Licenziamento disciplinare senza preavviso di un medico dipendente per svolgimento di attività professionale in ambito privato non autorizzata. Ciò, anche mediante utilizzo delle prove atipiche.

Nota a Cass. (ord.) 25 luglio 2023, n. 22287

Roberta Stazi

Legittimo il licenziamento senza preavviso di un medico (dipendente dell’ASP di Trapani in servizio presso il pronto soccorso di Marsala) in esito al procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti per avere prestato attività libero professionale non autorizzata presso una clinica privata.

È quanto afferma la Corte di Cassazione (ord. 25 luglio 2023, n. 22287) in una vicenda in cui il procedimento disciplinare era stato sospeso in pendenza del processo penale cui il medico era stato sottoposto per connessi episodi di abuso d’ufficio (consistenti nell’avere agevolato accertamenti diagnostici su pazienti da avviare poi alla clinica privata per interventi di chirurgia estetica) e successivamente ripreso dopo la sentenza di primo grado del giudice penale.

Il ricorso verteva in particolare sulla “violazione e falsa applicazione di norme processuali per la prevalenza attribuita a prove atipiche rispetto a quelle acquisite nel contraddittorio tra le parti”. Il medico deduceva infatti che la Corte d’appello aveva tenuto conto anche delle “sommarie dichiarazioni testimoniali rese dai testi nell’ambito del procedimento penale, i cui atti sono stati prodotti in giudizio, e che anzi a quelle fonti di prova atipica sia stata data prevalenza rispetto alle dichiarazioni, in parte diverse, rese dai medesimi testi nel corso dell’assunzione nel presente processo civile”.

I giudici hanno ritenuto infondato il motivo sul presupposto che l’utilizzo delle prove atipiche (nella fattispecie, documenti contenenti le dichiarazioni delle medesime persone poi assunte come testimoni) non è vietato dalla legge processuale (v. Cass. n. 9507/2023). Il materiale probatorio atipico regolarmente acquisito al processo, infatti, “è prudentemente apprezzabile dal giudice, nell’esercizio del generale dovere posto dall’art. 116 c.p.c.”.

La stessa prova testimoniale, prova tipica prevista e disciplinata dalla legge, “rientra tra le prove soggette al prudente apprezzamento del giudice, non avendo valore di prova legale. Al di fuori dalle eccezioni in cui la legge attribuisce valore legale (positivo o negativo) alle prove, non esiste alcuna gerarchia tra le fonti di prova, se non quella dettata al giudice dalla prudenza, ovverosia dalla ragionevolezza, nella valutazione di tutte le prove disponibili” (Cass. nn. 9245/2007; 18644/2011).

È possibile configurare una prevalenza della prova tipica rispetto a quelle atipiche solo nella fase di decisione sull’ammissione delle prove, “nel senso che sarebbe censurabile il provvedimento del giudice che negasse ingresso alle richieste prove tipiche, ritenendo sufficiente e preclusiva la produzione di prove atipiche relative agli stessi fatti”.

Il che, nel caso in esame, non si è verificato perché le prove testimoniali sono state ammesse, assunte e valutate nelle decisioni dei giudici di merito (il medico prendeva parte alle suture finali e, quindi, non era un “mero osservatore”, ma un medico chirurgo nell’esercizio della sua professione).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 luglio 2023, n. 22287

Fatti di causa

L’attuale ricorrente, medico dipendente dell’ASP di Trapani in servizio presso il pronto soccorso di Marsala, venne licenziato senza preavviso in esito al procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti per avere prestato attività libero professionale non autorizzata presso una clinica privata. Il procedimento disciplinare era stato sospeso in pendenza del processo penale cui il medico era allora sottoposto per connessi episodi di abuso d’ufficio (consistenti nell’avere agevolato accertamenti diagnostici su pazienti da avviare poi alla clinica privata per interventi di chirurgia estetica) e venne ripreso dopo la sentenza di primo grado del giudice penale.

