La denuncia del datore di lavoro da parte del lavoratore di reati commessi a suo danno legittima il licenziamento in tronco.

Nota a Cass. 20 luglio 2023, n. 21766

Francesca Albiniano

La Corte di Cassazione (20 luglio 2023, n. 21766) ribadisce alcuni principi in materia di denuncia da parte del lavoratore all’autorità giudiziaria relativa a presunti reati commessi dal datore di lavoro, ritenendo che, nella fattispecie, la condotta addebitata (caratterizzata dalla consapevolezza della insussistenza dei plurimi e gravi illeciti denunciati con la presentata denuncia querela) fosse “idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e tanto grave dal punto di vista oggettivo e soggettivo da far escludere che una sanzione conservativa potesse consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”.

La Corte poi rinvia ai principi espressi da Cass. n. 22375/2017 secondo cui, la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro – a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e purché il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti – non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

È irrilevante poi che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con archiviazione della “notitía criminis” o con sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.

Diversamente da quanto avviene per l’esercizio del diritto di critica, nell’ipotesi di denuncia e di querela non rilevano altresì i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.

Nel valutare la ricorrenza della giusta causa ed il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva il giudice deve attenersi:

–  alla posizione delle parti;

– al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente;

– agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto;

– alla portata soggettiva dei fatti, “ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo” (nel caso concreto emergeva la non autenticità delle informazioni divulgate e che il prestatore non aveva agito in buona fede);

– al danno eventualmente arrecato;

– alla necessità di rispettare le disposizioni contenute nei contratti collettivi in merito alle tipizzazioni degli illeciti disciplinari.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 luglio 2023, n. 21766

Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Reintegrazione nel posto di lavoro – Risarcimento del danno – Danno all’immagine della società – Contestazione disciplinare – Insussistenza degli illeciti penali – Elemento soggettivo colposo – Buona fede dell’informatore – Autenticità delle informazioni divulgate – Rigetto

Fatti di causa

1.La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza n. 452 del 2015, in riforma della sentenza del Tribunale di Bologna, ha respinto il ricorso proposto da M.D. nei confronti della società C.E. srl volto alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole il 3 marzo 2008 e alla conseguente condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato e al risarcimento del danno quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso sino a quella della effettiva riammissione in servizio ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

2.La Corte territoriale ha premesso che all’appellante era stato contestato di avere presentato una denuncia querela in data 20.12.2007 nei confronti del legale rappresentante della società datrice di lavoro, accusandolo di avere commesso in suo danno, nelle giornate del 4, 17 e 24 ottobre del 2007, i reati previsti dagli artt. 572, 582, 594, 56 e 610 e 612 c.p. e, ciononostante, le accuse non fossero veritiere.

3. Il giudice di appello ha escluso la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare ritenendo che il riferimento al danno all’immagine della società, contenuto nella sola comunicazione del licenziamento e non anche nella contestazione disciplinare costituiva non integrazione della originaria contestazione ma solo esplicitazione di un effetto scaturente, secondo l’ “id quod plerumque accidit” dalla denuncia querela e che il diritto di difesa della lavoratrice non era stato minimamente vulnerato.

4. Richiamati i principi affermati da questa Corte in tema di proporzionalità tra fatti addebitati disciplinarmente e sanzione adottata, ed affermato che il diritto di critica, al pari del diritto di denuncia, deve essere esercitato nel rispetto dei limiti fissati dal principio di continenza formale e sostanziale e della “verità quanto meno opinata”, ha ritenuto che siffatti limiti fossero stati travalicati. Tanto sul rilievo che era risultato provato che la denuncia querela era stata archiviata in sede penale e che, di contro, dalle deposizioni testimoniali era emerso che nei giorni del 4, 17 e 24 ottobre del 2007 il legale rappresentante della società, lungi dal porre in essere comportamenti anche solo inurbani, si era limitato a tentare di consegnare alla lavoratrice una missiva e ad invitare la medesima a lasciare il luogo di lavoro in esecuzione del provvedimento disciplinare di sospensione dal lavoro adottato nei suoi confronti.

5. La condotta addebitata è stata ritenuta dalla Corte territoriale idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e tanto grave dal punto di vista oggettivo e soggettivo da far escludere che una sanzione conservativa potesse consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. La Corte territoriale nella formulazione del giudizio di gravità della condotta e di proporzionalità della sanzione espulsiva ha ritenuto irrilevante la circostanza che dalla condotta della lavoratrice non fosse derivato alcun danno all’immagine della società. Ha, infine, affermato che, vertendosi in tema di licenziamento per giusta causa, la dedotta sussistenza di una incapacità temporanea assoluta a rendere la prestazione lavorativa avrebbe al più condizionato l’efficacia del licenziamento sino alla guarigione o al superamento del periodo di comporto.

6. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22375/2017, in parziale accoglimento del ricorso presentato dalla lavoratrice ha cassato la suddetta sentenza con rinvio alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, la quale, alla luce delle allegazioni contenute negli scritti difensivi delle parti nel giudizio di primo grado, doveva procedere ad un nuovo esame della causa attenendosi ai principi di diritto di seguito enunciati: “Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti. E’ di per sé sola irrilevante la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della “notitia criminis” o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa. A differenza delle ipotesi in cui è in discussione l’esercizio del diritto di critica, nelle ipotesi di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio. La valutazione in ordine alla ricorrenza della giusta causa e al giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo. Le disposizioni contenute nei contratti collettivi in punto di tipizzazioni degli illeciti disciplinari non possono essere disattese dal giudice”.

7. La Corte distrettuale, quale giudice di rinvio, ha accolto nuovamente l’appello originariamente proposto dalla C.E. srl, respingendo le domande formulate in primo grado da M.D..

8. I giudici del rinvio, a fondamento della decisione, hanno ritenuto che gli elementi di prova acquisiti fossero stati tali da ravvisare, in capo alla predetta D., la consapevolezza della insussistenza dei plurimi e gravi illeciti denunciati con la presentata denuncia querela.

9. Avverso tale sentenza M.D. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico articolato motivo tre motivi cui ha resistito con controricorso la C.E. srl.

10. La Procura Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

Ragioni della decisione

1.Con l’unico articolato motivo si denuncia la violazione e/o falsa e/o non corretta applicazione di norme di diritto, con riguardo all’art. 384 cpc, all’art. 360 co. 1 n. 3, all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, agli artt. 115 e 116 cpc nonché agli artt. 595 e/o 368 cp, agli  artt. 2727 e 2729 cc, in relazione all’art. 7 legge n. 300/1970, agli artt. 1 e 3 Legge n. 604/66, per non avere la Corte di appello di Bologna, nel procedimento di rinnovazione instaurato da essa ricorrente ex art. 392 cpc, deciso in conformità ai principi di diritto enunciati dalla sentenza della Corte di cassazione n. 22375/2017 e, comunque, per avere omesso di decidere circa un fatto decisivo della controversia rappresentato dall’accertamento sull’elemento soggettivo del dolo specifico che deve caratterizzare la condotta del dipendente che sporge denuncia nei confronti del datore di lavoro e sulla totale mancanza di danno/conseguenza in capo a quest’ultimo in conseguenza di tale denuncia.

2. Il motivo è infondato.

3. Il giudizio di rinvio, quale disciplinato dagli artt. 392 e ss. cpc, è un processo ad istruzione sostanzialmente chiusa, in cui è preclusa la proposizione di nuove domande (Cass. n. 19950 del 2004; Cass. n. 10046 del 2002; Cass. n. 1437 del 2000).

4. Infatti, tendendo il giudizio in questione ad una nuova pronuncia in sostituzione di quella cassata, nei limiti rigorosamente segnati dalla sentenza di cassazione, intangibile da parte del giudice di rinvio, la materia del contendere non può che essere quella di cui al procedimento nel quale è stata pronunciata la sentenza cassata, sebbene con gli adeguamenti e le limitazioni imposte dalla sentenza di cassazione.

5. Inoltre, nel giudizio di rinvio le prove raccolte nella pregressa fase di merito continuano ad esplicare tutta la loro efficacia giuridica e possono legittimamente essere usate dal magistrato in relazione agli accertamenti da eseguire per il giudizio di rinvio.

6. Nel caso concreto, la Corte felsinea si è attenuta a tali principi processuali e, con un accertamento di merito, esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, nuova formulazione, ratione temporis applicabile, ha ritenuto che la lavoratrice, al momento della presentazione della querela, fosse pienamente consapevole della insussistenza dei plurimi e gravi illeciti attribuiti al Cavalieri, avendo a quest’ultimo addebitato numerosi comportamenti penalmente rilevanti e rivelatisi del tutto insussistenti.

7. La stessa Corte ha rilevato anche la impossibilità di ravvisare un elemento soggettivo colposo attesa la mancanza di ogni riscontro probatorio in ordine alla denuncia presentato, del resto, a distanza di mesi dagli episodi in essa riportati; ha escluso, inoltre, un qualsivoglia comportamento vessatorio subito dalla D. che avrebbe potuto giustificare il suo comportamento ed ha sottolineato, infine, la non decisività, nel caso concreto, ai fini della giusta causa, dell’assenza del nocumento eventualmente arrecato alla società.

8. La Corte distrettuale ha, quindi, svolto un accurato esame sulla piena consapevolezza della lavoratrice della insussistenza degli illeciti penali attribuiti al Cavalieri, così conformandosi al principio di diritto statuito dalla sentenza di cassazione con rinvio, come sopra riportato.

9. Tale decisione è conforme, altresì, alla giurisprudenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo (Corte EDU – Grande Camera- del 14.2.2023, Halet c/Lussemburgo) non potendosi ipotizzare, nel caso de quo, una violazione dell’art. 10 della Convenzione stante l’assenza di due dei criteri indicati dalla giurisprudenza europea citata: l’avere agito l’informatore in buona fede e l’autenticità delle informazioni divulgate.

10. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

11. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

12. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Accuse non veritiere e licenziamento
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