La lavoratrice madre, condannata per lite temeraria nei confronti del datore di lavoro, non può essere licenziata per colpa grave.

Nota a Cass. 20 dicembre 2023, n. 35617

Pamela Coti

Ai fini dell’applicazione della sanzione espulsiva per colpa grave da parte della lavoratrice non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo, ma è necessario verificare se sussiste quella colpa specificatamente prevista dal D. Lgs. N. 151 del 2001 e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione (35617/2023) con riferimento al ricorso di una lavoratrice in maternità licenziata per giusta causa, per avere promosso un giudizio per differenze retributive manifestamente inesistenti, giudizio concluso col rigetto della domanda e con la condanna della ricorrente per lite temeraria, per aver abusato dello strumento processuale.

Al riguardo il Supremo Collegio ha precisato e stabilito che:

  • la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, configura una sanzione di carattere pubblicistico la cui applicazione pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta processuale oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 3830/2021);
  • al contrario, la colpa grave da parte della lavoratrice rappresenta un’ eccezione al divieto di poter licenziare le lavoratrici madri dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno del bambino, e configura un’ipotesi di colpa più qualificata dal punto di vista soggettivo in ragione delle specifiche condizioni psico – fisiche in cui versa la donna madre e comprende dal punto di vista oggettivo situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal codice e dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento ;
  • alcuna influenza può svolgere la valutazione della responsabilità di colpa grave ex  96c.p.c., in sede di giudizio civile nell’ambito del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, rispetto a quella richiesta dalla normativa in tema di tutela delle lavoratrici madri, che risponde a ben altri criteri, sia cronologici (non limitati cioè all’ambito processuale) sia contenutistici sia, infine, per la diversa natura del concetto di colpa che deve essere oggetto dell’accertamento giudiziario.

La Corte, sulla scorta dei suddetti e consolidati principi di legittimità, ha rigettato il ricorso promosso dalla società datrice di lavoro, confermando la decisione dei giudici di merito che avevano annullato il licenziamento della lavoratrice e avevano ritenuto che la ricorrente, al momento della proposizione del ricorso per differenze retributive, avesse agito con leggerezza, ma non in maniera così grave da meritare il licenziamento per giusta causa, come richiesto dall’art. 54 D. Lgs. n. 151/2001 per il licenziamento disciplinare della lavoratrice madre.

Sentenza 

CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 20 DICEMBRE 2023, N. 35617

Svolgimento del processo

1.In data (Omissis) a A.A., socia della (Omissis) Srl dal (Omissis) al (Omissis) nonché dipendente della stessa, veniva intimato licenziamento per giusta causa a seguito della seguente contestazione: “(…) avere depositato un ricorso per decreto ingiuntivo basato su false affermazioni, vantando in inesistente credito della somma di Euro 250.000,00 nei confronti della Società (Omissis) Srl in contrasto con l’art. 4 dell’atto di cessione quote (Omissis) da cui emerge che “I soci uscenti dichiarano espressamente di nulla più avere a pretendere né dal socio avente casa nel presente atto né dalla società (…)””.

2.Impugnato il recesso, nelle more veniva definito dal Tribunale di Venezia il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, emesso in favore di A.A., sopra indicato, con la revoca dello stesso per insussistenza del credito e con condanna dell’ingiungente ex art. 96 c.p.c., comma 3, per avere la ingiungente agito per colpa grave nonostante la manifesta infondatezza della pretesa creditoria.

3. Il giudice del lavoro, invece, in accoglimento dell’opposizione proposta all’ordinanza, resa in fase sommaria, di rigetto della invocata tutela reintegratoria, dichiarava la nullità dell’intimato licenziamento in quanto ritorsivo, disponendo la reintegrazione della (….) nel posto di lavoro e condannando la società datrice di lavoro al risarcimento del danno dal giorno del licenziamento all’effettivo ripristino.

4. Il primo giudice rilevava che la lavoratrice aveva agito giudizialmente, in via monitoria, per vedere accertato un suo preteso diritto di credito, estraneo al rapporto di lavoro, poi riconosciuto non dovuto, ma il riflesso della vicenda, appunto sul rapporto lavorativo, non era automatico in assenza di precisi elementi che dimostrassero la consapevolezza della A.A. di non avere avuto diritto alle somme richieste; da qui la ritenuta ritorsività del recesso.

