Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 giugno 2021, n. 18135

Licenziamento, Svolgimento di mansioni rientranti nell’ambito
di un inquadramento contrattuale superiore, Negligenza nel lavoro affidato al
lavoratore, Sanzione conservativa, CCNL

 

Fatti di causa

 

La Corte di Appello di Ancona, con la sentenza n.
355/2017, pubblicata il 26.7.2017, pronunziando sul reclamo proposto da R.C.,
avverso la sentenza del Tribunale di Macerata n. 68/2016, nei confronti di T.E.
S.p.A., G.G. S.r.l., T.E. Service S.r.l., GFC S.r.l., TMP S.r.l., ha dichiarato
la illegittimità del licenziamento intimato a R.C. e, per l’effetto, lo ha
annullato; inoltre, previo accertamento della esistenza di un unico centro di
imputazione datoriale in relazione a tutte le società reclamate, ha condannato
la T.E. S.p.A. a reintegrare il C. nel proprio posto di lavoro ed altresì ad
erogare al medesimo una indennità risarcitoria, pari a dodici mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonché a regolarizzarne la posizione
contributiva.

La Corte di merito, per quanto ancora rilevi in
questa sede, ha osservato che <<risulta rilevante che il C. svolgesse di
fatto mansioni rientranti nell’ambito di un inquadramento contrattuale
superiore, rispetto a quello riconosciuto al lavoratore, formalmente inquadrato
al sesto livello del CCNL, mentre svolgeva in concreto attività di spedizione
merci e di stoccaggio nei magazzini, sussumibile nel quarto livello CCNL, che
nelle esemplificazioni prevede, appunto, la figura del “magazziniere”>>;
che <<la misura espulsiva non risulta legittima neanche sotto il profilo
della proporzionalità. I comportamenti contestati al C., non riconducibili a
nessuna delle ipotesi tipiche del contratto collettivo poste a giustificazione
del licenziamento, appaiono, invece, configurare una delle fattispecie previste
dall’art. 225 CCNL,
legittimante l’irrogazione di una mera sanzione conservativa. Infatti, qualora
il dipendente “esegua con negligenza il lavoro affidatogli”, tale
condotta è idonea a legittimare il datore a irrogare una multa, cioè la
medesima sanzione con cui erano stati puniti gli addebiti del 9.1.2014 e del
30.1.2014>>; e che <<l’indice della scarsa rilevanza dei
comportamenti oggetto delle contestazioni del 9.10.2013, 4.11.2013, 9.1.2014,
30.1.2014, 28.4.2014, 12.5.2014 è deducibile anche dalle conseguenze
disciplinari relative ai medesimi. Infatti, nella maggior parte dei casi al
dipendente non era mai stata applicata alcuna sanzione disciplinare, mentre,
negli unici due casi in cui il C. era stato punito, cioè per gli addebiti
inviati il 9.1.2014 ed il 30.1.2014, le sanzioni si erano limitate alla multa
corrispondente ad un’ora di attività lavorativa.

A sostegno della minima entità di tali negligenze
nello svolgimento dei propri compiti, può rilevarsi come, in assenza di prova
contraria, le stesse non appaiano contraddistinte da una precisa volontà di
danneggiare l’azienda, ma dalla mera mancanza di attenzione e precisione del
lavoratore. … E, ai sensi dell’art.
225 CCNL, la recidiva per avere rilevanza deve essere avvenuta oltre la
terza volta nell’anno solare in qualunque delle mancanze che prevedono la
sospensione, fatto salvo quanto previsto per la recidiva nei ritardi>>.

Per la cassazione della sentenza T.E. S.p.A., T.E.
Service S.r.l., G.G. S.r.l., GFC S.r.l. e TMP S.r.l. hanno proposto ricorso
affidato a due motivi.

