Il requisito della convivenza, richiesto affinché sorga il diritto all’assegno per il nucleo familiare, non è indispensabile ai fini della concessione del beneficio, essendo sufficiente che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli.

Nota a Trib. Milano 14 marzo 2023

Francesco Belmonte

La convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno  per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta unicamente un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio – sensibilmente diverso da  quello agli assegni familiari – che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda  abitualmente al mantenimento dei figli.

In tale linea si è pronunciato il Tribunale di Milano (14 marzo 2023), in relazione al diniego opposto dall’Inps alla richiesta dell’assegno per il nucleo familiare (ANF) da parte di un padre lavoratore subordinato, non convivente con il figlio (collocato presso la madre lavoratrice autonoma), nei confronti del quale versa un contributo di mantenimento mensile (in forza di Trib. Milano ord. n. 864/2019).

L’Ente previdenziale aveva rigettato la richiesta affermando che: “Ai sensi della circolare 45/2019, non trattandosi di lavoratore agricolo, la domanda dovrà essere presentata dal beneficiario degli assegni convivente con il figlio”.

In una diversa posizione si pongono i giudici milanesi che accolgono il ricorso del lavoratore allineandosi alla pronuncia della Cassazione n. 4419/2000.

Quest’ultima, in particolare, fonda le proprie argomentazioni in virtù di quanto disposto dall’ art. 2, co. 6, L. n. 153/88 (di conversione del D.L. n. 69/88) che definisce il nucleo familiare come composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli (compresi quelli naturali legalmente riconosciuti) e prevede un aumento di reddito massimo (ai fini del diritto all’assegno per il nucleo familiare) se gli aventi diritto si trovano in condizione di celibe o nubile.

La Suprema Corte ha inoltre osservato che la sussistenza del nucleo familiare non presuppone il coniugio ed include l’ipotesi di figli naturali riconosciuti dai genitori (ovviamente) non coniugati tra loro e che il componente del nucleo familiare cui spetta l’assegno, non indicato dalla L. n. 153/88, deve essere individuato alla stregua delle norme contenute nel T.U. sugli assegni familiari approvato con D.P.R. n. 797/55 (cui appunto rimanda lo stesso art.2, co. 3, della legge del 1988).

Il citato T.U. riconosce legittimato alla riscossione degli assegni familiari per i figli, quale capo-famiglia, il padre, ovvero la madre vedova o nubile con prole non riconosciuta dal padre ed equipara ai figli legittimi quelli naturali legalmente riconosciuti.

Ai fini della concessione del beneficio, la Cassazione ha affermato poi che non è richiesto il requisito della convivenza, ma solo la circostanza che il capo famiglia provveda abitualmente al mantenimento dei figli il che è oggetto di presunzione assoluta in caso di convivenza dovendosi, altrimenti, provare la vivenza a carico.

“Inoltre, dalla disposizione secondo cui la madre nubile è riconosciuta quale capo-famiglia se la prole non è riconosciuta dal padre dovrebbe desumersi … che, in caso di riconoscimento anche da parte del padre naturale, questi debba essere considerato capo famiglia ai fini della corresponsione degli assegni.”

Come si vede, nel sistema del T.U. sugli assegni familiari, la convivenza non costituiva affatto un requisito necessario per il diritto a quel particolare trattamento assicurativo.

La legge n. 153/88, introducendo l’assegno per il nucleo familiare ha configurato un istituto sensibilmente diverso da quello degli assegni familiari e relative maggiorazioni, “in quanto ha teso a realizzare, anziché una integrazione economica della retribuzione del lavoratore capo famiglia considerata inadeguata in via presuntiva per la sola esistenza del carico familiare, una integrazione del reddito del nucleo familiare, pur corrisposta non in favore dei familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo familiare complessivamente considerato e in relazione ad un accertamento in concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra il numero dei componenti il nucleo familiare e l’ammontare del reddito complessivo dello stesso. Nel nuovo sistema, secondo autorevole dottrina, il nucleo familiare deve essere individuato in relazione al soggetto richiedente l’assegno e di tale nucleo fanno indubbiamente parte il padre e i figli ed equiparati ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. 26 aprile 1957, n. 818 (e tra essi i figli naturali legalmente riconosciuti).”

