Il provvedimento disciplinare può essere applicato anche prima del termine di cui all’art. 7 Stat. Lav. se il lavoratore si è già giustificato. Lo stesso tuttavia può richiedere un supplemento di difesa se non è stato in grado di confutare adeguatamente l’addebito.

Nota a Cass. 1° agosto 2023, n. 23420

Flavia Durval

È possibile irrogare la sanzione disciplinare anche prima della scadenza del termine previsto dall’art. 7, co. 5,  Stat. Lav. qualora il lavoratore abbia esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive (così, Cass. SU. n. 6900/2003).

Allorché, nell’ambito del procedimento di contestazione disciplinare di cui al citato art. 7, il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, richieda un supplemento di difesa, (anche ove la medesima si sia svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte), sussiste un obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del dipendente soltanto ove vi siano “esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge”.

Pertanto, “la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro” (Cass. n. 488/2005).

È quanto afferma la Corte di Cassazione 1° agosto 2023, n 23420, in un caso di licenziamento disciplinare determinato dalla consegna, da parte del lavoratore, di articoli di magazzino a terzi senza contestuale scarico ed emissione dello scontrino e senza esazione del prezzo.

Al riguardo, i giudici precisano che tale condotta equivale “ontologicamente ed indiscutibilmente, ad una appropriazione”, non rilevando il mero profilo quantitativo dell’ammanco; e che la mancanza del lavoratore appare di gravità tale da “far venir meno il rapporto fiduciario, non consentendo di riporre alcun affidamento relativamente al futuro adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro”. L’ appropriazione di beni aziendali costituisce infatti un comportamento contrario al minimo etico (immediatamente percepibile dal lavoratore), “la cui realizzazione consente di prescindere dalla affissione del codice disciplinare”.

La decisione si pone in linea con il costante indirizzo di legittimità secondo cui ai fini, della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (v., fra tante, Cass. n. 12321/2022 e Cass. n. 19588/2021).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 agosto 2023, n. 23420

Lavoro – Licenziamento disciplinare – Ammanco di merce – Raddoppio del contributo unificato – Lettera di contestazione – Sospensione in via cautelare dal lavoro – Diritto di difesa – Assoluzione in sede penale – Rigetto

Fatti di causa

1.Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Trieste rigettava l’appello che N. S. aveva proposto contro la sentenza del Tribunale di Udine n. 93/2018, che aveva respinto il suo ricorso d’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogatogli dalla T. s.p.a. (poi S. s.p.a. e infine A. s.p.a.) in data 1.8.2016, e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del secondo grado, come liquidate, dando atto dei presupposti per il c.d. raddoppio del contributo unificato.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale riepilogava anzitutto la vicenda processuale, all’origine della quale vi era una contestazione disciplinare rivolta al lavoratore, all’esito di un controllo sulle rimanenze del magazzino di Codroipo, cui egli era addetto, e con la quale gli era stato contestato di aver dato causa ad un notevole ammanco di merce “di circa 70.000 euro più IVA”. Respingeva, poi, il motivo d’appello, con il quale il N. lamentava che il Tribunale aveva errato nel non considerare la sospensione dal servizio comunicata con la lettera di contestazione del 6 luglio 2016 come un provvedimento disciplinare definitivo. Disattendeva, altresì, il motivo con il quale l’allora appellante aveva nuovamente eccepito che non avrebbe avuto la possibilità di dare le proprie giustificazioni, rilevando che con la predetta lettera di contestazione l’azienda gli aveva inviato un elenco di materiali della consistenza di 320 pagine relativo a 7680 articoli inventariati e che di conseguenza il termine di cinque giorni concessogli risultava insufficiente. Rigettava anche il mezzo con il quale il lavoratore aveva eccepito che il primo giudice avrebbe travisato le motivazioni del licenziamento. Riteneva infine la Corte che una appropriazione di beni aziendali di valore, comunque, non irrisorio rappresenti un comportamento contrario al minimo etico, la cui realizzazione consente di prescindere dalla affissione del codice disciplinare.

