Il lavoratore pubblico che spenda il nome del proprio Ente al fine di compiere acquisti personali addebitati alle finanze del datore di lavoro può essere licenziato in tronco anche se ha risarcito prontamente il danno e se non aveva mai commesso precedenti infrazioni disciplinari.

Nota a Cass. 12 maggio 2021, n. 12641

Gennaro Ilias Vigliotti

La giusta causa di licenziamento, anche nel pubblico impiego privatizzato, ricorre allorquando la specifica mancanza disciplinare commessa dal lavoratore, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia che il datore di lavoro necessariamente deve riporre nella correttezza dell’adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto di lavoro (nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass. n. 12798/2018; Cass. n. 8816/2017; Cass. n. 18715/2016).

Con una recente sentenza della Corte di Cassazione (12 maggio 2021, n. 12641), i giudici di legittimità hanno confermato questo principio, giudicando il caso di un dipendente di una nota Università del Sud Italia, il quale aveva, per un periodo prolungato di tempo, compiuto spese in elettrodomestici ed accessori tecnologici (nello specifico, 7 televisori, 4 notebook, 1 congelatore, 1 frigorifero ed altro) spendendo il nome dell’Ateneo ed addebitandogli i costi, ma utilizzando tali beni per fini personali.

Il lavoratore era stato licenziato per giusta causa ed aveva dunque agito in giudizio chiedendone l’annullamento. Deduceva, in particolare, di essere affetto da c.d. “shopping compulsivo” e di aver dunque agito senza intendere e volere, e, comunque, una volta disvelato gli accadimenti, di aver proceduto a risarcire l’Università di tutti gli oneri economici su di essa gravanti a seguito del proprio comportamento.

I giudici di merito – e cioè il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi – avevano confermato la legittimità del recesso datoriale, affermando la giustezza della scelta dell’Ente universitario di sciogliere unilateralmente il vincolo di lavoro. Il dipendente aveva dunque fatto ricorso alla Corte Suprema, in particolare deducendo che le sentenze di primo e secondo grado non avevano debitamente tenuto conto delle categorie essenziali che presiedono all’applicazione della clausola di giusta causa e, in particolare, alla attribuibilità soggettiva del fatto, alla gravità della condotta, al danno concretamente patito dall’Amministrazione, alla proporzionalità tra condotta e sanzione. Più nello specifico, il ricorrente affermava che il fatto non era dovuto a sua progettazione lucida e consapevole, bensì ad alterazione patologica, riconducibile al c.d. “shopping compulsivo” e che, inoltre, il danno era stato risarcito, lo storico disciplinare precedente agli accadimenti era intatto e che, alla luce di tali elementi, la sanzione espulsiva appariva eccessiva.

I giudici di legittimità, rifiutando la prospettazione del lavoratore, hanno confermato la legittimità del recesso ed affermato che i fatti per i quali si era proceduto, come rilevato dai giudici di merito, apparivano connotati da progettualità meditata e ben congegnata, con conseguente piena intenzionalità. Inoltre, secondo la Cassazione, la condotta consistita nell’utilizzare risorse finanziarie pubbliche per fini non autorizzati e non destinati agli interessi collettivi specificamente coltivati dall’Ente di appartenenza, anche in presenza di pronto rimborso e risarcimento, è in grado di far emergere un disvalore comportamentale inemendabile e quindi idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Ricorrono, dunque, secondo la Corte, tutti i presupposti della giusta causa ex art. 2119 c.c., con conseguente legittimità del recesso in tronco intimato al lavoratore.

Giusta causa e licenziamento nel pubblico impiego privatizzato
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