Tale interpretazione, espressione dell’interesse superiore familiare all’allevamento della prole (garantito dall’art. 31 Cost.), evita che “nell’ipotesi in cui la madre naturale con la quale la  figlia conviva non abbia diritto alla percezione dell’assegno in quanto non  lavoratrice dipendente (in servizio o in pensione), venga – sotto il profilo  sostanziale – pregiudicata anche la posizione della figlia naturale riconosciuta  da entrambi i genitori per il solo fatto di non convivere con il padre (peraltro  egualmente tenuto al suo mantenimento ed alla sua educazione: art. 261 c.  civ.) lavoratore dipendente (in servizio o in pensione)”.

Sentenza

Trib. Milano 14 marzo 2023

(Omissis)

FATTO E DIRITTO

Con il depositato ricorso, …. conveniva in giudizio … S.P.A. ed I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “Voglia il Tribunale di Milano, in funzione di Giudice del Lavoro:

a) accertare e dichiarare il diritto del signor … a percepire l’Assegno per il Nucleo Familiare nel periodo dal 1.07.2016 al 30.06.2022 (o per il diverso periodo ritenuto di giustizia) per tutte le ragioni di cui al ricorso;

b) condannare … S.p.A. al pagamento, per i titoli espressamente specificati nella parte in fatto del presente ricorso, in favore del ricorrente di un importo pari a euro 2.828,60 (ovvero quella diversa somma ritenuta di giustizia e/o da determinarsi all’esito del giudizio), oltre interessi e/o maggior danno da svalutazione monetaria dalla scadenza di ogni singolo rateo al saldo e con diritto di rivalsa della società convenuta nei confronti dell’I.N.P.S.”; con vittoria di spese a carico di I.N.P.S. da distrarsi.

Si costituiva I.N.P.S., ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, con il deposito di articolata memoria, con cui contestava le avverse deduzioni e domande, delle quali chiedeva il rigetto, con vittoria di spese. In particolare, parte resistente chiedeva l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “Voglia l’On.le Tribunale adito, ogni contraria istanza disattesa:

NEL MERITO, rigettare il ricorso e tutte le domande proposte nei confronti dell’INPS in quanto infondate in fatto ed in diritto confermando l’operato degli uffici. Con vittoria di spese, diritti ed onorari.

In via istruttoria:

Si chiede ove ritenuto necessario, di sentire a chiarimenti il funzionario amministrativo che ha istruito la pratica ovvero di un suo delegato. Si chiede stante la contestazione sul quantum la nomina di CTU contabile”.

Si costituiva anche … S.P.A., con il deposito di memoria, con cui chiedeva l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “NEL MERITO, IN VIA PRELIMINARE:

– accertare e dichiarare la carenza di legittimazione passiva di Rti, in quanto soggetto obbligato alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare è l’INPS.

NEL MERITO:

– trattandosi di accertamento di un diritto al quale … è estranea, e, come tale, priva di interesse a contraddire, ci si rimette alla decisione del Giudicante al riguardo”; con vittoria di spese.

Ritenuta la causa matura per la decisione senza lo svolgimento di attività istruttoria, all’udienza di discussione, i procuratori, discussa la causa, concludevano come in atti. La Giudice, dopo essersi ritirata in camera di consiglio, pronunciava dispositivo di cui dava lettura ex art. 429 cpc, come modificato dall’art. 53 DL 25.6.2008 n. 112 conv. in L. 6.8.2008 n. 133, con fissazione di termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione.

Il ricorso è fondato per i seguenti motivi, dovendosi dare atto che la causa è documentale, trattandosi di questioni di diritto.

I fatti di causa rilevanti ai fini del decidere sono i seguenti. Pacificamente, … lavora alle dipendenze di … S.P.A. dal 09.09.2002. È padre di un minore, la cui madre è lavoratrice autonoma.

Il ricorrente non è convivente con il figlio, che, in forza dell’ordinanza del Tribunale di Milano n. 864/2019 del 10.04.2019 (doc. 3 fascicolo parte ricorrente), è collocato presso la madre. L’ordinanza che precede prevede anche che il padre versi un contributo di mantenimento di euro 280 mensili, oltre al concorso nella misura del 50% nelle spese straordinarie. In data 29.09.2021, il ricorrente presentava domanda di autorizzazione all’assegno per il nucleo familiare e domande di ANF/DIP per lavoratori dipendenti, ex art. 2 D.L. 69/88, convertito in L. 153/88, per i seguenti periodi:

– dal 1.07.2021 al 30.06.2022;

– dal 1.07.2020 al 30.06.2021;

– dal 1.07.2019 al 30.06.2020;

– dal 1.07.2018 al 30.06.2019;

– dal 1.07.2017al 30.06.2018;

– dal 1.07.2016 al 30.06.2017 (doc.4 fascicolo parte ricorrente).

