La validità delle “intese” collettive stipulate a livello aziendale o territoriale è condizionata dalla scelta dei soggetti stipulanti e dalle materie disciplinate. Sicché, laddove difettino i requisiti prescritti, non si applica l’art. 8, co. 1, 2, 2-bis, D.L. n. 138/2011, conv., con mod., dalla L. n.148/2011.

Nota a Cass. 2 ottobre 2023, n. 27806

Flavia Durval

“La validità delle intese collettive stipulate a livello aziendale o territoriale, onde consentire la deroga alle norme di legge e di contratto collettivo con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, è sottoposta alla garanzia della sussistenza di una serie di condizioni” (ai sensi dell’art. 8, co. 1, 2, 2-bis, D.L. n. 138/2011, conv., con mod., dalla L. n.148/2011 – rubrica “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”-), quali:

“a) occorre che l’accordo aziendale sia sottoscritto «da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda»;

b) è necessario che tali «specifiche intese» – ossia gli accordi aziendali – siano «sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali»;

c) inoltre, l’accordo – nel perseguire un interesse collettivo della comunità dei lavoratori in azienda – deve risultare alternativamente finalizzato – secondo la tipizzazione del medesimo art. 8, co. 1 – «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività»;

d) infine, occorre che l’accordo riguardi «la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione» con riferimento a specifici settori elencati dall’art. 8, co. 2. Con l’espressa esclusione della materia dei licenziamenti discriminatori, l’accordo può riguardare: gli impianti audiovisivi e la introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del personale; i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell’orario di lavoro e le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro”.

È quanto chiarisce la Corte di Cassazione (2 ottobre 2023, n. 27806), in relazione ad un ricorso (accolto dalla Corte di appello di Milano) volto a far dichiarare l’illegittimità della riduzione dell’orario di lavoro disposta unilateralmente dalla società, con condanna della società a ripristinare l’orario di lavoro ordinario e al pagamento della somma di euro 3.951,71 calcolata per le conseguenti differenze retributive maturate, oltre accessori e spese. Tale riduzione era stata concordata in seguito ad un accordo aziendale (in relazione al quale il ricorrente manifestava il proprio dissenso)  tra la società e l’associazione sindacale UGL-A con il quale, in considerazione della situazione di crisi attraversata dall’azienda, veniva concordata la trasformazione dell’orario di lavoro dei lavoratori con contratto a regime ordinario, in part time di 32 ore settimanali.

La Cassazione precisa che la norma in questione ha carattere eccezionale e pertanto non si applica oltre i casi e i tempi dalla stessa considerati (art. disp. legge in gen.) “in ragione della prevista possibilità che il contratto collettivo aziendale di prossimità deroghi alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 dell’art. 8 e alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, pur sempre nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto europeo e dalle convenzioni internazionali sul lavoro”.

Solo quando ricorrano le condizioni previste dal citato art. 8 si può affermare che si tratta di un contratto collettivo (c.d. di prossimità) dotato di efficacia generale e non di un contratto aziendale ordinario provvisto di efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda, ma che non supera l’eventuale espresso dissenso di associazioni sindacali o lavoratori (in questo senso, v. Cass. n. 33131/2021 e Cass. n. 16917/2021, in q. sito con nota di M.N. BETTINI).

In effetti, osservano i giudici, l’efficacia generale degli accordi aziendali è solo tendenziale nel senso che sebbene gli interessi collettivi della comunità di lavoro nell’azienda richiedano una disciplina unitaria, essi trovano un limite nell’espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali. Tale limite è “coessenziale alla riconducibilità anche di tali accordi, non diversamente da quelli nazionali o territoriali, a un sistema di contrattazione collettiva fondato su principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale – non già legale o istituzionale – delle organizzazioni sindacali” (così,  l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità: fra le altre, v. Cass. n. 31201/2021 e Cass. n. 27115/2017, in q. sito con nota di M.N. BETTINI).

L’accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell’accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell’accordo aziendale, ma incide sull’efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere “generale”.

Questa interpretazione, peraltro, appare corretta sotto il profilo della costituzionalità, in quanto il legislatore può discrezionalmente subordinare la deroga a disposizioni poste a protezione dei lavoratori ad un accordo che sia stipulato da associazioni dotate di adeguata rappresentatività. E tale deroga è efficace anche nei confronti di chi non aderisce alle organizzazioni sindacali stipulanti.

