Nell’ipotesi di reiterazione abusiva di contratti di lavoro a termine nella pubblica amministrazione è lecito apprestare misure diverse rispetto al settore privato purché il sistema sanzionatorio sia effettivo.

Nota a Corte di Giustizia UE, 7 marzo 2018, C-494/16

Flavia Durval

Una normativa nazionale, come quella italiana, che, al fine di prevenire e sanzionare l’abuso del contratto di lavoro a tempo determinato, preveda, nell’ipotesi di successione di contratti a tempo da parte di un datore di lavoro pubblico, misure diverse tra settore pubblico e privato (per il quale ultimo soltanto è contemplata la trasformazione a tempo indeterminato), non contrasta con il diritto comunitario purché le suddette misure siano effettive sotto il profilo dell’efficacia.

Il principio è affermato dalla Corte di Giustizia UE in relazione alla clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato 18 marzo 1999, in allegato alla direttiva 1999/70/CE. La Corte è stata investita dal giudice italiano sul tema dell’effettività del nostro sistema sanzionatorio, che nel caso di reiterazione di contratti a tempo determinato prevede, nel pubblico impiego, oltre a un’indennità risarcitoria, il risarcimento del danno da perdita di chances. Nello specifico, i giudici hanno indicato taluni parametri interpretativi sulla base del ragionamento che segue.

La citata clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro è finalizzata a limitare il ricorso ad una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, in quanto potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori (v., segnatamente, sentenze 4 luglio 2006, C-212/04, punto 63; 26 gennaio 2012, C-586/10, punto 25, nonché 3 luglio 2014, C-362/13, C-363/13 e C-407/13, punto 54).

Essa, pertanto, allo scopo di prevenire il suddetto abuso, impone agli Stati membri l’adozione di una misura fra quelle previste (al  punto 1, lettere da a) a c) o da leggi esistenti ed equivalenti) e cioè: ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, ovvero durata massima totale degli stessi contratti/rapporti di lavoro successivi o numero limitato dei rinnovi (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, punto 74 e giurisprudenza ivi citata).

Inoltre, dal momento che “il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro” (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, cit., punto 77 e giurisprudenza ivi citata). Di modo che, qualora si verifichi un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a termine, sia possibile applicare una misura dotata di garanzie effettive ed equivalenti (cioè non meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna) di protezione dei lavoratori per sanzionare adeguatamente detto abuso, cancellando altresì le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, cit., punto 79 e giurisprudenza ivi citata).

Dal momento poi che la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro lascia un certo margine di discrezionalità in materia agli Stati membri (sentenza 7 settembre 2006, C-53/04, punto 47), è possibile che uno di tali Stati membri “riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che tali contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico” (sentenza 7 settembre 2006, C-53/04, cit., punto 48). Ciò, purché anche nell’area pubblica risulti sanzionata in modo effettivo la reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato (sentenza 7 settembre 2006, C-53/04,  cit., punto 49).

Come noto, il DLGS n. 165/2001 (art. 36, co. 5) nel caso di violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, delle disposizioni relative al reclutamento o all’impiego di lavoratori non contempla l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra dette amministrazioni e i lavoratori interessati. La disposizione prevede, invece, il diritto al risarcimento del danno sofferto, ivi compreso il danno derivante dalla perdita di opportunità di superamento di un concorso.

In seguito, poi, ai numerosi contrasti interpretativi sorti in merito ai criteri di quantificazione di tale danno, le SU della Cassazione (15 marzo 2016, n. 5072) hanno affermato che: “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36 comma 5 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio  nella misure e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010 n. 183 e quindi nella misura pari ad una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966 n. 604” e ad un risarcimento del danno da perdita di chances, subordinato alla prova a carico del lavoratore circa le occasioni di impiego alternative perdute a causa del rapporto a termine instaurato con l’amministrazione pubblica. Come si vede, secondo le Sezioni Unite, la disposizione da applicare ai fini della quantificazione del danno risarcibile è l’art. 32, co. 5, L. n. 183/2010, che sanziona la illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato.

Con particolare riferimento al principio di effettività, i giudici (conformemente alle citate sentenze 7 settembre 2006, C-53/04, e 26 novembre 2014, C-22/13), precisando che “gli Stati membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell’accordo quadro, a prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato e, di conseguenza, non può nemmeno essere loro imposto di concedere, in assenza di ciò, un’indennità destinata a compensare la mancanza di una siffatta trasformazione del contratto”,  “sottolineano la necessità di  esaminare se il diritto nazionale preveda un’altra misura effettiva destinata ad evitare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, ma anche per sanzionare debitamente detto abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”.

Al riguardo, la Corte di Giustizia nella sentenza in esame rileva che sebbene dimostrare l’esistenza di un danno derivante da una siffatta perdita di opportunità appaia “puramente teorica”, nondimeno, la dimostrazione in via presuntiva della perdita di chance, richiesta dai giudici italiani, costituisce un criterio di particolare favore e tale da soddisfare il principio di effettività, al pari delle altre norme previste dall’art. 36, co. 5, DLGS n. 165/2001 che: a) fa carico alle amministrazioni di recuperare le somme pagate a titolo di risarcimento del danno (imputabile alle violazioni della normativa sul reclutamento) nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave; b) considera siffatta violazione nel processo valutativo dei dirigenti, i quali non potrebbero ottenere il premio di risultato; c) e prevede che le amministrazioni pubbliche che abbiano agito in violazione delle norme relative al reclutamento o all’impiego non possano procedere, a nessun titolo, ad assunzioni nei tre anni successivi a detta violazione.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha ritenuto adeguate ed effettive le misure dissuasive dell’abuso e quelle sul risarcimento del danno.

Corte di Giustizia UE e contratti a termine nel pubblico impiego
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