Con la comunicazione del 30.09.2021, I.N.P.S. rigettava le richieste di …. con la seguente motivazione: “Ai sensi della circolare 45/2019, non trattandosi di lavoratore agricolo, la domanda dovrà essere presentata dal beneficiario degli assegni convivente con il figlio” (doc. 5 fascicolo parte ricorrente).

Con la delibera del 26.10.2021, il Comitato Provinciale I.N.P.S. rigettava il ricorso amministrativo: “il ricorrente non risulta essere lavoratore agricolo e, dalle verifiche effettuate sugli archivi anagrafici, il figlio minore risulta convivente con l’altro genitore naturale” (doc.7 fascicolo parte ricorrente).

… contestava in ricorso il diniego da parte di I.N.P.S. alla fruizione dell’assegno per il nucleo familiare, ex art. 2, commi 6 e 6-bis, L. 153/88, mentre I.N.P.S. sosteneva la legittimità dell’operato dell’istituto.

In diritto, giova premettere che l’assegno al nucleo familiare è disciplinato dall’art. 2 DL 13.3.1988, n. 69, conv. in L. 13.5.88, n. 153, secondo cui “Per i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente … a decorrere dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 1988, gli assegni familiari, le quote di aggiunta di famiglia, ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato …, cessano di essere corrisposti e sono sostituiti, ove ricorrano le condizioni previste dalle disposizioni del presente articolo, dall’assegno per il nucleo familiare”.

Il sesto comma della medesima norma stabilisce che “Il nucleo familiare è composto dal coniuge, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi a un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle e i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi a un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti”.

Ricostruito il quadro normativo di riferimento, deve darsi atto che il motivo addotto da I.N.P.S. in fase amministrativa, a sostegno del diniego degli assegni al nucleo è espressamente ricondotto alla carenza di convivenza tra … ed il figlio. Quanto precede non può essere condiviso. Sul punto, la Suprema Corte affrontava un caso sostanzialmente analogo a quello in esame, stabilendo che “Nel regime posto dal D.L. 13 marzo 1988 n. 69 (convertito con modifiche nella legge n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta soltanto un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, sensibilmente diverso da quello agli assegni familiari, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli. Nè è di ostacolo l’astratta configurabilità di due nuclei familiari in caso di genitori del figlio naturale non riconosciuto, i quali, non legati tra loro da coniugio, non facciano parte dello stesso nucleo familiare, atteso che comunque opera la prescrizione posta dall’art. 2, comma 8 bis, D.L. n.69 del 1988, secondo cui, per i componenti del nucleo familiare al quale la prestazione è corrisposta, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante” (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 4419 del 07/04/2000). Tale principio di diritto è stato ampiamente motivato dalla Cassazione, la quale affermava condivisibilmente quanto segue:

“Quanto alla dedotta necessità di annoverare la convivenza tra i requisiti indefettibili per l’attribuzione dell’assegno per il nucleo familiare, rileva la Corte come esattamente il Tribunale abbia posto in rilievo che l’art. 2, comma sesto, della legge 13 maggio 1988, n.153, di conversione del d.l. 13 marzo 1988, n.69, definisce il nucleo familiare come composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli (compresi quelli naturali legalmente riconosciuti) e prevede un aumento di reddito massimo (ai fini del diritto all’assegno per il nucleo familiare) se gli aventi diritto (di cui al primo comma) si trovano in condizione di celibe o nubile; ha inoltre osservato che la sussistenza del nucleo familiare non presuppone il coniugio ed include l’ipotesi di figli naturali riconosciuti dai genitori (ovviamente) non coniugati tra loro e che il componente del nucleo familiare cui spetta l’assegno, non indicato dalla legge n. 153 del 1988, deve essere individuato alla stregua delle norme contenute nel T.U. sugli assegni familiari approvato con d.p.r. 1955, n. 797 (cui appunto rimanda lo stesso art.2, comma terzo, della stessa legge del 1988). Il T.U. cit. riconosce legittimato alla riscossione degli assegni familiari per i figli, quale capo-famiglia, il padre, ovvero la madre vedova o nubile con prole non riconosciuta dal padre; ai figli legittimi equipara, poi, quelli naturali legalmente riconosciuti. Peraltro, ha affermato il giudice di appello, non è previsto il requisito della convivenza, ma solo la circostanza che il capo famiglia provveda abitualmente al mantenimento dei figli il che è oggetto di presunzione assoluta in caso di convivenza dovendosi, altrimenti, provare la vivenza a carico. Inoltre, dalla disposizione secondo cui la madre nubile è riconosciuta quale capo-famiglia se la prole non è riconosciuta dal padre dovrebbe desumersi, secondo il giudice di appello, che, in caso di riconoscimento anche da parte del padre naturale, questi debba essere considerato capo famiglia ai fini della corresponsione degli assegni.

