Se non c’è “rischio d’impresa” e “potere direttivo e di controllo” da parte dell’appaltatore, l’appalto è illecito, mentre non è necessario che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione.

Nota a Cass. 28 giugno 2023, n. 18455

Fabrizio Girolami

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18455 del 28 giugno 2023, ha affermato i seguenti importanti principi di diritto:

a) in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto (ai sensi dell’art. 29, co. 1, D.Lgs. n. 276/2003), è necessario verificare – specialmente nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive) – che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso un’effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti (c.d. “eterodirezione”), impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa. Deve, invece, ravvisarsi un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo o organizzativo sia interamente affidato al (formale) committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest’ultimo, l’intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione irregolare, è frequente che l’elemento fiduciario caratterizzi l’intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro;

b) nel caso di accertato appalto non genuino, trova applicazione l’art. 27, co. 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 276/2003 in tema di somministrazione irregolare (ratione temporis applicabile ai fatti di causa e ora abrogato dall’art. 55, co. 1, lett. d), D.Lgs. n. 81/2015 e confluito nell’attuale art. 38, co. 3, secondo periodo, del medesimo D.Lgs.), ai sensi del quale tutti gli atti compiuti dallo pseudo-appaltatore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale l’appalto illecito ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione. Tra tali atti non rientrano però gli atti estintivi (tra cui il licenziamento), sicché, in caso di licenziamento operato dallo pseudo-appaltatore, l’utilizzatore effettivo non può giovarsi del recesso intimato dallo pseudo-appaltatore in danno del lavoratore. Pertanto, il licenziamento intimato dallo pseudo-appaltatore deve considerarsi giuridicamente “inesistente” e determina la riammissione in servizio del lavoratore nella compagine aziendale dell’utilizzatore, quale datore di lavoro effettivo.

Nello specifico, secondo la Cassazione:

  • l’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003 stabilisce che l’appalto è “genuino” quando l’appaltatore: 1) assume il rischio di impresa; 2) organizza i mezzi necessari per l’esecuzione del contratto, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
  • secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, in tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali, macchine e attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo a una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto), solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale e accessorio l’apporto dell’appaltatore;
  • la sussistenza (o meno) della modestia di tale apporto va accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto. Pertanto, anche laddove l’appaltante effettui la fornitura di macchine e attrezzature, l’appalto è comunque genuino ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni e, in genere, per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto. L’appaltatore, dunque, non deve necessariamente essere titolare dei mezzi di produzione per poter essere parte di un appalto genuino;
  • inoltre, deve operarsi una distinzione tra “appalti pesanti” (che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali) e “appalti leggeri” (quale quello del caso di specie), dove, nei primi, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato “se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi”, mentre nei secondi (in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro), è sufficiente che in capo all’appaltatore “sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti” (cfr., in tal senso, Cass. 11.3.2020, n. 6948 e 9.1.2020, n. 251);
  • laddove il contratto di appalto non sia genuino, si applica la disciplina prevista per la somministrazione irregolare (ex art. 27, co. 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 276/2003, applicabile ratione temporis ai fatti di causa), sicché tutti gli atti compiuti dallo pseudo-appaltatore per la costituzione o la gestione del rapporto di lavoro devono intendersi riferiti al soggetto che in concreto ha utilizzato la prestazione lavorativa (effettivo utilizzatore). Tra tali atti non va però compreso l’eventuale licenziamento intimato dallo pseudo-appaltatore, sicché l’utilizzatore effettivo non può giovarsi del recesso intimato dal fittizio datore di lavoro in danno del lavoratore (ne consegue che l’eventuale licenziamento effettuato dallo pseudo-appaltatore non potrà ritenersi compiuto, né imputato in capo all’utilizzatore, sicché lo stesso non produrrà effetti nei confronti del lavoratore, il cui rapporto di lavoro è costituito con l’utilizzatore);
  • del resto, la (abrogata) norma dell’art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003 non include nel suo ambito di operatività (oltre agli atti compiuti dal somministratore irregolare per la costituzione o la gestione del rapporto) anche gli atti per la “estinzione del rapporto” stesso, né fa alcun cenno al licenziamento o al recesso (del somministratore irregolare). Pertanto, includere “il licenziamento negli atti per la “gestione” del rapporto sarebbe una forzatura della lettera della norma, sia perché la “gestione” in sé riguarda un rapporto ancora in corso, sia perché il testo specifica “per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo”, così lasciando sempre intendere la prosecuzione del lavoro “somministrato” in detto periodo, altrimenti la specificazione in inciso sarebbe priva di senso plausibile”;
  • tale interpretazione è altresì confermata dal fatto che, anche nell’attuale regime normativo, l’art. 80-bis del D.L. 19.05.2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. 17.07.2020, n. 77, ha operato un’interpretazione autentica dell’art. 38, co. 3, secondo periodo, D.Lgs. n. 81/2015, nel senso che il medesimo art. 38 (ai sensi del quale “tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione”), si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro “non è compreso il licenziamento”.

