Il licenziamento della lavoratrice madre è possibile solo nel caso in cui si verifichi la cessazione dell’intera attività aziendale.
Nota a Cass. (ord.) 19 dicembre 2023, n. 35527
Francesco Belmonte
Ai fini dell’esclusione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre nel caso di cessazione dell’attività aziendale, è necessaria una lettura rigorosa del concetto di “cessazione dell’attività”, disciplinato dall’art. 54, co. 3, lett. b), D.LGS. n. 151/2001, escludendo dal suo perimetro operativo “ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga”.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione 19 dicembre 2023, n. 35527, in merito ad una fattispecie concernente il licenziamento di una madre lavoratrice (rientrata in azienda dopo il godimento del congedo di maternità), intimato dalla Curatela fallimentare della Cooperativa presso cui era impiegata.
La lavoratrice impugnava il licenziamento in ragione del divieto sancito dall’art. 54, D.LGS. n. 151/2001, sostenendo che il fallimento aveva in corso attività conservative dell’impresa (e non di liquidazione) in vista di una possibile cessione, per la quale si stava procedendo alla selezione del personale da mantenere in servizio.
La questione di diritto sottoposta alla Corte concerne l’interpretazione del concetto giuridico di “cessazione dell’attività dell’azienda“, contemplata dal T.U. sulla maternità e paternità e declinata in relazione alla nozione di esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104, co.1 e 2, R. D. n. 267/42 (c.d. legge fallimentare).
Per la Cassazione, ai fini della tutela della lavoratrice madre, «il quesito cui occorre dare una risposta è relativo al fatto se debba prevalere una concezione sostanziale (naturalistica) o formale (giuridica) dell’evento “cessazione”: infatti, ai sensi della disposizione di cui all’art. 104 legge. fall., con la sentenza dichiarativa di fallimento si ha una cessazione formale dell’attività, salvo il suo esercizio provvisorio autorizzato in presenza di particolari presupposti; l’art. 54 co. 3, lett. b), D.LGS. n. 151/2001 fa riferimento, invece, unicamente all’avvenimento della “cessazione”».
Per la soluzione della questione, è opportuno evidenziare alcuni principi riguardanti la ratio, la natura giuridica ed il contenuto dell’art 54 citato.
La necessità di sanzionare “quei trattamenti penalizzanti che possono essere riservati alle donne coniugate, in stato interessante, o ancora con figli in età prescolare, in realtà non è nuova ed era già stata disciplinata dalla previgente legislazione”. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla norma di apertura della prima legge sulla parità di trattamento (art. 1, co. 2, L. n. 903/1977), la quale vietava qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda l’accesso al lavoro, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza; nonché, inter alia, al divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza, che opera dal momento del concepimento e fino al compimento del primo anno di vita del bambino (regolato dapprima dalla L. n. 1204/1971, oggi trasfuso nell’art. 54, D.LGS. n. 151/2001).
La stessa giurisprudenza di legittimità ha precisato che la disposizione di cui all’art. 54, prevedendo limiti precisi e circoscritti per la deroga al generale divieto di licenziamento della lavoratrice, non può essere interpretata in senso estensivo (Cass. n. 13861/2021).
Infatti, l’eccezione al divieto opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, “sicché, trattando di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto della azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale” (Cass. n 22720/2017, in q. sito con nota di F. BELMONTE; Cass. n. 14515/2018).
Sulla scorta di tali affermazioni, la Suprema Corte predilige un’interpretazione sostanziale del concetto di “cessazione dell’attività”, affermando che per escludere la possibilità del licenziamento della madre lavoratrice è sufficiente la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga. Nel caso di specie, le residuali attività conservative, attuate contestualmente e successivamente alla dichiarazione di fallimento, in funzione di trasferimento a terzi, non possono legittimare il recesso.