R.C. ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119, primo comma, c.c.; 1 e 3 della I. n. 604 del 1966 e 7 della I. n. 300 del 1970,
<<nella parte in cui la Corte d’Appello nega rilevanza quale giusta causa
di licenziamento a plurima recidiva ritualmente contestata ed
accertata>>, e si deduce che il licenziamento di cui si tratta è stato
intimato con raccomandata dell’11.6.2014 e che i giudici di seconda istanza,
<<dopo aver osservato che il termine “entro il quale il datore
avrebbe potuto adottare un eventuale provvedimento disciplinare (art. 227 CCNL di settore) non
è stato pienamente rispettato dalla T.E. S.p.A.”, dopo una analisi dei
documenti e delle date, concludono affermando il contrario, e cioè che
“tale termine appare, quindi, senz’altro rispettato, avendo il datore
inviato la lettera di licenziamento l’11.6.2014”>>; ed altresì che,
<<dopo aver affermato che “Nella missiva di licenziamento non veniva
specificata alcuna particolare causa giustificativa, se non la gravità della
negligenza del C. nello svolgimento delle sue mansioni, anche alla luce delle
molteplici contestazioni disciplinari comunicategli nel corso del 2014”,
finiscono per concludere che non rilevano le pregresse contestazioni
disciplinari, e che quindi non ricorre la giusta causa del
licenziamento>>, negando, quindi, <<rilevanza di giusta causa di
licenziamento ad una macroscopica recidiva ritualmente contestata e richiamata>>.

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento
all’art. 360, primo comma, nn.
3 e 5 c.p.c., la violazione degli artt. 1344, 1414, 1415, 2697 c.c. e 116 c.p.c., <<in
presenza di un error iuris sostanziale sotto il
profilo della erronea sussunzione della fattispecie concreta nel quadro della
norma applicata, con riferimento alla dichiarata esistenza di un gruppo di
imprese con unico centro di imputazione del rapporto di lavoro pur in assenza
dei requisiti richiesti dalla costante e conforme giurisprudenza di legittimità
in materia (da ultimo Cass. n. 2646/2016), e senza procedere all’esame
dell’attività di ciascuna impresa che le società convenute avevano
adeguatamente illustrato e documentato>>, ed altresì <<richiamando
un materiale probatorio che non consente di sussumere la vicenda sotto la norma
applicata, in quanto le circostanze valorizzate non rientrano tra quelle
tassativamente richieste dai giudici di legittimità per poter affermare
l’esistenza, anche ai fini dei rapporti di lavoro, di un unico centro di
potere>>.

1.1. Relativamente al primo motivo, si rileva che
non sussiste la evidenziata contraddittorietà (“motivo di
perplessità”: così in ricorso) tra le proposizioni ed affermazioni della
Corte distrettuale relative al rispetto del termine di adozione del
provvedimento disciplinare. Va infatti osservato che il previsto termine
quindicinale è stato ritenuto non rispettato unicamente con riguardo a due
delle contestazioni cui si faceva riferimento nella missiva di licenziamento
(quelle del 28.4.2014 e del 12.5.2014), mentre è stato ritenuto rispettato con
riguardo alla sola contestazione – cui pure si riferiva la missiva – del
9.5.2014, sulla quale soltanto secondo la Corte poteva ritenersi fondato il
licenziamento.