3. Avverso tale decisione N. S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

4. Ha resistito l’intimata con controricorso e successiva memoria.

5. Il P.G., con nota scritta, ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 300/1970 (art. 360 n. 3 c.p.c.) e omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)”. Lamenta che la Corte d’appello non ha neppure tenuto conto (non parlandone) del fatto che il N. contestualmente alla comunicazione dell’addebito era stato sospeso dal lavoro per dieci giorni. Secondo lo stesso, quindi, non si comprendeva come il N. avrebbe potuto verificare l’esistenza o meno dei 7680 articoli elencati non potendo recarsi all’interno del magazzino dove tale merce si trovava.

2. Con il secondo motivo denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della legge 604/1966 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”. Si duole che la Corte territoriale, nel respingere il motivo d’appello con il quale egli aveva eccepito che il primo Giudice aveva travisato le motivazioni del licenziamento, aveva ignorato il disposto di cui alla legge 15.7.1966, n. 604 in materia di “norme sui licenziamenti individuali” che stabilisce all’art. 2 quanto segue: 1) “il datore di lavoro … deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro; 2) La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato; 3) il licenziamento intimato senza l’osservanza dei commi 1 e 2 è inefficace”. Deduce, allora, che la citata legge non consente presunzioni, e che nella fattispecie non vi è corrispondenza tra contestato e sanzionato.

3. Con un terzo motivo denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 della legge 300/70 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”. Sostiene che, circa la mancata affissione in azienda del codice disciplinare, la Corte d’appello aveva dichiarato che vendere la merce senza pretendere l’immediato pagamento del prezzo equivale ad un furto o ad un’appropriazione che ha avuto rilevanza penale, e da qui la dichiarazione che l’affissione del codice disciplinare non era necessaria, affermazione che il ricorrente giudica errata.

4. Con un quarto motivo denuncia “Violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 5 della legge 604 del 1966 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”. Secondo il ricorrente, la società resistente non aveva provato che il ricorrente abbia compiuto il fatto addebitatogli, ossia che abbia provocato un ammanco di € 70.000,00 più IVA. Inoltre, egli aveva fornito una prova contraria a quella che avrebbe dovuto essere data dalla società, perché aveva prodotto la sentenza emessa dal Tribunale di Udine in sede penale in data 4.1.2019 n. 2269/2018 e depositata nel corso del giudizio di appello (in data 11.4.2019, alle ore 11,45) essendo atto sopravvenuto; sentenza che lo aveva assolto per non aver commesso il fatto, in relazione all’asserito furto attribuito allo stesso.

5. Con un quinto motivo denuncia: “Omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)”. Deduce che la sentenza impugnata aveva omesso ogni esame del fatto decisivo accertato nella sentenza del Tribunale penale di Udine n. 2269/18 che aveva mandato il ricorrente prosciolto dal fatto contestatogli disciplinarmente.

6. Il primo motivo è infondato.

6.1. Esso è inammissibile per la parte in cui fa riferimento al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.

Infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ammette la denuncia innanzi alla S.C. di un vizio attinente all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza provenga dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, con la necessaria conseguenza che è onere del ricorrente, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6) e 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., indicare il fatto storico, il dato da cui esso risulti esistente, il come ed il quando esso abbia formato oggetto di discussione tra le parti e la sua decisività (così Cass. civ., sez. un., 30.7.2021, n. 21973).

Ebbene, il fatto asseritamente decisivo di cui la Corte territoriale avrebbe omesso l’esame è, secondo l’impugnante, il fatto che contestualmente alla comunicazione dell’addebito disciplinare egli era stato sospeso in via cautelare dal lavoro per dieci giorni.

Il ricorrente, però, deduce in maniera sommaria perché detta circostanza sarebbe stata decisiva per il giudizio; inoltre, non è esatto che la Corte distrettuale neppure avrebbe parlato di tale evenienza, visto che, come riferito in narrativa, la stessa l’aveva senz’altro considerata nel respingere il primo motivo d’appello che si fondava sull’assunto che appunto tale sospensione fosse in realtà un provvedimento disciplinare definitivo.

Certamente, poi, il ricorrente neppure deduce come e quando la medesima circostanza sarebbe stata dibattuta tra le parti al diverso fine di vagliare la congruità del tempo avuto a disposizione per difendersi dalla contestazione disciplinare.

