Le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sono nulle, salvo che siano dalla medesima confermate entro un mese alla Direzione del lavoro.

Nota a Cass. (ord.) 26 aprile 2024, n. 11236

Kevin Puntillo

La Corte di Cassazione (ord. 26 aprile 2024, n, 11236) chiarisce alcuni principi alla base delle dimissioni per causa di matrimonio, rilevando che:

– la legge (art. 35, co.4, D.Lgs. n. 198/2006) si limita a prevedere la nullità, in mancanza di conferma, delle dimissioni rese dalla lavoratrice durante l’anno dal decorso del matrimonio, ma “non prevede che il lavoratore abbia l’onere di confermarle (dovendo altrimenti ritenersi addebitabile allo stesso l’invalidità)”;

– ove manchi la conferma dinanzi alla Direzione del lavoro, le dimissioni della lavoratrice sono qualificate come nulle “a prescindere dal fatto di chi avesse un interesse e/o un onere a far sì che le dimissioni fossero confermate dinanzi all’ufficio” e indipendentemente da come e perché la convalida non ci sia stata;

– l’art. 35 richiamato non prevede un invito alla conferma delle dimissioni, ma si limita a stabilire la nullità in mancanza di detta conferma;

– “rientra nell’interesse datoriale – che non voglia rimanere esposto alla azione di nullità della lavoratrice – avere certezza della conferma delle dimissioni, quindi dell’estinzione del rapporto”.

Sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 aprile 2024, n. 11236

Lavoro – Dimissioni – Nullità – Recesso tacito – Novazione oggettiva del rapporto – Rigetto

Fatti di causa

La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza in atti, ha rigettato l’appello principale proposto da T.M. S.p.A. avverso la sentenza del tribunale di Pistoia che aveva accolto la domanda di P.P. dichiarando la nullità delle dimissioni per essere state le stesse rese nel periodo di cui all’art. 35 decreto legislativo n. 198/2006 condannando T.M. S.p.A. alla riammissione della P. nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al pagamento della retribuzione globale di fatto dal 21/9/2013 fino alla reintegra oltre accessori di legge dedotto l’aliunde perceptum.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione le T.M. S.p.A. con quattro motivi di ricorso ai quali ha resistito P.P. con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.

Ragioni della decisione

1.- Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 35, comma 4 decreto legislativo 198/2006 ex art. 360 n. 3 c.p.c. per aver ritenuto nulle, per mancata conferma in sede amministrativa in pendenza di periodo matrimoniale, le dimissioni presentate dalla dott.ssa P. al mattino del 5/8/2010, seppur in presenza della contestuale nomina della stessa quale amministratore unico della società.

1.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Con tale motivo si sostiene che la Corte d’appello, qualificando come nulle le dimissioni e ritenendo come mai estinto il rapporto di lavoro inter parte, sia incorsa in una evidente violazione e falsa applicazione della normativa citata; anzitutto perché le dimissioni rese dalla dott.ssa P. non potevano ritenersi nulle per mancata conferma, in quanto tale conferma avrebbe dovuto essere resa dalla dott.ssa P. davanti a se stessa, visto che ella era stata nominata quello stesso pomeriggio del 5/8/2010 amministratore unico. Andava poi considerato che la nomina di amministratore era tutt’altro che fittizia, come attestato lo stesso tribunale di Pistoia.

1.2. Deve essere premesso che l’art. 35, 4° comma, d.lgs. n. 198/2006 prevede che sono nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, salvo che siano dalla medesima confermate entro un mese alla Direzione del lavoro.

1.3. In relazione al primo motivo la Corte d’appello ha affermato, succintamente, esaminando il secondo motivo d’appello proposto da M.T., che al momento delle dimissioni l’amministratore unico in carica era ancora il precedente amministratore e, pertanto, era tale parte che doveva semmai invitare la lavoratrice per la conferma delle dimissioni.