 

Sentenza

Corte di Cassazione Ordinanza 28 giugno 2023, n. 18455

Fatti di causa

Con ricorso depositato il 20.5.2014, G.F. conveniva innanzi al Tribunale di Torino la U. s.p.a. e la W.T. s.r.l., chiedendo di:

– accertare e dichiarare la violazione del divieto di intermediazione di manodopera ex d.lgs. 276/2003 e per l’effetto dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del ricorrente alle dipendenze della U.A. s.p.a. (che aveva incorporato la F.S.) dal 18.7.2005 o da altra data da accertarsi, con diritto all’inquadramento nel quarto livello contrattuale, classe 4, personale amministrativo, C.C.N.L. Imprese di A.A. e relativo trattamento retributivo e previdenziale;

– condannare la convenuta U. s.p.a. a corrispondergli i premi aziendali, legati al buon andamento del bilancio aziendale, ed i buoni pasto per l’intero periodo lavorativo; in via subordinata,

– accertare e dichiarare il suo diritto all’inquadramento nel IV livello contrattuale, classe 4, personale amministrativo, del suddetto C.C.N.L., sempre dal 18.7.2005 o da altra data da accertarsi, con il relativo trattamento retributivo e previdenziale;

– condannare la convenuta W.T. s.r.l. alle corrispondenti differenze retributive nel periodo di sussistenza del rapporto di lavoro subordinato in capo alla medesima;

– condannare la convenuta W.T. s.r.l. a corrispondere i premi aziendali, legati al buon andamento del bilancio aziendale, e i buoni pasto per l’intero periodo lavorativo.

2.Costituitesi entrambe le convenute, contestando tali domande, con sentenza resa il 17.3.2016, il Tribunale adito così provvedeva: “accerta e dichiara la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra il ricorrente e U.A. s.p.a. dal 18.7.2005 con inquadramento nel quarto livello contrattuale, classe IV personale amministrativo CCNL I.A.A.; respinge le altre domande rivolte nei confronti di U.A. s.p.a.; respinge le domande rivolte nei confronti di W.T. s.r.l.”; condannava l’attore al pagamento delle spese nei confronti della W.T., mentre compensava integralmente quelle tra il G. e la U., fatta eccezione per quelle di C.T.U. che venivano poste a carico del primo.

3.Con la sentenza in epigrafe indicata, nella contumacia questa volta della W.T., la Corte d’appello di Torino, previa riunione dei relativi procedimenti, respingeva gli appelli che erano stati autonomamente interposti contro la decisione di prime cure sia dal G. che dalla U.; compensava le spese del secondo grado tra queste ultime parti; e dichiarava la sussistenza delle condizioni per l’ulteriore pagamento, a carico di U., di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l’impugnazione.

4. Per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale, nel respingere l’appello di U., come il primo giudice riteneva provato che si era di fronte, non ad un appalto genuino, ma ad una ipotesi di illegittima fornitura di manodopera.