6.2. In ogni caso, la censura in parte qua è inammissibile per ulteriore ragione.

Occorre, infatti, ricordare che, per questa Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c. (cfr. l’attuale comma quarto dell’art. 360 c.p.c.), con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso Cass. civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724).

È stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’articolo 348-ter del c.p.c., il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. III; 3.11.2021, n. 31312; id., sez. III, 9.11.2020, n. 24974).

Nel caso in esame, però, a fronte di decisioni di primo e di secondo grado tra loro senz’altro conformi, neppure ha allegato il ricorrente per cassazione se e in che punti le rispettive rationes decidendi di tali pronunce fossero almeno in parte differenti.

7. Per la parte in cui il primo motivo si basa sull’asserita violazione o falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300/1970, esso è privo di fondamento.

La Corte di merito, infatti, a riguardo ha considerato che: “non può dubitarsi della astratta congruità del termine, già valutata ex ante da parte del legislatore all’art. 7, comma 5, della legge n. 300/1970, nella fattispecie va altresì evidenziato come l’appellante abbia – da un lato – del tutto omesso di allegare quale attività avrebbe dovuto compiere al fine di rendere i chiarimenti richiesti, sia quanto tempo sarebbe stato eventualmente necessario e – dall’altro – come neppure abbia evidenziato per quale ragione non aveva richiesto una motivata proroga del termine per le giustificazioni”.

E tali considerazioni sono conformi alla giurisprudenza di legittimità a riguardo.

Rilevato che lo stesso ricorrente riconosce di essere stato ascoltato a sua difesa in data 27.7.2016 con assistenza sindacale (cfr. pag. 3 del ricorso per cassazione), in termini generali, l’art. 7, comma 5, L. n. 300 del 1970 non prevede, in favore del lavoratore, un prolungamento del termine a difesa in ragione della maggiore complessità dell’attività difensiva, sicché non può incidere sulla validità del recesso la mancata concessione al lavoratore di un termine difensivo più lungo di quello stabilito dalla suddetta norma (così Cass. civ., sez. lav., 30.8.2007, n. 18288).

Peraltro, le Sezioni Unite di questa Corte avevano insegnato che il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine suddetto allorché il lavoratore abbia esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive (in tal senso Cass. civ., sez. un., 7.5.2003, n. 6900).

Inoltre, questa Corte ha specificato che, nell’ambito del procedimento di contestazione disciplinare, regolamentato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, richieda un supplemento di difesa, anche se la stessa si sia svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (così Cass. civ., sez. lav., 13.1.2005, n. 488).

Ebbene, nella specie il ricorrente neppure allega di aver chiesto il differimento della propria audizione difensiva in sede disciplinare, oppure, dopo la stessa audizione comunque di fatto avvenuta, di aver chiesto un supplemento di difesa, con istanza fondata nei suddetti termini; sicché tutte le considerazioni svolte in questa sede, compresa quella della concomitante sospensione cautelare dal lavoro durante il termine a difesa (asseritamente pretermessa e in questa sede inammissibilmente fatta valere), sono giuridicamente ininfluenti.

8. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.

8.1. La Corte d’appello aveva dato conto che l’allora appellante aveva <eccepito che il primo giudice avrebbe travisato le motivazioni del licenziamento, poiché questo non era stato intimato, come ritenuto dal Tribunale, per aver venduto merce a due clienti per 4.000 euro senza richiedere il pagamento del relativo prezzo, ma per la mancata giustificazione di “un ammanco di materiale per un ammanco di circa 70,000 euro più IVA, di cui si allega l’elenco”>, e che, sempre secondo lo stesso, <L’impugnata sentenza, invece, non aveva rilevato né che nella lettera di contestazione era stato addebitato tale cospicuo ammanco, né che nel comunicare il licenziamento l’Azienda aveva evidenziato “l’infondatezza delle giustificazioni da lei fornite e comunque l’irrilevanza dell’asserito rifiuto di pagamento da parte di due clienti”>.

