Il dipendente è onerato unicamente della prova del danno, della nocività del lavoro e del nesso causale tra i due elementi, mentre il datore di lavoro deve fornire la prova di aver adottare tutte le misure ragionevolmente possibili per evitare il danno.

Nota a Cass. 28 febbraio 2023, n. 6008

Pamela Coti

In materia di risarcimento del danno per superlavoro il datore di lavoro è tenuto a provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno in questione, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Diversamente, sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento:

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione 28 febbraio 2023, n.  6008 con riferimento al ricorso promosso da un dirigente medico di una ASL che, lamentando di aver subito un infarto per il superlavoro cui era stato costretto per anni, aveva chiesto la condanna dell’azienda a risarcirgli il danno biologico, temporaneo e permanente.

Al riguardo, La Cassazione ha ribadito che:

  • la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore “l’obbligo di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti con l’adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell’ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica” (Cass. n. 8855/2013);
  • il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, che lamenti un inesatto adempimento rispetto al suddetto obbligo di sicurezza, è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole). Spetta invece al datore “dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile” (v. Cass. 28 novembre 2022, n. 34968, annotata in q. sito da F. DURVAL);
  • non si può “imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 23187/2022), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche (Cass. n. 34968-2022);
  • inoltre, l’accertamento amministrativo, pur non costituendo prova legale nel giudizio di responsabilità per danni, può essere prudentemente apprezzato, “ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come prova sufficiente del nesso causale, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario” (Cass. n. 23187/2022, cit.);
  • una volta accertata “in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c.”, di modo che spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. n. 20889/18; Cass. n. 17017/2007; Cass. n. 4005/2005).
Dirigente medico e prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo: prova e nocività dell’ambiente di lavoro (Cass. n. 6008/2023)
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