5. Avverso tale decisione, l’U. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

6. L’intimato G.F. ha resistito con controricorso, contenente anche ricorso incidentale, a mezzo di unico motivo.

7. Il P.G. ha depositato memoria in cui ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo, la ricorrente principale U. denuncia, “in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 29 del D.lgs. 276/2003”. Secondo la stessa, l’impugnata sentenza era “completamente errata, poiché estende meccanicamente il campo applicativo della disposizione di cui all’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 ad una fattispecie concreta che certamente non si presta ad essere sussunta sotto di essa, nei termini indicati dalla Corte di Merito”. Per l’impugnante, la pronuncia della Corte di merito non avrebbe tenuto “conto del fatto che siamo qui nell’ambito non soltanto di prestazioni di c.d. labour intensive, dove è preponderante il fattore umano rispetto all’organizzazione ed impiego di mezzi, ma anche di appalti tecnologici – da svolgersi nel contesto della nuova economia digitale – alla quale sono estranee le metodiche che portavano ad individuare l’illiceità dell’appalto secondo lo schema prefigurato dall’art. 1 legge n. 1369 del 1960 (studiato per contrastare fenomeni di caporalato selvaggio, nel contesto dell’economia manifatturiera del dopoguerra)”.

2.Col secondo motivo, deduce “in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 27 comma 2 d.lgs. n. 276/2003 richiamato dall’art. 29 comma 3 bis del medesimo d.lgs.”. Critica il punto in cui la decisione della Corte di merito ha affermato (cfr. pagg. 11-13 del ricorso).

3. Ritiene il Collegio che sia priva di fondamento la prima doglianza.

4. Secondo un indirizzo di questa Corte ormai consolidato ed anche di recente confermato in termini generali, in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è necessario verificare, specie nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive), che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo o organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest’ultimo, l’intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l’elemento fiduciario caratterizzi l’intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro (così Cass. civ., sez. VI, 25.6.2020, n. 12551, che, nella specie, ha cassato la sentenza di merito per aver ritenuto lecito l’appalto, nonostante le indicazioni ai lavoratori sui compiti da svolgere in concreto fossero fornite dalla committente, che parte dei beni utilizzati per il lavoro fossero della banca e che l’appaltatore non avesse, presso la sede della committente, alcun referente organizzativo; e in termini esatti o analoghi, tra le altre, id., sez. lav., 3.11.2020, n. 24386; id., sez. lav., 13.2.2020, n. 3631 e n. 3631; id., sez. lav., 10.6.2019, n. 15557, anche per precisazioni circa il confronto con la previgente disciplina di cui alla L. n. 1369 del 1960).

5. Ebbene, la decisione gravata, in base a quanto accertato, è conforme a tali principi.

Essa, peraltro, aveva correttamente premesso che:

“(1) ove l’appalto richieda, per la sua esecuzione, l’uso di mezzi dell’appaltatore, da parte dei prestatori da esso dipendenti, diviene irrilevante (o scarsamente rilevante) il fatto che manchi o appaia affievolito l’esercizio, da parte dell’appaltatore, del potere direttivo su tali lavoratori;

(2) viceversa, ove ci si trovi in presenza di prestazioni ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive), accompagnate quindi da mezzi materiali dell’appaltatore ridotti a pochi – se non del tutto assenti – attrezzi, è sufficiente a rendere lecito l’appalto, il concreto esercizio, ad opera dell’appaltatore, del potere organizzativo o direttivo sui lavoratori dal medesimo dipendenti” (così a pag. 20 della stessa).

6. L’impugnante, invece, richiamate talune voci dottrinali a riguardo, assume che: “Ora, l’attività di “sistemista reti” e “solver” in campo informatico, che era quello oggetto dell’appalto ed in concreto svolta dal sig. G., richiede unicamente un significativo know how finalizzato alla risoluzione degli specifici problemi informatici posti dal committente (rappresentato dai diversi dipendenti/addetti di U. che utilizzano quei software ed incontrano difficoltà di vario genere durante detto utilizzo, difficoltà che possono avere le ragioni più diverse ivi compresi i malfunzionamenti del sistema)”. Si tratterebbe, per la stessa, “di attività che non necessita di uno specifico coordinamento o di specifiche direttive e che non si presta in alcun modo ad essere sottoposta ad una qualche forma di potere organizzativo o direttivo concepito in senso tradizionale – giacché consiste esclusivamente nella risoluzione di problemi tecnici contingenti nel tempo più rapido possibile e nel momento in cui gli stessi si presentano, impiegando risorse intellettuali e competenze tecniche che sono i concreti strumenti di lavoro degli addetti”, perché “i solver sono a disposizione del cliente interno e risolvono il problema che questi rappresenta loro secondo le sue necessità”.