8.2. Indi, la stessa Corte ha scritto che: “Tuttavia anche questo motivo è infondato, atteso che tale precisazione non consente di ritenere che la parte datoriale avesse inteso escludere la colpevole violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza richiesti dalla natura delle prestazioni assegnategli, potendo da essa desumersi unicamente che la responsabilità del prestatore non poteva ritenersi eliminata per effetto della concomitante condotta dei due clienti.

La consegna di articoli di magazzino a terzi senza contestuale scarico ed emissione dello scontrino e senza esazione del prezzo – comportamento invero risultante dalle stesse ammissioni del lavoratore – equivale del resto, ontologicamente ed indiscutibilmente, ad una appropriazione, sicché non può ravvisarsi alcun travisamento in ordine alla motivazione del licenziamento, né può ritenersi rilevante, sul piano della giusta causa, il mero profilo quantitativo dell’ammanco, essendo – ciò malgrado – la mancanza del lavoratore comunque di gravità tale da far venir meno il rapporto fiduciario, non consentendo di riporre alcun affidamento relativamente al futuro adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro”.

8.3. Con tali considerazioni, quindi, la Corte triestina, da un lato, ha escluso che il Tribunale avesse equivocato le motivazioni del licenziamento, e, dall’altro, non ha presunto alcunché dal punto della nota che comunicava il licenziamento in cui la datrice di lavoro aveva evidenziato “l’infondatezza delle giustificazioni da lei fornite e comunque l’irrilevanza dell’asserito rifiuto di pagamento da parte di due clienti”, avendo piuttosto ritenuto che da tale precisazione non si traeva che la datrice avesse semplicemente espresso “che la responsabilità del prestatore non poteva ritenersi eliminata per effetto della concomitante condotta dei due clienti”.

8.4. Nessuna violazione del principio dell’immutabilità dei motivi della contestazione disciplinare (o di corrispondenza tra contestato e sanzionato) è, quindi, riscontrabile nel recesso per giusta causa datoriale; e men che meno possono accusarsi i giudici di merito di non aver erroneamente riscontrato una tale violazione.

9. Pure è infondato il terzo motivo.

9.1. Esso presenta profili d’inammissibilità per la parte in cui si attribuisce alla Corte di appello di avere nella sua sentenza, a pag. 8, “dichiarato che vendere la merce senza pretendere l’immediato pagamento del prezzo equivale ad un furto o ad una appropriazione che ha avuto rilevanza penale”.

Invero, mai la Corte territoriale nel testo dell’intera sua decisione (non solo alla pag. 8 richiamata dal ricorrente) ha scritto che la condotta descritta equivalesse ad un “furto” e nemmeno, per la verità, ha specificato che la stessa condotta avesse “avuto rilevanza penale”.

A riguardo, perciò, il motivo in esame difetta di specificità ex art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c. in termini di aderenza a quanto effettivamente considerato nella motivazione dell’impugnata sentenza.

9.2. La Corte di merito, piuttosto, dopo le considerazioni riportate in precedenza (nel § 8.2. di questa motivazione), ha scritto: “Non può infine dubitarsi del fatto che una appropriazione di beni aziendali di valore, comunque, non irrisorio rappresenti un comportamento contrario al minimo etico, la cui realizzazione consente di prescindere dalla affissione del codice disciplinare”.

9.3. E la conclusione cui è così pervenuta la Corte d’appello è senz’altro conforme ad un costante indirizzo di legittimità, secondo cui, ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (così, ex plurimis, tra le più recenti, Cass. civ., sez. lav., 14.4.2022, n. 12321; id., sez. lav., 9.7.2021, n. 19588, che declina il medesimo principio nelle ipotesi di condotta contraria al c.d. minimo etico, ossia quando la condotta addebitata sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito).

10. Inammissibile è il quinto motivo.

10.1. In questo caso, come emerge da quello che espone il ricorrente nel precedente quarto motivo, quale fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame è dedotta la circostanza della produzione in secondo grado di una sentenza penale di assoluzione, sopravvenuta rispetto all’introduzione dell’appello.

10.2. Pertanto, l’inammissibilità di tale motivo del ricorso per cassazione discende, non dalla preclusione di cui al combinato disposto dei commi quarto e quinto dell’art. 348 ter c.p.c., bensì dai principi già richiamati al § 6.1. di questa motivazione.