Osserva la Corte, a proposito di quest’ultima considerazione, che già nel vigore del Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari di cui al d.p.r. 30 maggio 1955, n.797 (come noto, tale disciplina è rimasta in vigore anche dopo l’entrata in vigore del d.l. 13 marzo 1988, n.69, convertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 151, per talune categorie di assicurati come i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori cui gli assegni familiari sono stati estesi con particolari disposizioni di legge, i coltivatori diretti, mezzadri, coloni, compartecipanti familiari e piccoli coloni, i pensionati delle gestioni speciali lavoratori autonomi, e particolari categorie di marinai imbarcati) la convivenza assumeva rilievo solo perché da essa derivava la presunzione della vivenza a carico del capo famiglia dei figli e delle persone equiparate, mentre in mancanza di convivenza la prova della vivenza a carico poteva essere fornita anche con atto notorio ex art. 5, comma secondo (introdotto con l’art. 2 legge 17 ottobre 1961 n. 1038), T.U. cit.. Era dunque la vivenza a carico (non già la convivenza) che, vista dalla parte dei soggetti per i quali era apprestata la tutela, veniva a concretizzare lo stato di bisogno del lavoratore dipendente assicurato (che al sostentamento di tali soggetti componenti del suo nucleo familiare deve provvedere, appunto come capofamiglia) e cioè l’evento protetto della particolare tutela assicurativa. Ma, come ebbe modo di osservare la dottrina per gli assegni familiari, la stessa nozione di capo famiglia era concetto che, lungi dal connotare uno status ben individuato, vale a dire una figura aprioristicamente individuabile in sè prima della verifica delle altre condizioni per l’erogazione degli assegni, era strettamente correlata proprio alla situazione intersoggettiva di prevalente connotazione economica della vivenza a carico. Infatti, l’art. 3 T.U. cit., dopo avere indicato nel padre il capofamiglia, riconosceva di volta in volta la stessa qualifica ad altri componenti del nucleo familiare, per il solo dato fattuale della loro impossibilità di provvedere al mantenimento dei familiari tutelati. Si è così parlato di una ambulatorietà della qualifica di capo famiglia, riconosciuta progressivamente a soggetti in diversa posizione familiare (la madre vedova o nubile con prole non riconosciuta dal padre, o separata o abbandonata dal marito e con a carico i figli, ecc.; i prestatori di lavoro che abbiano a carico fratelli o sorelle o nipoti in ragione di particolari eventi riguardanti il padre; ecc.) aventi, tuttavia, il dato comune della capacità, attraverso (in genere) lo svolgimento di una attività di lavoro dipendente, di assumersi il carico dei familiari per i quali gli assegni vengono corrisposti.

Conclusivamente, nel sistema del T.U. sugli assegni familiari, la convivenza non costituiva affatto un requisito necessario per il diritto a quel particolare trattamento assicurativo. La legge n. 153 del 1988 cit., introducendo l’assegno per il nucleo familiare ha configurato un istituto sensibilmente diverso da quello degli assegni familiari e relative maggiorazioni, in quanto ha teso a realizzare, anziché una integrazione economica della retribuzione del lavoratore capo famiglia considerata inadeguata in via presuntiva per la sola esistenza del carico familiare, una integrazione del reddito del nucleo familiare, pur corrisposta non in favore dei familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo familiare complessivamente considerato e in relazione ad un accertamento in concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra il numero dei componenti il nucleo familiare e l’ammontare del reddito complessivo dello stesso. Nel nuovo sistema, secondo autorevole dottrina, il nucleo familiare deve essere individuato in relazione al soggetto richiedente l’assegno e di tale nucleo fanno indubbiamente parte il padre e i figli ed equiparati ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. 26 aprile 1957, n. 818 (e tra essi i figli naturali legalmente riconosciuti).