Il servizio prestato consiste dunque, secondo la ricorrente, in una attività meramente intellettuale ad alto contenuto di competenze, che non si presta ad una specifica direzione ed organizzazione. L’appaltatore esercita l’organizzazione dell’appalto limitandosi di fatto a decidere il numero di risorse (ovvero di persone) da destinare allo specifico servizio da svolgere. Non è invece immaginabile che costui diriga (in senso tradizionale) la prestazione del solver, impartendo ordini ed esercitando nei loro confronti un potere direttivo inteso come emanazione di discipline e direttive specifiche. I solver sono di fatto autonomi ed intervengono a richiesta per rendere l’apporto previsto dal contratto d’appalto.

Sarebbe, allora, sbagliato dedurre l’illiceità dell’appalto dal fatto che la W.T., appaltatrice del servizio nell’ambito del quale il G. prestava la sua attività, non esercitasse “una reale organizzazione della prestazione lavorativa” di costui.

Il fatto che l’appaltatore non eserciti un qualche genere di potere direttivo nei confronti dei propri addetti può avere rilevanza nell’ambito di servizi labour intensive ma svolti da personale privo di particolare know how e che non richiedono particolari competenze tecniche e specialistiche (ad esempio, i servizi di pulizia o quelli di facchinaggio).

Diversa dovrebbe essere, invece, la considerazione di tale elemento (la mancata spendita di un potere di organizzazione e conformazione della prestazione) nell’ambito di servizi all’interno dei quali operano persone con particolari competenze tecniche e conoscenze specialistiche, che sono gli strumenti necessari per eseguire il servizio stesso.

La Corte territoriale avrebbe reso un’interpretazione dell’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 che può essere utilizzata per qualificare i rapporti di personale che è privo di konw how e non svolge prestazioni ad alto contenuto intellettuale.

Sempre secondo la ricorrente, “con i moderni sistemi telefonici ed informatici, per dare ipotetiche direttive non occorre affatto la presenza fisica di un coordinatore sul posto di lavoro, potendo bastare un cellulare o un computer collegato alla rete. L’interpretazione (e l’applicazione in concreto) dell’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 in determinati contesti (quelli degli appalti tecnologici, che hanno ad oggetto servizi informatici) dovrebbero dunque tenere conto di questo innegabile ed oggettivo dato di fatto”.

7. Nota la Corte che per tal modo l’impugnante addebita in definitiva al giudice di secondo grado (come già a quello di prime cure) di aver fornito una lettura “retrograda” della fattispecie concreta (si vedano in particolare i richiami dottrinali proposti), che si caratterizzerebbe per essere l’appalto di cui è processo, non solo relativo a prestazione di servizio c.d. labour intensive, ma prettamente tecnologico, nei termini sopra riportati.

8. Osserva in proposito il Collegio che taluni argomenti svolti per perorare tale tesi, come suol dirsi, provano (rectius, proverebbero) troppo: invero, se tutti i c.d. solver(s) fossero “di fatto autonomi”, come assume la ricorrente, non solo rispetto a tali lavoratori non sarebbe configurabile un potere organizzativo e direttivo di chicchessia nei confronti del lavoratore utilizzato nel contratto, ma essi nemmeno sarebbero dei lavoratori subordinati. A voler seguire la linea di pensiero della ricorrente tali figure sarebbero piuttosto in un rapporto diretto con invisibili algoritmi, ma paritetico, essendo in possesso di quel know how ad elevato livello intellettuale tale da essere in grado di affrontare (e, a quanto pare, risolvere, essendo appunto dei solvers) qualsiasi problema di natura informatico-digitale.