Per vero, il ricorrente assume anzitutto in modo non puntuale la decisività della suddetta circostanza, perché nemmeno in questa sede ha dedotto: che la sentenza di assoluzione in primo grado fosse divenuta irrevocabile prima dell’emanazione della sentenza qui impugnata; che nel relativo procedimento penale avesse assunto la qualità di parte civile la società datrice di lavoro (il che, nel caso di giudicato penale di assoluzione, avrebbe potuto rendere operante la previsione di cui all’art. 654 c.p.p. in questa sede civile). Peraltro, lo stesso ricorrente per cassazione deduce che l’imputazione ascrittagli in sede penale riguardava un furto di beni “aventi un valore complessivo di € 69.565,48 che asportava dal magazzino così sottraendoli alla società datrice di lavoro”, mentre, come già evidenziato in precedenza, i fatti contestatigli a livello disciplinare, non solo non erano qualificati in chiave di furto, ma riguardavano ammanchi di merce di circa € 70.000,00, che solo per la parte in cui il lavoratore aveva ammesso e nel contempo giustificato nei termini che si sono visti la Corte territoriale ha descritto come una sorta di appropriazione indebita per distrazione in favore di terzi.

Occorre, soprattutto, sottolineare, sempre in punto di decisività della circostanza in questione, che tutti i motivi d’appello, che il ricorrente non pone in discussione nei termini riferiti dalla Corte territoriale, non riguardavano l’insussistenza dei fatti contestati in sede disciplinare.

Certamente, infine, il ricorrente neanche deduce come e quando la sua sopravvenuta assoluzione in sede penale abbia formato oggetto di discussione tra le parti in grado d’appello, una volta prodotta durante lo stesso grado la relativa sentenza.

11. Infine, è infondato il quarto motivo di ricorso, che concerne sempre la circostanza dell’assoluzione di cui alla sentenza del Tribunale penale di Udine n. 2269/2018.

11.1. Quanto, infatti, alla violazione dell’art. 2697 c.c., pure denunciata con tale censura, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, essa si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito. Inoltre, il ricorrente per cassazione che deduca la violazione dell’articolo 2697 del codice civile, per avere il giudice di merito ritenuto sussistente un fatto senza che la parte gravata dall’onere della relativa prova l’abbia assolto, deve necessariamente evidenziare che quel fatto era stato oggetto di contestazione ed indicare se e quando, nel corso dello svolgimento processuale, detta contestazione era stata sollevata (così, ex plurimis, di recente, Cass. civ., sez. I, 12/05/2022, n. 15256).

11.2. Orbene, nessuna inversione degli oneri probatori, anche rispetto al disposto di cui all’art. 5 L. n. 604/1966, è dato riscontrare nella decisione gravata circa la sussistenza dei fatti contestati.

Tanto per la ragione che, come già posto in luce nell’esaminare il quinto motivo di ricorso, i motivi di gravame non riguardavano questo aspetto.

Peraltro, la Corte territoriale aveva riferito che già nel ricorso introduttivo di primo grado l’attore, “quanto alle ammissioni effettuate in sede di audizione difensiva, aveva invece precisato di aver riferito unicamente di essersi fidato di taluni clienti, dando loro a credito merce per circa 4.000 euro, constatando solo dopo di essere stato ingannato” (così a pag. 4 della sua sentenza) e, come pure già considerato, aveva reputato il comportamento tenuto “risultante dalle stesse ammissioni del lavoratore” (cfr. pag. 8 della stessa).

In tale contesto, allora, la deduzione in questa sede di legittimità della prova contraria che il ricorrente assume di aver fornito in appello a mezzo della ridetta sentenza penale di primo grado risulta del tutto estranea alle previsioni degli artt. 2697 c.c. e 5 L. n. 604/1966, asseritamente violate, e, in disparte la sua estraneità ai motivi d’appello, se ancora rilevante, riguarderebbe il terreno dell’apprezzamento probatorio, riservato ai giudici di merito.

Infatti, è pacifico che sono riservati al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (così, ad es., Cass. civ., sez. II, 22.2.2022, n. 5732).

12. Il ricorrente, pertanto, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.A.P. come per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Licenziamento disciplinare per ammanco di merce
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