5. La Corte di appello di Venezia, con la sentenza n. 280/2020, confermava, sia pure con diversa motivazione, la pronuncia di primo grado, evidenziando che: a) nella fattispecie non erano ravvisabili gli estremi della ritorsività del licenziamento perché nessuna reazione ingiusta ed arbitraria poteva essere individuata nella scelta aziendale di contestare sul piano disciplinare un comportamento ritenuto offensivo e, almeno potenzialmente, dannoso per la società; b) tuttavia, nel caso in esame, la sanzione disciplinare espulsiva, in relazione all’effettivo comportamento della dipendente, appariva inadeguata ben potendo applicarsi una misura di minore afflizione, e non era ravvisabile una colpa grave, addebitabile alla lavoratrice, perché potesse dirsi operante la clausola di speciale giustificazione del licenziamento nei confronti della A.A. per la quale operava la tutela della maternità ai sensi del  D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54 avendo questa agito in relazione ad un supposto credito di natura extralavorativa senza che fosse stata dimostrata la consapevolezza della sua inesistenza al momento della presentazione del ricorso monitorio; c) andava escluso che la colpa grave ravvisata dal giudice in sede civile ex art. 96 c.p.c., comma 3 coincidesse con quella disciplinata dalla norma in materia di maternità, essendo il perimetro della condotta da valutare, ai fini di quest’ultima, ben più ampio; d) il licenziamento, pertanto, se non nullo, in quanto ritorsivo, comunque lo era L. n. 300 de 1970, ex art. 18, comma 1.

6. Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione la (Omissis) Srl affidato a tre motivi, cui resisteva con controricorso A.A..

7. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione

1.I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., 1236 c.c., 2733 2735 c.c., art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., per avere erroneamente la Corte territoriale escluso, sulla base delle risultanze processuali, la sussistenza di una giusta causa di licenziamento della lavoratrice A.A. assumendo che non sarebbe stata comprovata la consapevolezza, da parte di essa, dell’inesistenza del credito asseritamente vantato nei confronti del datore di lavoro, mancando validi ed inequivoci elementi a supporto di tale ipotesi.

3. Con il secondo motivo si censura, ai sensi degli artt. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia e/o omessa motivazione, per non avere la Corte di appello valutato la sussistenza o meno di uno stato di colpa grave nella condotta della lavoratrice sull’errato presupposto della insussistenza di una giusta causa di licenziamento della A.A..

4. Con il terzo motivo si obietta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e/o falsa e/o errata applicazione dell’art. 2119 c.c. e del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54 per essere stata esclusa la sussistenza di una colpa grave pur in presenza di una condotta sicuramente dolosa, della lavoratrice che aveva esposto la società al pericolo di un danno irreparabile, oltre ad avere leso ogni vincolo fiduciario: ciò sulla base dei dati probatori raccolti in casa; inoltre, si lamenta l’erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui era stato escluso che la colpa grave potesse essere ritenuta già accertata dalla sentenza del Tribunale di Venezia emessa in sede civile.

5. Il primo motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

6. Le censure formulate, infatti, al di là delle denunziate violazioni di legge (in particolare quelle di cui agli artt. 2733, 2735 1236 c.c.), si limitano, in sostanza, in una richiesta di riesame del merito della causa, attraverso una nuova valutazione delle risultanze processuali, in quanto sono appunto finalizzate ad ottenere una revisione degli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte territoriale (Cass. n. 6519/2019) che è giunta alla conclusione che era da escludersi che la condotta della lavoratrice fosse stata connotata da un disvalore aggravato determinante una giusta causa di licenziamento per colpa grave.

7. In tema di ricorso per cassazione, poi, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. n. 20867/2020; Cass. n. 16016/2021): ipotesi, questa, non ravvisabile nel caso in esame.

8. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., poi, si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 17313/2020).

9. Circa, infine, la dedotta violazione dell’art. 2119 c.c., è opportuno ribadire che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini dell’individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3 nei casi in cui gli “standards” valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente (Cass. n. 7305/2018; Cass. n. 12789/2022).

10. Nella fattispecie, le censure di cui al motivo riguardano il merito quale attività integrativa del precetto normativo e, in quanto tale, non possono essere oggetto, pertanto, di valutazione del presente giudizio di legittimità.

