Spetta al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione del prestatore.

Nota a Cass. 26 luglio 2016, n.15435

Deborah Ciancaglini 

È da ritenersi discriminatoria la condotta del datore di lavoro che licenzia una lavoratrice madre la quale, al rientro dal congedo, rifiuta di trasferirsi a 150 km di distanza dalla sede di lavoro presso cui era addetta. Grava sul datore di lavoro la dimostrazione dell’insussistenza del comportamento discriminatorio.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (26 luglio 2016, n. 15435) che, confermando le osservazioni della Corte d’Appello, ha ritenuto nullo il trasferimento ed il conseguente licenziamento di una  lavoratrice madre, rientrata al lavoro al termine di un periodo di astensione di 1 anno e 4 mesi.

Secondo i giudici di merito, le decisioni datoriali erano riconducibili ad un disegno discriminatorio nei confronti della prestatrice, dovuto alla sua condizione di maternità, in quanto, dopo soli 3 giorni dall’inoperatività del divieto previsto dall’art. 56, co.1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (le lavoratrici hanno diritto, al termine dei periodi di astensione dal lavoro, “di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino…”) e al termine dal congedo dal lavoro, veniva trasferita in un punto vendita distante oltre 150 km dalla sede originaria di appartenenza, in assenza di reali ragioni di carattere tecnico, produttivo o organizzativo.

Simili elementi fattuali, sono stati ritenuti “idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori”, in base a quanto previsto dall’art. 40, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198.

Ad avviso della Corte, inoltre, “la previsione che gli elementi di fatto, idonei a fondare la presunzione di esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (e, quindi, ad attribuire al datore di lavoro, in caso di indizi precisi e concordanti in tal senso, l’onere della prova della situazione contraria di insussistenza della discriminazione), possano essere tratti “anche” da dati di carattere statistico, e’ palesemente diretta a corroborare lo sforzo difensivo del lavoratore e a facilitare l’emersione della condotta illecita, di cui egli sia stato vittima, in un’ottica di affiancamento agli elementi fattuali connotanti la fattispecie (o di chiarificazione, occorrendo, della loro portata) e non gia’ sostitutiva di essi, in presenza di vicende la cui lettura globale non puo’ che essere rimessa, nella quasi totalita’ dei casi, ad una pluralita’ di tratti distintivi e alla loro univoca convergenza.

Ne consegue che non e’ incorsa nel vizio denunciato la sentenza di secondo grado, la’ dove ha ritenuto che spettasse al datore di lavoro provare, ai sensi dell’art. 40 cit., l’insussistenza della discriminazione, posto che tale conclusione e’ stata raggiunta sulla base della motivata ricognizione di elementi di fatto idonei a fondare, con i requisiti di legge, l’accertamento della sua esistenza.”

Discriminazione e onere della prova.
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