In tema, v. P. PIZZUTI, Contratto aziendale e dissenso individuale, DRI, 2019, 567, e, in q. sito, S. GIOIA, Il punto sull’applicazione erga omnes del contratto collettivo aziendale.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 ottobre 2023, n. 27806

Lavoro – Riduzione dell’orario di lavoro – Crisi aziendale – Accordo aziendale – Trasformazione dell’orario di lavoro in part time – Validità delle “intese” collettive stipulate a livello aziendale o territoriale – Espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali – Rigetto

Fatti di causa

1.La Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado, con cui era stato accolto parzialmente il ricorso proposto da V.F. nei confronti della (…) ATS S.r.l. volto a far dichiarare l’illegittimità della riduzione dell’orario di lavoro disposta unilateralmente dalla società, con condanna della società a ripristinare l’orario di lavoro ordinario e al pagamento della somma di euro 3.951,71 calcolata per le conseguenti differenze retributive maturate sino al maggio 2016, oltre accessori e spese.

2. La Corte – in sintesi e per quanto qui ancora rileva – ha, innanzitutto, considerato che “in data 29/07/2015 veniva stipulato un accordo aziendale tra la società e l’associazione sindacale UGL-A col quale, in considerazione della situazione di crisi attraversata dall’azienda, veniva concordata la trasformazione dell’orario di lavoro dei lavoratori con contratto a regime ordinario, in part time di 32 ore settimanali con decorrenza dal 01/08/15 e per un periodo di 24 mesi” e che “il F. manifestava il proprio dissenso rispetto all’accordo aziendale stipulato”.

La Corte ha, quindi, respinto il motivo di gravame della società che invocava l’applicabilità dell’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011, ritenendo che non risultassero “adeguatamente provati il requisito di rappresentatività e il criterio maggioritario delle rappresentanze sindacali che hanno sottoscritto l’accordo, all’atto della stipula dello stesso, risultando irrilevante la postuma manifestazione da parte dei lavoratori, trattandosi di indefettibili requisiti di natura formale non surrogabili attraverso la dimostrazione dell’adesione maggioritaria dei lavoratori al contenuto dell’accordo”. Escluso, dunque, che l’accordo aziendale in contesa potesse “qualificarsi alla stregua di un accordo gestionale di prossimità”, la Corte territoriale ha ritenuto operante l’art. 5 del d. lgs. n. 61 del 2000, in base al quale la trasformazione dell’orario di lavoro deve necessariamente transitare per un accordo delle parti del contratto individuale di lavoro.

3. La Corte ha, altresì, respinto “la domanda di parte appellante (rectius appellata) di condanna della società al pagamento delle differenze retributive maturate sino al ripristino dell’orario di lavoro, avvenuto nel gennaio 2017, stante la mancanza di uno specifico appello incidentale su una espressa domanda non accolta dal Giudice di primo grado”.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso in via principale la società con un unico motivo; ha resistito con controricorso l’intimato, che ha proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo, al quale ha resistito con controricorso la società.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1.Col motivo di ricorso principale la società denuncia la violazione dell’art. 8, comma 1, l. n. 148 del 2011, sostenendo che il criterio formale della stipula dell’accordo aziendale di prossimità ad opera di organizzazioni sindacali dotate dei requisiti di rappresentatività descritti dalla norma “possa essere sostituito dalla volontà direttamente espressa dai lavoratori”.

Eccepisce, altrimenti, l’illegittimità costituzionale della disposizione “in violazione palese quantomeno degli artt. 3 e 4 Cost., in quanto ingiustamente discriminante nei confronti del Lavoratori e delle Aziende che si trovino ad affrontare eguali situazioni di necessità derivante da constatata crisi, senza la possibilità di utilizzare uno strumento decisivo atto ad evitare più gravi conseguenze per i rapporti di lavoro”.

2. Il motivo è infondato.

2.1. L’art. 8, commi 1, 2, 2-bis, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.148 del 2011, sotto la rubrica <<Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità>>, così dispone:

<<1.- I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.

2.- Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:

a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;

b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;

c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;

d) alla disciplina dell’orario di lavoro;

e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento.

2-bis.- Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 e dalle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.

3.- Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori>>.

2.2. Come risulta dal testo della disposizione, la validità delle “intese” collettive stipulate a livello aziendale o territoriale, onde consentire la deroga alle norme di legge e di contratto collettivo con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, è sottoposta alla garanzia della sussistenza di una serie di condizioni.

I presupposti di applicabilità della disposizione sono così individuabili:

a) occorre che l’accordo aziendale sia sottoscritto «da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda»;

b) è necessario che tali «specifiche intese» – ossia gli accordi aziendali – siano «sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali»;

c) inoltre l’accordo – nel perseguire un interesse collettivo della comunità dei lavoratori in azienda – deve risultare alternativamente finalizzato – secondo la tipizzazione del medesimo art. 8, comma 1, – «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività»;

d) infine, occorre che l’accordo riguardi «la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione» con riferimento a specifici settori elencati dall’art. 8, comma 2. Con l’espressa esclusione della materia dei licenziamenti discriminatori, l’accordo può riguardare: gli impianti audiovisivi e la introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del personale; i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell’orario di lavoro e le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro.

