Il patto di stabilità troppo oneroso è nullo per frode alla legge

Nota a Cass. 10 settembre 2021, n. 24478

Flavia Durval

In base all’art. 1750 c.c. sono vietate le pattuizioni “che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza di reputare nullo per frode alla legge (ai sensi dell’art. 1344 c.c.) il patto che contempli, in aggiunta all’obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una clausola penale che, in quanto eccessivamente onerosa a cagione del proprio rilevantissimo importo, incida in misura significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente, ed eludendo, per tale via, il principio imperativo della parità delle parti medesime nella materia del recesso”.

Questo, il principio espresso dalla Corte di Cassazione 10 settembre 2021, n. 24478, che conferma la decisione della Corte di Appello di Bari (16 ottobre 2017) che aveva ritenuto la cospicua onerosità della penale (euro 100.000,00) tale da “indurre a reputare non libera la volontà di uno dei contraenti, ed a determinare uno squilibrio ingente fra le posizioni delle parti, contrario alla salvaguardia del principio di parità negoziale”.

Nella fattispecie, la clausola che prevedeva il patto di stabilità non era correlata formalmente all’obbligo di osservare il preavviso. Tuttavia, i giudici di merito si erano pronunciati (correttamente, secondo la Cassazione) nel senso della nullità del patto di stabilità sottoscritto dalle parti, in quanto strutturato in modo da alterare la parità delle parti in materia di recesso. Tale patto, infatti, in ragione dell’elevato importo, era idoneo ad incidere in maniera significativa sulla normale facoltà di recedere di una sola delle parti, limitandola fortemente nel senso di renderla particolarmente gravosa per il solo agente, ed eludendo così il principio imperativo della parità delle parti stesse in materia di recesso.

Il patto di stabilità (o clausola di durata minima), come noto, è un negozio giuridico atipico con il quale il prestatore o il datore di lavoro (ovvero entrambi) si obbliga, per un determinato periodo di tempo, a non recedere dal contratto di lavoro.

Tale clausola contrattuale ha quindi come oggetto la limitazione del potere di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro, riconosciuto ad entrambe le parti dall’art. 2118 c.c. e può essere pattuita in sede di costituzione del rapporto di lavoro ovvero durante lo svolgimento dello stesso.

In seguito alla stipulazione del patto, le parti, durante il periodo di vigenza dello stesso, non potranno recedere dal contratto se non per giusta causa, ossia – secondo la definizione del c.c. – per una causa che “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Come evidenziato dalla Cassazione (n. 18376/2009), la legge non prevede alcun limite all’autonomia privata per quanto concerne la facoltà di recesso dal rapporto attribuita al lavoratore, sicché il diritto di recesso di cui all’art. 2118 c.c. è un diritto pienamente disponibile; di conseguenza, il lavoratore può validamente pattuire con il datore di lavoro una garanzia di durata minima del rapporto, che comporti – fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c. – il risarcimento del danno a favore del datore di lavoro per mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto.

Tuttavia il patto in esame può essere considerato legittimo a condizione che le parti lo inseriscano in un regolamento contrattuale che salvaguardi, nel rispetto del principio di buona fede, i contrapposti interessi in gioco. Con la stipulazione del patto, il prestatore di lavoro subisce, infatti, un sacrificio, sia pure limitato nel tempo, al quale corrisponde una indiscutibile posizione di vantaggio del datore di lavoro, suscettibile di valutazione economico-patrimoniale.

Eccessiva onerosità del patto di stabilità
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