La legittimità del controllo sulla chat aziendale è subordinata, ai sensi dell’art. 4, co.3, Stat. Lav., all’espletamento, da parte del datore di lavoro, di un’adeguata procedura informativa.
Nota a Cass. 22 settembre 2021, n. 25731
Paolo Pizzuti
La chat aziendale è qualificabile come “strumento di lavoro” essendo funzionale alla prestazione lavorativa. è altresì noto che le condizioni (accordo sindacale) e le finalità previste dall’art. 4, co.1, Stat. Lav. per legittimare i controlli a distanza attuati dal datore di lavoro non si applicano (ai sensi del co.2 della norma stessa) “agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” e le informazioni raccolte sono “utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”.
Tuttavia, tale utilizzo è condizionato dalla somministrazione al lavoratore di un’“adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.”
Pertanto, sebbene la disciplina vigente preveda l’esclusione delle procedure di garanzia di cui al co. 1 dell’art. 4 per i controlli della chat aziendale, l’utilizzabilità del risultato di tali controlli “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, compresi quindi quelli disciplinari, è subordinata, secondo il co. 3 dello stesso art. 4, alla procedura informativa di cui sopra.
Qualora manchi l’adeguata informazione preventiva del lavoratore, come nel caso in cui la comunicazione aziendale con la quale i lavoratori vengano informati della soppressione della chat aziendale sia successiva all’effettuazione dei controlli, i dati raccolti non sono utilizzabili.
Così, si è espressa la Corte di Cassazione (22 settembre 2021, n. 25731, conf. ad App. Milano 23 ottobre 2018) in relazione ad una vicenda in cui una lavoratrice aveva scambiato con una collega una corrispondenza sulla chat aziendale, avente contenuto pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di altre colleghe.
La società aveva appreso l’esistenza ed il contenuto di tali conversazioni in esito ad un controllo effettuato dal tecnico informatico che doveva verificare – in occasione della chiusura della chat e del conseguente progressivo suo abbandono – se vi fossero dati aziendali da conservare.
La Corte milanese accertava altresì che la chat veniva utilizzata per le comunicazioni interne ed era stata introdotta anni prima dell’assegnazione a ciascun dipendente di un indirizzo di posta elettronica e ciascun dipendente poteva accedervi con una propria password personale, così come in seguito sarebbe avvenuto per la posta elettronica aziendale. In seguito all’introduzione di quest’ultima, l’utilizzo della chat si era ridotto, tanto da indurre l’azienda a decidere di eliminarla.
I giudici di appello, ai quali si è conformata la Cassazione, hanno osservato che in base al regolamento aziendale l’accesso del tecnico informatico alla chat era lecito, perché consentito in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi; tuttavia la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti ai sensi dell’art. 4 co. 3, Stat. Lav.
Tale informazione era necessaria, trattandosi di corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si imponeva una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ex art. 15 Cost., con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni era precluso agli estranei e non ne era consentita la rivelazione ed utilizzazione.
La Corte ha inoltre escluso la rilevanza disciplinare del comportamento per la mancanza di un intento denigratorio, ritenendo che le espressioni utilizzate nelle e-mail costituissero soltanto “uno sfogo del mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata”.