11. Il secondo motivo, parimenti, non è meritevole di accoglimento.

12. Invero, in relazione alla censura riguardante un’asserita omessa pronuncia e/o omessa motivazione sulla questione della verifica della gravità della colpa grave della lavoratrice sull’errato presupposto della insussistenza di una giusta causa di licenziamento, va osservato che la Corte distrettuale, con motivazione esente dai vizi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si è invece pronunciata sul valore del comportamento della lavoratrice, ritenendolo superficiale e sbrigativo, sulla ritenuta esistenza del proprio credito, ma non grave e, quindi, non costituendo la condotta una giusta causa di licenziamento.

13. Dopo avere inquadrato correttamente la vicenda nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54 la Corte di merito ha contestualmente operato un giudizio di inadeguatezza della sanzione disciplinare espulsiva ben potendosi, di contro, secondo la valutazione dei giudici di seconde cure, applicare al caso de quo una misura di minore afflizione in quanto l’unico addebito che avrebbe potuto essere contestato alla A.A. riguardava il fatto di non avere considerato, con adeguata ponderazione, le ragioni a sostegno dell’esistenza del proprio credito e di non avere sollecitato, preliminarmente e con formale iniziativa, il proprio presunto debitore al fine di provvedere al pagamento di quanto opinava dovutole.

14. è stato, pertanto, svolto sia un accertamento sulla giusta causa, sia sulla colpa grave (oggetto questo di trattazione più specifica in relazione al terzo motivo) sia, infine, sulla adeguatezza e proporzionalità della sanzione applicata.

15. Giova sottolineare che, in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 3819/2020).

16. Nel caso di specie, per quanto sopra delineato, è invece chiaro ed intellegibile l’iter decisionale della gravata sentenza.

17. Il terzo motivo, infine, è anche esso infondato con riguardo ai profili di censure che non possono ritenersi già esaminati con lo scrutinio dei primi due motivi.

18. L’accertamento della responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., discende esclusivamente da atti o comportamenti processuali concernenti il giudizio nel quale la domanda viene proposta, quali, ai sensi del comma 1, l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave o, per quanto riguarda il comma 3, l’aver abusato dello strumento processuale (Cass. Sez. Un. 25041/2021).

19. In particolare, la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 3830/2021).

20. La colpa grave da parte della lavoratrice, invece, costituente ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, n. 3, lett. a) una eccezione al divieto di potere licenziare le lavoratrici madri dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno del bambino, configura un’ipotesi di colpa più qualificata dal punto di vista soggettivo in ragione delle specifiche condizioni psico – fisiche in cui versa la donna madre e comprende dal punto di vista oggettivo situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal codice e dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 1667/1996 i cui principi, affermati in relazione della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, comma 2, lett. a) sono mutuabili anche con riferimento alla norma di cui all’art. 54 citato).

21. Per “colpa grave da parte della lavoratrice” – non è sufficiente, quindi, accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma è invece necessario (anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 61 del 1991) verificare – con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro – se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (Cass. n. 16060/2004).

22. Il relativo accertamento e la conseguente valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve, poi, in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi (Cass. n. 9405/2003).

23. Dai suddetti e consolidati principi di legittimità, che delineano il perimetro dell’ambito applicativo delle due disposizioni, è agevole, quindi, rilevare che alcuna influenza può svolgere la valutazione della responsabilità di colpa grave ex art. 96 c.p.c. ritenuta dal Tribunale, in sede di giudizio civile nell’ambito del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, rispetto a quella richiesta dalla normativa in tema di tutela delle lavoratrici madri, che risponde a ben altri criteri, sia cronologici (non limitati cioè all’ambito processuale) sia contenutistici sia, infine, per la diversa natura del concetto di colpa che deve essere oggetto dell’accertamento giudiziario.

24. Correttamente, pertanto, l’impugnata sentenza ha disatteso l’argomentazione della società (odierna ricorrente) secondo cui il giudicato formatosi nel giudizio civilistico poteva consentire di ritenere sussistente la colpa grave anche in relazione all’addebito disciplinare.

25. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.

26. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

27. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Ipotesi di non applicazione del licenziamento per colpa grave
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