Il medico impugnò il licenziamento davanti al Tribunale di Marsala, sia per motivi di rito (decadenza e intempestività dell’azione disciplinare), sia per motivi di merito (insussistenza dell’addebito). Il Tribunale respinse la domanda con sentenza che venne impugnata davanti alla Corte d’Appello di Palermo, la quale a sua volta respinse l’appello.

Contro tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. L’Azienda Sanitaria si è difesa con controricorso e ha anche depositato memoria nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380-bis.1 c.p.c.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo, il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2697 c.c.; 2094 c.c.; 2222 c.c.) per l’erroneo apprezzamento delle risultanze istruttorie in ordine all’accertata incompatibilità assoluta ex art. 4, comma 7, legge n. 412/1991 in violazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge n. 662/1996».

Si attribuisce alla Corte d’appello «un vero e proprio travisamento» delle risultanze istruttorie con riferimento all’accertato svolgimento di attività professionale retribuita in una clinica privata.

1.1. Il motivo è inammissibile, perché – sebbene formalmente intitolato con riguardo all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – in realtà è volto a provocare un riesame del fatto da parte della Corte di Cassazione.

1.1.1. Il riferimento alle norme di diritto sostanziale che si assumono violate è chiaramente un fuor d’opera, perché non viene censurata l’applicazione o l’interpretazione di quelle norme, limitandosi il ricorrente a sostenere che la decisione della corte d’appello «si fonda su un’errata e fuorviante lettura e apprezzamento delle risultanze istruttorie».

Sicuramente la Corte territoriale non può avere violato l’art. 2697 c.c., del quale non ha fatto applicazione, avendo ritenuto positivamente accertato il fatto rilevante, ovverosia lo svolgimento di attività professionale in ambito privato non autorizzata. Le norme sulla distribuzione dell’onere della prova trovano applicazione, invece, nel caso il cui, all’esito dell’istruttoria, il fatto rilevante rimanga incerto e il giudice debba decidere la causa in senso sfavorevole alla parte su cui ricadeva l’onere di provarlo (ex multis, Cass. n. 17313/2020).

Quanto alle ulteriori disposizioni di legge menzionate nella rubrica del motivo (artt. 2094 e 2222 c.c.; art. 4, comma 7, legge n. 412 del 1991; art. 1, commi 60 e 61, della legge n. 662 del 1996), di esse non viene prospettata in alcun modo una diversa interpretazione rispetto a quella fatta propria nella sentenza impugnata.

1.1.2. Il vizio censurato nemmeno integra gli estremi del travisamento della prova, «che implica una constatazione o un accertamento che l’informazione probatoria utilizzata in sentenza è contraddetta da uno specifico atto processuale» (Cass. n. 3796/2020; conf. Cass. n. 1163/2020) e che comunque non sarebbe censurabile in un caso, come quello qui in esame, di doppia decisione conforme dei giudici di merito (Cass. n. 7724/2020).

Infatti, nel ricorso non si prospetta che la Corte d’appello abbia utilizzato una prova che «è contraddetta da uno specifico atto processuale», ma si sostiene semplicemente che «l’intero compendio istruttorio non ha fornito prova sul fatto che il ricorrente venisse pagato per la sua presenza in sala operatoria». E, a sostegno dell’assunto, si riporta per intero il contenuto delle deposizioni testimoniali. In altri termini, quello che si pretende è sempre un diverso apprezzamento nel merito delle complessive risultanze istruttorie

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., «violazione e falsa applicazione di norme processuali per la prevalenza attribuita a prove atipiche rispetto a quelle acquisite nel contraddittorio tra le parti».

Si deduce che Corte d’appello abbia tenuto conto anche delle sommarie dichiarazioni testimoniali rese dai testi nell’ambito del procedimento penale, i cui atti sono stati prodotti in giudizio, e che anzi a quelle fonti di prova atipica sia stata data prevalenza rispetto alle dichiarazioni, in parte diverse, rese dai medesimi testi nel corso dell’assunzione nel presente processo civile.

