L’Agenzia, in due diverse risposte, ha chiarito qual è il criterio per stabilire quando sono imponibili le somme erogate dal datore di lavoro ai propri dipendenti in smart-working, destinate a rimborsarli dei costi sostenuti per lo svolgimento di tale modalità lavorativa.

Nota a AdE Risposte 30 aprile 2021, n. 314 e 11 maggio 2021, n. 328

 Antonio Guidone

Con le Risposte ad interpello n. 314 del 30 aprile 2021 e n. 328 dell’11 maggio 2021, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che il rimborso spesa erogato dal datore di lavoro ai dipendenti in smart-working, finalizzato a tenerli indenni dai costi sostenuti, non è imponibile ai fini Irpef quando, mediante un criterio analitico, è individuata, per ciascuna voce di spesa, la quota di costi risparmiati dalla società. Se, al contrario, il rimborso è basato su un criterio forfetario, non supportato da elementi e parametri oggettivi, le somme rimborsate concorreranno alla determinazione del reddito del dipendente.

Nel primo caso esaminato, Risposta n. 314, un datore di lavoro intendeva sottoscrivere un accordo sindacale, avente ad oggetto il trattamento economico e normativo dei propri dipendenti in modalità lavorativa agile, con cui intendeva tenerli indenni dalle spese dagli stessi sostenute durante lo smart-working presso la propria abitazione (o luogo assimilato, purché i costi diretti di quest’ultimo fossero a loro carico). Chiedeva, pertanto, quale fosse il corretto trattamento fiscale dei rimborsi erogati.

Nel fare ciò, precisava che la somma concessa a titolo di rimborso, circa 0,50 centesimi al giorno, era stata calcolata considerando 3 parametri: la tipologia di spesa, il risparmio giornaliero per il datore di lavoro e il costo giornaliero per il dipendente. Ad esempio, erano stati considerati quali costi:

  • i consumi di energia elettrica per l’utilizzo di un computer e di una lampada;
  • l’utilizzo dei servizi igienici;
  • il riscaldamento dell’ambiente nel periodo invernale, per un’ora al giorno.

Al contrario, erano stati esclusi dal computo tutti quei costi non direttamente ricollegabili all’attività lavorativa:

  • le spese di vitto;
  • la climatizzazione estiva;
  • la rete internet;
  • le spese di allaccio alla rete elettrica e idrica.

Nel secondo caso, risposta n. 328, la società istante decideva che, dal mese di marzo 2020, a seguito della pandemia, i propri dipendenti svolgessero l’attività lavorativa da casa e, per il tramite di accordi individuali, prevedeva che i propri dipendenti in smart-working ricevessero un rimborso pari al 30 per cento dei consumi effettivi da essi sostenuti, relativi alle spese documentate della connessione ad Internet, della corrente elettrica, dell’aria condizionata o del riscaldamento. Anche in questo caso, l’istante chiedeva quale fosse il corretto trattamento fiscale degli importi rimborsati.

Nel rispondere ai quesiti, l’Amministrazione finanziaria ha affermato che, in base al principio di onnicomprensività, sancito dall’art. 51, co. 1, del TUIR, il reddito di lavoro dipendente è formato da tutte quelle somme e valori in genere, percepiti a qualunque titolo nel periodo d’imposta, purché relativi al rapporto di lavoro; dunque, anche i rimborsi spese in questione dovrebbero costituire reddito per il lavoratore.

Ciò posto, l’Agenzia ha però ricordato, così come già affermato nella circolare  23 dicembre 1997, n. 326, che i rimborsi riguardanti le spese di competenza del datore di lavoro e anticipate dal lavoratore, ad esempio, per l’acquisto di beni strumentali di modico valore (tra le tante, la carta della stampante), non sono imponibili, poiché non costituiscono un arricchimento per il lavoratore. Successivamente, nella risoluzione  7 dicembre  2007, n. 357/E, è stato ritenuto che le somme corrisposte al lavoratore, per indennizzarlo dei costi relativi ai collegamenti telefonici, devono essere considerate una mera reintegrazione patrimoniale e non una nuova ricchezza tassabile. Un’ipotesi particolare si ha, invece, in caso di spese sostenute dal lavoratore e rimborsate in modo forfetario: questa volta, le somme rimborsate sono escluse dalla base imponibile solo qualora il legislatore abbia previsto un criterio per individuare la quota che sia stata utilizzata nell’interesse del datore di lavoro (si veda, ad esempio, l’art. 51, co. 4, lett. a), del TUIR, relativamente all’uso promiscuo di autovetture); in assenza di un siffatto criterio individuato dalla legge, i costi sostenuti dal lavoratore, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, dovranno essere individuati sulla base di elementi oggettivi, accertabili documentalmente, altrimenti il rimborso concorrerà alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.

Applicando tali principi ai casi sottoposti alla sua attenzione, l’Agenzia ritiene che, mentre nel primo caso i rimborsi non sono imponibili ai fini Irpef, poiché l’istante ha elencato una serie di parametri finalizzati ad individuare i costi risparmiati dalla società, idonei a circoscrivere le spese sostenute dai dipendenti in smart-working, nel secondo, le somme rimborsate rientrano nel reddito del lavoratore dipendente, poiché il criterio forfetario adottato non è supportato da elementi e parametri oggettivi e impedisce di quantificare con esattezza i costi sostenuti dal lavoratore.

Quando è tassato il rimborso delle spese sostenute dai dipendenti in smart-working?
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