9. Le deduzioni della ricorrente, comunque, per un verso, neanche tengono conto di quanto effettivamente accertato in punto di fatto dalla Corte distrettuale, e, per altro verso, sono, come si è visto, ammissive del dato che il lavoratore non fosse assoggettato al potere organizzativo e direttivo dell’appaltatore W.T., e, infine, per un ulteriore verso, muovono da una diversa ricostruzione di taluni dati fattuali, che non è ovviamente consentita in questa sede di legittimità.

10. Più in particolare, la Corte territoriale, nemmeno ha detto in qualche punto della sua decisione che il G. fosse un solver, in campo informatico, per così dire, a chiamata, come descritto dalla ricorrente, ma ha appurato che: “Nel caso oggetto di causa l’istruttoria esperita consente di affermare che l’attività svolta dal G. (che, pacificamente, aveva mansioni di sistemista reti e di assistente informatico) in favore della committente si svolgeva con utilizzo di attrezzature facenti capo alla convenuta e negli uffici della stessa, ove operavano con le stesse mansioni anche sei dipendenti di U. (cfr. testimonianze di B.G., N.P. e D.G.M., tutti dipendenti di U.)”. Ebbene, nelle proprie pur interessanti osservazioni, la ricorrente non tiene assolutamente conto di queste precise affermazioni della Corte d’appello, segnatamente circa l’identità di mansioni svolte dal G. e da altri sei lavoratori, tutti, questi ultimi sei, alle dipendenze della U..

11. Analogamente, la stessa Corte ha scritto che: “Inoltre il lavoro del G. era quotidianamente diretto e coordinato (esattamente come quello dei dipendenti della U. che svolgevano le stesse mansioni) da N.P. e D.G.M. (cfr., ancora, testimonianze B., N. e D.G.), né poteva essere diversamente posto che la referente W.T. (A.C.) non era costantemente presente in U. durante l’orario di lavoro, ma si limitava ad andare spesso (teste B.), a passare saltuariamente (teste N.)”.

12. Ergo, i giudici di merito non hanno riscontrato che il lavoratore fosse quella sorta di monade, che descrive la ricorrente, sottratta alla “specifica direzione ed organizzazione” di chicchessia.

13. Nello svolgimento del primo motivo, si sostiene anche che: “Né possono rilevare elementi come l’informazione data direttamente a U. circa le assenze (essendo evidente che si tratta di mero rispetto dei principi di buona fede e correttezza) o l’invito rivolto a dipendenti e non a meglio coordinarsi per le ferie; in caso di mancato coordinamento volontario è evidente che sarebbero intervenuti i rispettivi referenti decidendo ciascuno per la sua parte delle ferie dei propri dipendenti, indipendentemente dalle personali esigenze di questi ultimi”.

14. Ancora una volta, però, la Corte distrettuale non ha accertato questo, ma ha aggiunto molto di più, e cioè che: “-per le ferie si concordava un calendario comune tra tutti gli addetti, sia interni che esterni, al custode care (teste B.); il G. non poteva decidere quando prendersi le ferie (teste N.) e, se sulla base delle disponibilità manifestate (da dipendenti e non) non si riusciva a coprire i turni del periodo feriale, il D.G.”, ossia, come si è visto, il dipendente di U. che dirigeva e coordinava il G. come gli altri dipendenti della stessa U., “interveniva nei confronti sia dei dipendenti che dei non dipendenti perché si coordinassero meglio (teste D.G.); – il ricorrente comunicava le assenze a D.G. e N. (testi B., D.G. e N.)”.

15. A torto, inoltre, la ricorrente assume che: “Nulla ha infine a che vedere con una asserita mancata direzione ed organizzazione del rapporto da parte dell’appaltatore, la frequentazione di corsi di aggiornamento con i dipendenti della committente. Non vi è alcun elemento che porti a ritenere che si tratti di una decisione della committente e non dell’appaltatore”.