Infatti, tra le norme del T.U. sugli assegni familiari di cui al d.p.r. 30 maggio 1955, n. 797, sopravvissute alla riforma, rientra sicuramente l’art. 1 che individuava i soggetti per i quali gli assegni familiari spettavano. Sotto un profilo dogmatico può discutersi se, trattandosi di assegno per il nucleo familiare, possa parlarsi di titolarità di esso in capo (nell’ipotesi ora in esame) al padre o se costui non sia piuttosto il soggetto legittimato alla riscossione e il titolare dell’azione nelle controversie amministrative o giudiziarie eventuali (art. 57 T.U. cit.). Resta, comunque, che i soggetti in relazione ai quali il nuovo trattamento viene riconosciuto sono qualificati dalla loro appartenenza al nucleo familiare, anche se, come riconosciuto dalla dottrina attenta al nuovo istituto, non sono conviventi e non sono a carico del richiedente per avere redditi propri, essendo rilevante, ai fini della percezione della prestazione, il reddito familiare complessivamente considerato.

Del tutto estranee alla prestazione dell’assegno per il nucleo familiare sono, conseguentemente, anche la posizione di capo famiglia e la c.d. vivenza a carico.

Vero è, in astratto, che la relazione parentale tra la figlia naturale riconosciuta ed i genitori (questi non legati tra loro da coniugio e, quindi, non facenti parte dello stesso nucleo familiare) potrebbe astrattamente condurre alla identificazione di due nuclei familiari (agli effetti del trattamento in questione) dei quali la figlia verrebbe a far parte contemporaneamente, ma la apparente anomalia trova una sua composizione nel divieto di cumulo di prestazioni sancito dall’art. 2, comma 8-bis (introdotto in sede di conversione) del d.l. n. 69 del 1988 cit.. Dispone tale norma che per lo stesso nucleo familiare non può essere concesso più di un assegno e che per i componenti il nucleo familiare cui l’assegno è corrisposto, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante. La seconda disposizione opera, dunque, nel senso che, qualora per la figlia, quale componente del nucleo familiare cui l’assegno è corrisposto, dovesse prospettarsi in astratto la corresponsione di analogo assegno nel nucleo facente capo all’altro genitore, opererebbe automaticamente la preclusione per uno dei due trattamenti a lei riferibili.

Le considerazioni che precedono portano, infine, ad escludere qualsiasi rilevanza, ai fini dell’assegno per il nucleo familiare, delle disposizioni regolanti l’esercizio della potestà genitoriale, l’affidamento della prole e l’attribuzione degli assegni familiari secondo la disciplina previgente. A tale riguardo deve, pertanto, essere, in linea di massima, condiviso il rilievo del Tribunale circa l’ininfluenza ai fini della decisione della disposizione di cui all’art. 317 bis c. civ., secondo cui tra genitori che abbiano riconosciuto un figlio naturale, l’esercizio della potestà spetta al genitore che con esso conviva, trattandosi di norma speciale non incidente sull’obbligo di mantenimento; del pari ininfluente sarebbe il disposto dell’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 11 151 secondo cui il coniuge affidatario dei figli ha diritto in ogni caso agli assegni familiari per gli stessi anche se di essi sia titolare l’altro coniuge, trattandosi di fattispecie non comparabile con quella concreta oggetto della presente controversia e di disciplina non suscettibile di interpretazione analogica.

Infine, è opportuno sottolineare che proprio per la considerazione, pure svolta dalla dottrina, che l’assegno per il nucleo familiare vuole realizzare la tutela dal bisogno secondo il moderno concetto della sicurezza sociale, tendente a garantire le esigenze minime nei confronti di collettività più o meno estese, a seconda delle scelte politiche, con ricorso più o meno rilevante alla solidarietà sociale, ad assicurare, inoltre, ai soggetti componenti il nucleo, una esistenza libera dal bisogno, e a tutelare, altresì, l’interesse superiore familiare all’allevamento della prole (art. 31 Cost.), la soluzione accolta evita che, nell’ipotesi in cui la madre naturale con la quale la figlia conviva non abbia diritto alla percezione dell’assegno in quanto non lavoratrice dipendente (in servizio o in pensione), venga – sotto il profilo sostanziale – pregiudicata anche la posizione della figlia naturale riconosciuta da entrambi i genitori per il solo fatto di non convivere con il padre (peraltro egualmente tenuto al suo mantenimento ed alla sua educazione: art. 261 c. civ.) lavoratore dipendente (in servizio o in pensione)”.