2.3. L’attitudine a sostenere atti di autonomia negoziale collettiva capaci di derogare a disposizioni legali depone nel senso che, come rilevato anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 221 del 2012), si tratti di norma che ha “carattere chiaramente eccezionale”, per cui “non si applica oltre i casi e i tempi in essa considerati (art. 14 disposizioni sulla legge in generale)”.

Più di recente, la Corte delle leggi (sent. n. 52 del 2023) ha ribadito tale assunto, argomentando che “tale eccezionalità è ancor più marcata in ragione della prevista possibilità che il contratto collettivo aziendale di prossimità deroghi alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 dell’art. 8 e alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, pur sempre nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto europeo e dalle convenzioni internazionali sul lavoro”; ne ha tratto la conseguenza che l’efficacia generale dell’accordo di prossimità, proprio perché «eccezionale», sussiste solo ove concorrano tutti “gli specifici presupposti ai quali l’art. 8 la condiziona”.

Solo la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, consente di distinguere il contratto collettivo ivi disciplinato e dotato di efficacia erga omnes (cfr. Cass. n. 33131 del 2021; Cass. n. 16917 del 2021; Cass. n. 19660 del 1919 (ndr Cass. n. 19660 del 2019) ) da un ordinario contratto aziendale, provvisto di efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda, ma che non supera l’eventuale espresso dissenso di associazioni sindacali o lavoratori.

Invero, secondo costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 31201 del 2021; Cass. n. 27115 del 2017; Cass. n. 6044 del 2012; Cass. n. 10353 del 2004), l’efficacia generale degli accordi aziendali è tendenziale – in ragione dell’esistenza di interessi collettivi della comunità di lavoro nell’azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria -, trovando un limite nell’espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali; limite coessenziale alla riconducibilità anche di tali accordi, non diversamente da quelli nazionali o territoriali, a un sistema di contrattazione collettiva fondato su principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale – non già legale o istituzionale – delle organizzazioni sindacali.

L’accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell’accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell’accordo aziendale, ma incide sull’efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere “generale”.

2.4. Quanto esposto è sufficiente ad escludere che, laddove difettino i requisiti prescritti dalla disposizione, possa considerarsi operante detto art. 8 e, quindi, è priva di fondamento la tesi di parte ricorrente in base alla quale il mancato rispetto dei modi di approvazione degli accordi di prossimità, così come previsti dalla disposizione, possa essere sostituito “dalla volontà direttamente espressa dai lavoratori”.

Né siffatta interpretazione suscita dubbi di legittimità costituzionale, rientrando evidentemente nella discrezionalità del legislatore subordinare la deroga a disposizioni poste a protezione dei lavoratori – deroga efficace anche nei confronti di chi non aderisce alle organizzazioni sindacali stipulanti – ad un accordo che sia stipulato da associazioni dotate di adeguata rappresentatività.

3. Con il motivo di ricorso incidentale il F. lamenta la violazione dell’art. 343 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., criticando la sentenza impugnata nella parte in cui non ha accolto la domanda del lavoratore di condanna della società al pagamento delle differenze retributive maturate successivamente al maggio 2016 e fino all’effettivo ripristino dell’orario ordinario di lavoro per mancanza di appello incidentale.

A sostegno si invoca il principio secondo cui “la parte rimasta totalmente vittoriosa in primo grado” non ha l’onere di proporre appello incidentale per chiedere il riesame delle domande e delle eccezioni respinte, assorbite o comunque non esaminate, essendone sufficiente la riproposizione in grado d’appello.

La censura non può trovare accoglimento.

Essa si fonda sull’erroneo presupposto che il F. fosse risultato “totalmente vittorioso” con la sentenza di primo grado che, invece, aveva condannato la società al pagamento di somme calcolate solo fino al maggio del 2016, nonostante nell’atto introduttivo del giudizio – come ancora ribadito nel motivo di impugnazione in esame – il lavoratore avesse chiesto anche la condanna al pagamento delle “successive differenze retributive maturate e maturande sino al ripristino dell’orario di lavoro (di 39 ore settimanali)”.

Sicché rispetto a tale statuizione di primo grado, quanto meno di implicito rigetto, il F. era da considerare soccombente, con la necessità di dover proporre appello incidentale per ottenere la riforma sul punto, non essendo sufficiente la riproposizione della domanda.

4. In ragione di quanto precede, entrambi i ricorsi devono essere respinti, con spese che possono essere compensate, in ragione della reciproca soccombenza, nella misura di 1/3, ponendo le residue a carico della società, liquidate come da dispositivo.

Occorre, altresì, dare atto della sussistenza, sia per la ricorrente in via principale che per il ricorrente incidentale, dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa le spese del giudizio di cassazione nella misura di 1/3, ponendo le residue a carico della ricorrente in via principale, liquidate per l’intero in euro 1.800,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente sia in via principale che incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale e incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Contratti di prossimità e rappresentatività sindacale
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