16. Si legge, infatti, nell’impugnata sentenza: “- il ricorrente veniva formato su nuovi procedure ed applicativi, unitamente ai dipendenti U., da esterni incaricati da U. (testi N. e D.G.)”.

Dunque, da un lato, non si trae assolutamente dall’accertamento probatorio compiuto dalla Corte torinese che il servizio prestato in appalto nella persona – si noti – del solo G., ma con espletamento di mansioni identiche a quelle disimpegnate da tutti gli altri dipendenti di U. nella medesima sede, fosse un’“attività meramente intellettuale ad alto contenuto di competenze”, tale, cioè, da rendere il G. praticamente autonomo, come asserisce la ricorrente. Dall’altro lato, l’ipotesi che i corsi proprio in campo informatico comuni al G. come ai sicuri dipendenti di U. potessero essere stati “decisi” da W.T., ancorché i relativi incarichi per quei corsi fossero stati conferiti da U., non trova alcun riscontro in quanto accertato dalla stessa Corte.

17. Ineccepibilmente, perciò, la Corte di merito aveva concluso che: “In capo alla W.T., formale datore di lavoro, rimanevano, dunque, sostanzialmente i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione e materiale concessione dei periodi di ferie e di permessi), senza che vi fosse da parte di tale società una reale organizzazione della prestazione lavorativa del G..

Così stando le cose, diventa irrilevante (come del tutto condivisibilmente affermato nella succitata giurisprudenza di legittimità) il fatto che W.T. avesse o meno una propria organizzazione autonoma e si assumesse o meno il rischio economico”.

18. Invero, in relazione a fattispecie più simili a quella che qui ci occupa, questa Corte di recente ha insegnato che, in tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, comma 1, solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore; la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una presunzione iuris et de iure) deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell’appaltante) l’anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto. Detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 276 del 2003 laddove la descritta presunzione della L. n. 1369 del 1960 – concepita peraltro in un’epoca non ancora pervasa dalla automazione della produzione e dalle tecnologie informatiche – è stata oggetto di abrogazione e “non è più richiesto che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell’appaltante, è possibile provare altrimenti – purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa – la genuinità dell’appalto. Così, mentre in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali, c.d. “pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi, negli appalti c.d. “leggeri” in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti (in tal senso Cass. civ., sez. lav., 11.3.2020, n. 6948 e in termini id., sez. lav., 9.1.2020, n. 251).

19. Ebbene, includendo il caso in esame tra gli appalti c.d. “leggeri”, resta il fatto che per non breve tempo il G. fu l’unico lavoratore “fornito” ad U. in un appalto rispetto al quale, comunque, i giudici di merito hanno incensurabilmente accertato che in capo all’appaltatore W.T. non sussisteva alcuna effettiva gestione di quel solo dipendente; il che riconosce la stessa ricorrente, quando in questa sede di legittimità, ammette che, in casi quali quello in esame, “L’appaltatore esercita l’organizzazione dell’appalto limitandosi di fatto a decidere il numero di risorse (ovvero di persone) da destinare allo specifico servizio da svolgere”.

20. Parimenti da disattendere è il secondo motivo.

21. Rileva il Collegio che la Corte distrettuale, dopo aver riportato il testo dell’art. 27, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 276/2003, aveva scritto: Nel caso di specie la disposizione non può operare perché: – Il licenziamento non è atto di gestione ma atto estintivo del rapporto e, a differenza dell’atto costitutivo dello stesso, non è espressamente indicato tra gli atti che “transitano” dal somministratore (nel nostro caso dall’appaltatore) all’effettivo utilizzatore, divenendo ad esso imputabili; – in ogni caso, il licenziamento del G. da parte di W.T. è intervenuto il 29.8.2014, non in corso di appalto (cessato il 31.12.2013); – il 29.8.2014 W.T. non aveva (più) il potere di licenziare il G. dato che, per effetto dell’illegittima somministrazione di lavoro da parte di imprenditore a ciò non autorizzato, non era più – sin dal luglio 2005 – il suo reale datore di lavoro; il licenziamento intimato da un soggetto a ciò non legittimato perché non era l’effettivo datore di lavoro è da considerarsi tamquam non esset e dunque del tutto inidoneo a produrre l’effetto di interrompere il rapporto di lavoro subordinato (cfr. Cass. S.U. 2517/1997 e numerose altre successive conformi).