Quanto alla censura relativa alla contraddittorietà
tra le ulteriori affermazioni relative alla gravità della condotta del C. alla
luce delle molteplici contestazioni disciplinari comunicate al predetto nel
corso dell’anno 2014 (così nella missiva di licenziamento) ed alla ritenuta
mancanza di rilevanza delle stesse ai fini considerati, la motivazione sul
punto è particolarmente articolata e la decisione è supportata da una pluralità
di considerazioni , tra le quali la riconducibilità dei comportamenti
addebitati al lavoratore ad errori o mancanze di lieve entità nell’espletamento
degli incarichi affidati allo stesso, come, secondo la Corte, desumibile anche
dalla mancata applicazione di sanzioni disciplinari nella maggior parte dei
casi, e l’irrogazione della sola sanzione della multa per due di essi, lo
svolgimento da parte del C. di mansioni rientranti in un livello di
inquadramento superiore a quello contrattuale riconosciutogli, la non
riconducibilità dei comportamenti contestati ad alcuna delle ipotesi tipiche
del CCNL applicabile poste a giustificazione del licenziamento, ma a
fattispecie legittimante l’irrogazione di mera sanzione conservativa. Al
cospetto di tale iter motivazionale, la giurisprudenza richiamata dalle
ricorrenti, relativa alla non necessità – ai fini della validità della sanzione
o del licenziamento – di una contestazione disciplinare riferita anche alla
recidiva o comunque ai precedenti disciplinari che la integrano, ove questa non
rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non semplice
criterio di determinazione della sanzione ad essa proporzionata, non è pertinente
e conferente. A prescindere dalla mancata trascrizione della lettera di
contestazione, necessaria ai fini dell’adempimento dell’onere di specificità
del motivo di ricorso, con conseguenti riflessi sulla inammissibilità della
censura che non ne riporti il contenuto, la Corte distrettuale si è basata
anche sulla considerazione dei citati precedenti disciplinari, dei quali è
stata esclusa ogni gravità per la riscontrata lieve entità degli errori e delle
mancanze poste in essere, anche in rapporto alle mansioni riconducibili alla
figura di “magazziniere” in concreto accertate come svolte dal C.. In
forza di tale ordine di considerazioni, la Corte di Ancona ha escluso che la
contestazione del 9.5.2014, unica a fondare formalmente la sanzione del licenziamento
(in tal senso la precisazione della corte a pag. 10 della sentenza impugnata),
riguardasse fatti riconducibili alle ipotesi di violazione degli artt. 225 o 220, primo e secondo comma, del
CCNL (riguardanti fattispecie specifiche legittimanti il licenziamento, non
congruenti con gli addebiti) ed ha ritenuto, invece, che gli stessi fatti
fossero idonei a legittimare l’irrogazione di una mera sanzione conservativa.
Non essendo le censure della società, per quanto osservato, idonee a scalfire
l’impianto motivazionale (sia perché, come già sopra evidenziato, non è mancata
adeguata considerazione della rilevanza dei precedenti comportamenti di cui il
C. si era reso responsabile, sia in ragione della motivata impossibilità di
ricondurre il comportamento addebitato, anche con contestuale considerazione di
mancanze pregresse, alle fattispecie legittimanti il licenziamento), rimane
ferma la base motivazionale che individua con riferimento alla fattispecie
realizzata l’ipotesi prevista dallo steso art. 225 del CCNL,
legittimante l’irrogazione della sanzione della multa, prevista per l’ipotesi
in cui il dipendente “esegua con negligenza il lavori affidatogli”
(cfr. in tali termini pag. 11 della sentenza impugnata).

Tale ratio deciderteli, che si ricollega alle
valutazioni richiamate, non adeguatamente confutate, non è stata fatta oggetto
di ulteriore specifica censura su piani diversi afferenti anche alla tutela reintegratoria attenuata riconosciuta in base a puntuali
richiami in diritto, al che consegue la complessiva infondatezza del relativo
motivo di ricorso.

2.2. Il secondo motivo è inammissibile. Va premesso
che i requisiti per l’individuazione di una ipotesi di codatorialità,
implicante l’esistenza di un gruppo di imprese con unicità di centro di
imputazione dei rapporti giuridici ed in particolare dei rapporti lavorativi,
consistono: a) nell’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b)
nell’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e
nel correlativo interesse comune; c) nel coordinamento tecnico ed
amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che
faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo
comune; d) nella utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da
parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la
stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei
vari imprenditori (cfr. Cass.
nn. 267/2019; 7704/2018;
19023/2017; 26346/2016).
Orbene, la pronuncia giunge ad identificare l’unicità del centro di imputazione
descritto attraverso una indagine completa circa la sussistenza di ciascuno
degli enunciati requisiti, alla stregua delle acquisite risultanze istruttorie,
sia documentali che testimoniali. A fronte dell’esaustivo accertamento compiuto
dalla Corre distrettuale, la censura, pur nella enunciazione in rubrica di un
error in iudicando con riferimento alla violazione delle norme indicate, non
rivolge alcuna critica alla effettuata corretta applicazione dei parametri
identificativi della fattispecie, ma si limita a censurare la decisione
attraverso una diversa contrapposta valutazione delle risultanze processuali
(v. Cass. n. 635/2015, ai sensi della quale, quando nel ricorso per cassazione
è denunziata violazione o falsa applicazione si norme di diritto, il vizio
della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma,
n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di
inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche
argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione
delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di
legittimità). E nel motivo scrutinato non si rinviene una critica conforme al
modello dettato dalla giurisprudenza di legittimità, ma unicamente una censura
volta a prospettare una diversa ricostruzione dei rapporti tra le società, in
forza di una valutazione delle prove meramente contrappositiva
rispetto a quella compiuta dal giudice del gravame. E ciò denota l’inammissibilità
del motivo, essendo pacifico che “non rientra nell’ambito applicativo
dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., l’allegazione di un’erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna
all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del
giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. n. 640/2019).

3. Per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va rigettato.

4. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza.

5. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in
dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna le parti ricorrenti al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.700,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 giugno 2021, n. 18135
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