Del resto, l’irrilevanza della convivenza anagrafica è già stata stabilita dalla consolidata giurisprudenza che riconosceva il diritto agli assegni oggetto di causa anche allo straniero i cui figli siano residenti all’estero (in tal senso, ex multis Corte di Appello Sezione Lavoro Sentenza n. 814/2020 pubbl. il 16/11/2020).

Inoltre, nel caso di specie, a fronte di quanto imposto dal Tribunale nella citata ordinanza, non vi è dubbio che …. concorra al mantenimento del figlio. Nel caso di specie, non vi è nemmeno rischio di duplicazioni nella richiesta di versamento degli assegni al nucleo familiare, risultando pacificamente la madre lavoratrice autonoma.

Deve essere, pertanto, accertato il diritto del ricorrente a percepire l’assegno per il nucleo familiare per il periodo 1.7.2016 – 30.6.2022. Salva rivalsa nei confronti di I.N.P.S., … S.P.A. deve essere condannata a pagare al ricorrente la somma di € 2.828,60 oltre accessori di legge. Deve essere, infatti, respinta la sollevata eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata da … S.P.A. Infatti, per tutto il periodo oggetto di causa, il datore di lavoro è, quale adiectus solutionis causa, tenuto al pagamento degli assegni. Infatti, secondo l’art. 37, comma 1, del D.P.R. 30.05.55, n. 797, “gli assegni familiari sono corrisposti agli aventi diritto a cura del datore di lavoro alla fine di ogni periodo di pagamento della retribuzione”, con il successivo conguaglio da parte dell’Istituto delle somme versate. Inoltre, proprio per la coesistenza di due nuclei familiari che derivano dalla mancata convivenza tra i genitori ed il minore, risulta corretto il computo operato da parte ricorrente sulla base del reddito del solo ricorrente, unico legittimato attivamente alla proposizione della domanda di pagamento degli assegni oggetto di causa. A detta di I.N.P.S., la domanda avrebbe dovuto essere presentata dalla madre del minore, “sulla posizione tutelata dell’altro coniuge o ex coniuge”. Ebbene, rilevato che la madre non ha pacificamente presentato domanda alcuna, tale situazione non può comunque precludere la domanda del padre, che è lavoratore subordinato. Se così non fosse, infatti, la posizione del minore verrebbe pregiudicata dal mancato riconoscimento di un sostegno economico in favore di un genitore che contribuisce al mantenimento del figlio.

Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere accolto, restando disattesa o assorbita ogni questione ulteriore di cui in atti, in quanto superflua ai fini del decidere.

Tenuto conto della complessità della causa, sussistono idonei motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra parte ricorrente e la datrice di lavoro … S.P.A.

In applicazione dell’articolo 91 c.p.c., I.N.P.S., in quanto soccombente, va condannato a rimborsare al difensore di parte ricorrente, avv…., anticipataria, le spese di lite determinate come da dispositivo. Le spese sono liquidate tenuto conto del valore della causa e della sua complessità, nonché dell’assenza di attività istruttoria.

Sentenza esecutiva ex art. 431 cpc.

PQM

Disattesa o assorbita ogni diversa istanza o eccezione, accerta il diritto del ricorrente a percepire l’assegno per il nucleo familiare per il periodo 1.7.2016 – 30.6.2022. Salva rivalsa nei confronti di I.N.P.S., condanna … S.P.A. a pagare al ricorrente la somma di € 2.828,60 oltre accessori di legge. Dichiara compensate le spese di lite tra parte ricorrente e … S.P.A.

Condanna I.N.P.S. al pagamento delle spese di lite, liquidate nella misura complessiva di Euro 900,00, oltre spese generali 15% e accessori di legge, oltre al rimborso delle spese di contributo unificato nella misura di euro 43,00, con distrazione in favore del difensore di parte ricorrente, antistataria. Fissa il termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione. Sentenza esecutiva.

Milano, 14/03/2023

Diritto all’assegno per il nucleo familiare
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