La retribuzione erogata dalla società cessionaria del ramo d’azienda non è “detraibile” dalla società cedente.

Nota a Cass. 3 luglio 2019, n. 17785

Fabrizio Girolami

Nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda, qualora a seguito di specifica istanza del lavoratore ceduto, il giudice accertati l’insussistenza dei presupposti di legittimità di cui all’art. 2112 c.c., la società cedente che abbia rifiutato, senza giustificazione, di ripristinare il rapporto di lavoro a fronte dell’offerta formale della prestazione lavorativa, è obbligata per intero al pagamento della retribuzione, senza possibilità di “detrarre” le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dalla società (già) cessionaria nel periodo successivo alla sentenza di accertamento dell’illegittimità della cessione. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza 3 luglio 2019, n. 17785.

Nel caso di specie, un lavoratore, coinvolto in un’operazione di cessione di ramo d’azienda posta da Telecom Italia S.p.A. (“cedente”, di seguito denominata anche solo “Telecom”) nei confronti della società HP DCS S.r.L. (“cessionaria”), aveva chiesto al Tribunale di Ancona di dichiarare l’illegittimità del trasferimento del suo rapporto di lavoro alle dipendenze della cessionaria per carenza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c. In accoglimento della domanda, il Tribunale di Ancona, accertata l’effettiva illegittimità della cessione del ramo d’azienda, aveva condannato l’impresa cedente alla riammissione in servizio del lavoratore.

Ottenuta tale sentenza favorevole, il lavoratore aveva offerto formalmente la propria prestazione lavorativa a favore di Telecom Italia S.p.A., producendo la situazione giuridica nota come “mora del creditore” (cd. “mora credendi”: art. 1206 c.c.). Telecom si era tuttavia rifiutata di riammettere in servizio il lavoratore.

Ritenendo il rifiuto opposto da Telecom come palesemente ingiustificato, il dipendente aveva proposto al Tribunale di Ancona ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere il pagamento degli emolumenti maturati a seguito del mancato ripristino del rapporto di lavoro. Il Tribunale di Ancona, in accoglimento del ricorso, aveva emesso decreto ingiuntivo, condannando Telecom al pagamento dei crediti retributivi maturati dal lavoratore.

In esito al giudizio di opposizione instaurato da Telecom, la Corte d’Appello di Ancona aveva revocato il decreto di ingiunzione del Tribunale di Ancona, negando l’esistenza di un credito retributivo del lavoratore nei confronti della medesima Telecom (quale società cedente il ramo d’azienda, il cui trasferimento era stato dichiarato illegittimo).

Avverso la sentenza della Corte territoriale, il lavoratore aveva proposto ricorso per cassazione, sottoponendo alla stessa le seguenti questioni: a) se i crediti ingiunti in pagamento dal lavoratore alla società cedente a titolo di emolumenti dovutigli per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro abbiano natura “retributiva” o “risarcitoria”, nonostante l’emissione di un tale ordine del Tribunale con la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda; b) se dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro, che abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, sia detraibile quanto il lavoratore medesimo nello stesso periodo abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l’attività prestata alle dipendenze della società già cessionaria, ma non più tale, una volta dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto (cd. detraibilità dell’aliunde perceptum).

La Cassazione, nel soffermarsi sulla prima questione posta alla sua attenzione, richiama i principi già espressi dal giudice di legittimità a Sezioni Unite (cfr. Cass. S.U., 7 febbraio 2018, n. 2990, in questo sito con nota di A. TAGLIAMONTE, Illecita interposizione di manodopera e natura delle somme spettanti al lavoratore, il cui indirizzo è stato riconosciuto valore di “diritto vivente” dalla Corte Costituzionale con sentenza 28 febbraio 2019, n. 29),  secondo cui “in caso di accertamento di interposizione fittizia, laddove il giudice ordini vanamente il ripristino del rapporto di lavoro con il soggetto interponente, quest’ultimo è tenuto a pagare le retribuzioni a partire dalla messa in mora, che corrisponde al momento in cui il lavoratore offre la propria prestazione”.

In merito alla seconda questione, la Cassazione, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, ha escluso la possibilità per la società cedente di operare la detrazione di quanto percepito (aliunde perceptum) dal lavoratore dalla società (già) cessionaria con la quale il rapporto di lavoro sia nel frattempo proseguito in via di mero fatto dopo la sentenza di accertamento dell’illegittimità della cessione del ramo d’azienda e nonostante l’avvenuta offerta formale della prestazione lavorativa alla società cedente (reale datore di lavoro).

La Cassazione afferma che, nell’ambito di un trasferimento di ramo di azienda illegittimo in quanto privo dei presupposti previsti dall’articolo 2112 c.c., una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale (società cedente) il rifiuto di questi “rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla effettiva utilizzazione”. Secondo la Corte, tale principio di equiparazione è coerente “con il diritto generale delle obbligazioni”, rientrando la prestazione inerente al rapporto di lavoro tra le obbligazioni che hanno ad oggetto prestazioni infungibili, per il cui adempimento è necessaria la collaborazione del creditore. Pertanto, per effetto dell’offerta formale alla società cedente di ripristinare il rapporto di lavoro, il lavoratore, che è debitore di una prestazione di  facere infungibile, ha posto in essere quanto è necessario, sulla scorta delle norme del codice civile, per far sorgere il suo diritto al pagamento della retribuzione. La prestazione rifiutata dalla società cedente a seguito della sentenza accertativa della illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda equivale, dunque, alla prestazione effettivamente resa, mantenendo inalterato il diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione.

Né possono, secondo quanto affermato dalla Cassazione, essere portate in detrazione le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dall’azienda cessionaria dopo la sentenza che ha accertato la nullità del trasferimento, trattandosi di due rapporti che rimangono perfettamente separati e distinti. A seguito dell’accertata illegittimità del trasferimento, accanto ad una prestazione resa sul piano materiale (de facto) a favore del soggetto (già) cessionario, si colloca il rapporto giuridicamente vincolante con il soggetto cedente (ripristinato de iure con la sentenza di accertamento, ma non in via di fatto, per il rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa).

La Corte, a tale riguardo, osserva che l’attività lavorativa che il dipendente continua a rendere a beneficio della (già) società cessionaria, anche dopo la sentenza di accertamento della nullità e nonostante l’intervenuta offerta formale della prestazione alla società cedente, “equivale” a quella che il lavoratore “rende in favore di qualsiasi altro soggetto terzo”. Le retribuzioni percepite in forza dello svolgimento del rapporto di fatto con la (non più) società cessionaria, in altri termini, si vanno a cumulare con le retribuzioni che il dipendente ha diritto di percepire dal soggetto cedente a seguito dell’offerta, rimasto ineseguita, alla ricostituzione effettiva del rapporto lavorativo, sicché è da escludere che la retribuzione corrisposta dalla società (già cessionaria) possa essere detratta dall’importo della retribuzione cui la società cedente è tenuta per effetto della costituzione in mora.

Trasferimento illegittimo di ramo d’azienda e diritto del lavoratore alla retribuzione
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