2.1. Il motivo è infondato.

L’utilizzo delle prove atipiche (in questo caso, dei documenti contenenti le dichiarazioni a SIT delle medesime persone poi assunte come testimoni) non è vietato dalla legge processuale (v., da ultimo, Cass. n. 9507/2023) ed è significativo il fatto che nessuna specifica disposizione di legge viene indicata come norma violata nella rubrica del motivo. E non c’è dubbio che il materiale probatorio atipico regolarmente acquisito al processo – e in tal modo sottoposto al contraddittorio (art. 87 disp. att. c.p.c.) – è prudentemente apprezzabile dal giudice, nell’esercizio del generale dovere posto dall’art. 116 c.p.c.

Anche la prova testimoniale, prova tipica in quanto prevista e disciplinata dalla legge, rientra tra le prove soggette al prudente apprezzamento del giudice, non avendo valore di prova legale. Al di fuori dalle eccezioni in cui la legge attribuisce valore legale (positivo o negativo) alle prove, non esiste alcuna gerarchia tra le fonti di prova, se non quella dettata al giudice dalla prudenza, ovverosia dalla ragionevolezza, nella valutazione di tutte le prove disponibili (Cass. nn. 9245/2007; 18644/2011).

Una prevalenza della prova tipica rispetto alle prove atipiche potrebbe operare soltanto in fase di decisione sull’ammissione delle prove, nel senso che sarebbe censurabile il provvedimento del giudice che negasse ingresso alle richieste prove tipiche, ritenendo sufficiente e preclusiva la produzione di prove atipiche relative agli stessi fatti.

Nel caso di specie ciò non è avvenuto, perché le prove testimoniali sono state ammesse, assunte e valutate nelle decisioni dei giudici di merito. In particolare, la corte d’appello – nell’esercizio del dovere di prudente apprezzamento delle prove – ha ravvisato una parziale contraddizione tra le dichiarazioni che quei testi avevano reso nel procedimento penale e le dichiarazioni rese dai medesimi testi nel processo civile. Messe a confronto le diverse dichiarazioni – tenuto conto del fatto pacifico che il ricorrente era presente in sala operatoria, nonché del fatto, confermato anche dalle prove testimoniali tipiche, che egli «prendeva parte alle suture finali» – ha ritenuto di poter escludere che il suo ruolo nella sala operatoria fosse quello di un «mero osservatore», traendone la conclusione che egli era presente quale medico chirurgo nell’esercizio della sua professione.

La Corte d’appello non ha quindi violato alcuna norma, né alcun principio di diritto sull’ammissione e sulla valutazione delle prove.

3. Il terzo motivo denuncia, con riguardo all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., «omesso esame e motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in ordine al mancato ottemperamento dell’ordine di esibizione del fascicolo del procedimento disciplinare». Si contesta al giudice d’appello di non avere tenuto conto, nel motivare la sua decisione, del fatto che l’Azienda Sanitaria avrebbe ottemperato solo in parte all’ordine di produzione in giudizio del fascicolo relativo al procedimento disciplinare.

3.1. Il motivo, in quanto dichiaratamente riferito all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è inammissibile, perché – come si è già rilevato sopra – nel presente processo il giudice di primo grado e il giudice d’appello hanno valutato il fatto e deciso la causa in modo conforme (art. 348-ter, commi 4 e 5, c.p.c.; commi oggi trasfusi nell’art. 360, comma 4, c.p.c.).

In ogni caso, quella denunciata potrebbe essere, a tutto concedere, una insufficiente motivazione sull’accertamento del fatto (non dandosi conto del mancato utilizzo dell’argomento di prova desumibile dalla parziale inottemperanza all’ordine), che non è vizio censurabile con il ricorso per cassazione in base all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come novellato dal decreto legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012.

4. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

5. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza del presupposto per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-bis, del medesimo d.P.R.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di lite del giudizio di legittimità, liquidate in € 5.000 per compensi ed € 200 per esborsi, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza del presupposto per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-bis, del medesimo d.P.R..

Licenziamento in tronco di dirigente medico (Cass. n. 22287/2023)
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