Ammissibile per una Chiesa, o altra organizzazione etica, fondata sulla religione, rifiutare una candidatura ad un posto di lavoro quando la religione costituisca un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Nota a Corte di Giustizia UE 17 aprile 2018, C – 414/16

Gennaro Ilias Vigliotti

Una Chiesa (o un’altra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali), qualora rigetti una candidatura a un posto di lavoro al suo interno, affermando, a sostegno del suo diniego, che, “per la natura delle attività di cui trattasi o per il contesto in cui tali attività devono essere espletate, la religione costituisce un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale Chiesa o di tale organizzazione”, è tenuta a rispettare i criteri di cui all’art. 4, paragr. 2, della direttiva 2000/78/CE

In questo senso, vanno interpretati, secondo Corte di Giustizia UE 17 aprile 2018, C-414/16, i principi in materia di parità di trattamento in tema di occupazione e di condizioni di lavoro, così come regolati dall’art. 4, paragr. 2, della suddetta direttiva, in combinato disposto con gli artt. 9 e 10 di quest’ultima, nonché con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, letti in combinato disposto con l’art. 21, paragr. 1, della Carta stessa sul divieto di discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali e con l’articolo 17 TFUE e la dichiarazione n. 11 sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali, allegata all’atto finale del Trattato di Amsterdam.

La Corte muove dalla considerazione che “il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari”, nonché dalla citata direttiva 2000/78/CE, com’è noto, finalizzata a contrastare le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento; e dalla Convenzione n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro che proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro. E, nello specifico, precisa che:

a) in taluni casi “limitati” può essere giustificata una disparità di trattamento “quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, o per il contesto in cui essa viene espletata, purché la finalità sia legittima ed il requisito risulti proporzionato, in linea con i principi generali del diritto comunitario (v. sentenze 6 marzo 2014, C‑206/13 e 9 luglio 2015, C‑153/14);

b) in questa logica, una Chiesa o un’altra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali può prevedere un requisito connesso alla religione o alle convinzioni personali qualora, tenuto conto della natura dell’attività di cui trattasi o del contesto in cui essa è espletata, “la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato”;

c) ne consegue che una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali è subordinata all’esistenza oggettivamente verificabile di un nesso diretto tra il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa imposto dal datore di lavoro e l’attività in questione. Tale nesso può derivare: 1) sia dalla natura di tale attività (ad es. laddove si tratti di partecipare alla “determinazione dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione, o di collaborare alla sua missione di proclamazione”); 2) sia dalle condizioni in cui tale attività deve essere espletata, “come la necessità di garantire una rappresentanza credibile della Chiesa o dell’organizzazione all’esterno della stessa”;

d) pertanto, come accennato, tenuto conto dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione, il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere, ai sensi dell’art. 4, paragr. 2, della direttiva 2000/78/CE: 1) essenziale (nel senso che “l’appartenenza alla religione o l’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione deve apparire necessaria, a causa dell’importanza dell’attività professionale di cui trattasi, per l’affermazione di tale etica o l’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia”; 2) legittimo (il criterio relativo all’appartenenza alla religione o all’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione in parola non deve cioè essere utilizzato “per un fine estraneo a tale etica o all’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia”); 3) e giustificato (vale a dire che “la Chiesa o l’organizzazione che ha stabilito tale requisito ha l’obbligo di dimostrare, alla luce delle circostanze di fatto del caso di specie, che il presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio, di modo che l’introduzione di un siffatto requisito risulta essere effettivamente necessaria”).

Discriminazione sul lavoro e religione
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