della provenienza delittuosa della provvista” .

I giudici chiariscono anche che la condotta è punibile ai sensi all’art. 648 ter.1 c.p.,  il quale sanziona le attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto ed idonee ad “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

È cioè necessario, ai fini dell’integrazione dell’illecito, che il comportamento sia caratterizzato da una particolare capacità dissimulatoria, tale da “provare che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto”.

In quest’ottica, hanno rilievo penale “tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante”.

Retribuzione: fra estorsione e autoriciclaggio
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