22. Dunque plurime erano le ragioni per le quali i giudici di secondo grado avevano reputato inapplicabile al caso la citata norma, ritenendo perciò che la U. non potesse giovarsi del licenziamento intimato da W.T..

23. Ebbene, com’è agevole constatare, la ricorrente non ha utilmente impugnato in questa sede di legittimità la seconda di tali ragioni, indicata dalla Corte d’appello.

Essa, infatti, in disparte la sua tesi secondo la quale anche il licenziamento sarebbe da includere tra gli atti di gestione del rapporto, si limita a dedurre che: “Il fatto poi che, nel caso di specie, l’appalto controverso fosse cessato da alcuni mesi non fa altro che confermare che il rapporto di lavoro con U. non poteva essere ritenuto ancora in essere al momento della sentenza, posto che il lavoratore per molti mesi dopo detta cessazione era rimasto alle dipendenze di W., aveva proseguito a svolgere l’attività lavorativa per conto di tale compagine e dalla stessa aveva continuato a percepire il trattamento economico spettante”.

24. Osserva, allora, questa Corte che l’intero art. 27 d.lgs. n. 276/2003 è stato successivamente abrogato dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 81/2015. Peraltro, la previsione di cui al comma 2, secondo, periodo, dell’art. 27 cit. era stata praticamente riprodotta nel corpo del testo dell’art. 38 per l’appunto del d.lgs. n. 81/2015, che, sotto la rubrica “Somministrazione irregolare”, al comma 3, secondo periodo, recita: “Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione”, così reiterando la norma contestualmente abrogata salvo aggiungere, per due volte, l’alternativa “o ricevuti” circa tali atti del somministratore. Inoltre, e più di recente, l’art. 80 bis del d.l. n. 34/2020, conv., con modificazioni, dalla L. n. 77 del 2020, sotto la rubrica “Interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”, ha previsto che: “Il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento”.

Nel caso in esame sarebbe stato in ipotesi applicabile ratione temporis ai fatti di cui è processo l’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, anche tenendo conto che il già cit. art. 55 del d.lgs. n. 81 del 2015, al comma 3, aveva disposto che sino all’emanazione dei decreti richiamati dalle disposizioni dello stesso decreto legislativo, trovavano applicazione le regolamentazioni vigenti.

Né sarebbe indispensabile nella specie soffermarsi sulla questione se l’intervento di espressa interpretazione autentica di cui all’art. 80 bis su citato, riguardante il sopravvenuto art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015, possa essere riferibile anche al previgente e poi abrogato art. 27, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 276/2003.

Appare dirimente, infatti, il dato inconfutabile, considerato dalla Corte a quo, che il licenziamento del G. fu intimato quando il contratto di appalto intercorso tra la U. e la W.T. era ormai da diversi mesi cessato, sicché, anche a voler credere quel recesso come atto di gestione del rapporto lavorativo che legava la società somministratrice al G. (il che appare smentito dal richiamato intervento d’interpretazione autentica), esso non era stato compiuto “per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo”.

E tale rilievo, del tutto aderente al tenore letterale della disposizione, in ordine al quale la ricorrente non ha svolto alcun argomento critico, men che meno specifico, fa sì che della stessa non possa comunque giovarsi l’attuale ricorrente.

25. Inoltre, con specifico riferimento all’interpretazione dell’art. 27, comma 2, d.lgs. 276/2003 si osserva quanto segue.

