La consapevolezza dei superiori di prassi irregolari e la pressione a favore dell’adozione di modalità operative spregiudicate attenua il disvalore dei fatti ascritti al lavoratore.

Nota a Cass. 2 ottobre 2018, n. 23878

Mariapaola Boni

La violazione di procedure di commercializzazione relative alla stipulazione di una serie di contratti di fornitura non legittima il licenziamento qualora si iscriva nell’ambito di una prassi generalizzata adottata da anni nonché sostenuta e sollecitata dai vertici aziendali.

È quanto deciso dalla Corte di Cassazione 2 ottobre 2018, n. 23878, che, fermo il disvalore in sé del fatto addebitato, ha ritenuto non proporzionata la sanzione del licenziamento per giusta causa di un venditore sulla base dell’accertamento di una serie di circostanze:

a) le pressioni dei superiori: il dipendente si era attenuto a specifiche direttive e pressioni dei superiori che “non perdevano occasione per sollecitare la conclusione del maggior numero di contratti sulla base di modalità operative spregiudicate ed irrispettose delle disposizioni aziendali”; il che rendeva difficilmente configurabile la lesione dell’elemento fiduciario e la stessa ipotizzabilità del grave inadempimento soggettivo da parte del lavoratore;

b) la diffusività della pratica commerciale irregolare: il sistema lavorativo dell’azienda era talmente pervaso da pratiche irregolari “da rendere difficilmente immaginabile per il lavoratore, anche in considerazione del ruolo rivestito, la possibilità di rifiutare di adeguarvisi”;

c) la conoscenza del sistema illecito: l’ampia consapevolezza nell’ambito aziendale ed in capo ai massimi vertici della società di tali prassi irregolari finalizzate all’incremento del fatturato;

d) il comportamento corretto del lavoratore: i giudici hanno valorizzato la correttezza professionale dimostrata dal dipendente che fin dall’inizio aveva riferito esattamente come si erano svolti i fatti.

Pratiche commerciali scorrette e licenziamento
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