Secondo taluni precedenti di questa Corte e, segnatamente, per Cass. n. 17969/2016 e, più di recente, Cass. n. 6668/2019, che richiama la precedente, se un contratto di appalto viene riqualificato come somministrazione irregolare di manodopera, gli atti di gestione compiuti dall’appaltatore illecito devono intendersi riferiti al soggetto che in concreto ha utilizzato la prestazione lavorativa e, conseguentemente, in caso di licenziamento intimato dall’appaltatore, l’impugnazione stragiudiziale dell’atto di recesso deve essere proposta nei confronti del committente che agisce di fatto come datore di lavoro, e non verso il somministratore. In particolare, per queste decisioni, riferite appunto all’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, deve “ritenersi che, sia per quel che riguarda la tipologia di lavoro, che viene ricondotto all’utilizzatore negli stessi termini in cui era stato voluto (costituito) e poi gestito dal somministratore, sia per quanto riguarda gli atti di gestione del rapporto, questi producono, per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento”. Si tratta, però, di precedenti anteriori all’intervento d’interpretazione autentica di cui sopra s’è detto. E ritiene il Collegio che ci si debba discostare dagli stessi.

In chiave d’esegesi evolutiva, si deve tener conto dell’intervento d’interpretazione autentica del legislatore, che ha valore retroattivo, sebbene specificamente riferito alla norma successiva, ma quasi identica. In ogni caso, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 27 parla di “Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto”, ma non anche di atti per la “estinzione del rapporto” stesso, né fa cenno al licenziamento o al recesso (del somministratore). Includere, quindi, il licenziamento negli atti per la “gestione” del rapporto sarebbe una forzatura della lettera della norma, sia perché la “gestione” in sé riguarda un rapporto ancora in corso, sia perché il testo specifica “per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo”, così lasciando sempre intendere la prosecuzione del lavoro “somministrato” in detto periodo, altrimenti la specificazione in inciso sarebbe priva di senso plausibile. Del resto, se la previsione in parte qua è volta a sancire le conseguenze della somministrazione irregolare a tutela del lavoratore, parrebbe contrario a tale ratio consentire che l’utilizzatore effettivo possa giovarsi del recesso del somministratore in danno del lavoratore.

Nel caso di specie, poi, come evidenziato dalla Corte territoriale, il licenziamento del somministratore irregolare è stato intimato dopo che l’appalto irregolare era già cessato.

26. Con l’unico motivo del suo ricorso incidentale, l’intimato lamenta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 92 cpc in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c.”, sostenendo che: “La compensazione delle spese di lite nei confronti della Unipol Sai Assicurazioni non trova alcuna motivazione esplicitata dalla Corte a fronte della soccombenza totale della stessa sul capo della sentenza di primo grado impugnata”.

27. La censura è priva di fondamento.

27.1. Come accennato in narrativa, anche il G. aveva autonomamente appellato la decisione di primo grado sotto diversi e non marginali profili, e la Corte di merito aveva integralmente respinto tale gravame (cfr., oltre che il dispositivo della sentenza di secondo grado, la sua motivazione alle pagg. 9-16 della stessa). Essendo stato reietto anche l’appello della U., si configurava, perciò, limpidamente un caso di “soccombenza reciproca” che, ai sensi dell’art. 92, comma secondo, c.p.c. ben poteva fondare la totale compensazione delle spese di secondo grado, pronunciata dalla Corte territoriale, che, quando ha così disposto “stante l’esito del giudizio”, alludeva appunto chiaramente alla reiezione di entrambi i contrapposti appelli come immediatamente prima motivata.

28. Stante la reciproca soccombenza delle parti in questa sede di legittimità, ma essendo all’evidenza molto più contenuta la soccombenza del controricorrente ricorrente incidentale, afferente solo alla reiezione della sua censura circa il regolamento delle spese del secondo grado, giusta l’art. 92, comma secondo, c.p.c., il Collegio ritiene congruo porre a carico della ricorrente principale la metà delle spese di questo giudizio di cassazione, come liquidate per intero in dispositivo, compensando quindi tra le parti la restante metà di tali spese.

29. Entrambe le parti contrapposte, però, sono tenute al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore del controricorrente e ricorrente incidentale, di metà delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per l’intero in € 200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, compensando la restante metà di dette spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Appalto non genuino e licenziamento giuridicamente inesistente
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