1.4. Inoltre deve essere evidenziato che la Corte di appello ha aggiunto (in più punti della sentenza), ed in particolare nel rigettare il primo motivo d’appello col quale M.T. sosteneva che nella specie si sarebbe verificata una novazione oggettiva del rapporto reso inter partes – con cui le parti avevano inteso sostituire al rapporto di lavoro subordinato un nuovo rapporto avente un titolo diverso (amministratore unico) -, che risultava provato in atti che la dottoressa P. nel corso dell’incarico di amministratore unico continuò a svolgere le mansioni di responsabile amministrativo che aveva precedentemente; arrivando a concludere che il permanere delle pregresse mansioni in capo alla P. preclude la configurabilità dell’istituto della novazione evocato da T.M. S.p.A., venendo a mancare quell’elemento di novità che caratterizza il negozio normativo.

1.5. Tale ratio decidendi, non impugnata in cassazione, non può non influire sulla stessa efficacia delle dimissioni in discorso ed anche sulla consistenza della tesi secondo cui la ricorrente sarebbe stata in sostanza lavoratrice subordinata di se stessa (esaminata dalla Corte nel secondo motivo); che è comunque una conclusione che non si condivide neppure in tesi, rimanendo comunque la datrice di lavoro la T.M. S.p.A. e non certamente il suo amministratore unico.

1.6. Peraltro, la norma di legge si limita a prevedere la nullità delle dimissioni rese dalla lavoratrice durante l’anno dal decorso del matrimonio. E stabilisce che le dimissioni siano nulle in mancanza di conferma; non prevede che il lavoratore abbia l’onere di confermarle (dovendo altrimenti ritenersi addebitabile allo stesso l’invalidità). In mancanza della conferma dinanzi all’ufficio le dimissioni della lavoratrice sono quindi qualificate come nulle a prescindere dal fatto di chi avesse un interesse e/o un onere a far sì che le dimissioni fossero confermate dinanzi all’ufficio.

Ed a nulla vale sotto questo profilo, e nel contesto considerato, il tempo trascorso tra l’azione di impugnativa della lavoratrice e la data in cui le dimissioni erano state rese, trattandosi di nullità delle stesse.

L’art. 35 non prevede comunque un invito alla conferma delle dimissioni e si limita soltanto a stabilire la nullità in mancanza di conferma; evidente che rientra nell’interesse datoriale – che non voglia rimanere esposto alla azione di nullità della lavoratrice – avere certezza della conferma delle dimissioni quindi dell’estinzione del rapporto. La norma prevede che in mancanza di convalida le dimissioni della lavoratrice entro un anno dal matrimonio sono nulle a prescindere, quindi, da come e perché la convalida non ci sia stata.

1.7. Né rileva il profilo sollevato circa l’interesse personale che la lavoratrice ha sicuramente avuto nel far valere i propri diritti, trattandosi evidentemente dell’esercizio di un diritto a fronte di una sanzione di nullità stabilita dall’ordinamento.

2.- Con il secondo motivo si sostiene la violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c. e dell’art. 35, 4 comma, decreto legislativo n. 198/2006 ex art. 360 n. 3 c.p.c. per avere escluso la configurabilità di un recesso tacito della dott.ssa P. dal rapporto di lavoro seppure in presenza di una cessazione di fatto del rapporto, dovuta alla sua assunzione della carica di amministratore unico, anche una volta spirato il periodo matrimoniale protetto. Con tale motivo si censura la violazione della normativa in tema di dimissioni e cioè sia quella speciale dell’art. 35 ma soprattutto quella comune dell’art. 2118 c.c., che sarebbe stata violata e male applicata dalla Corte d’appello anche perché le dimissioni sono state rassegnate il 5 agosto del 2010 e la nullità è stata fatta valere per la prima volta soltanto con il ricorso introduttivo al tribunale di Pistoia notificato il 14/4/2014. Andava considerato, a parere della ricorrente, che, secondo la giurisprudenza, in caso di mancata conferma delle dimissioni in sede amministrativa l’interruzione di fatto delle prestazioni di lavoro da parte della lavoratrice valga come recesso tacito del rapporto qualora si protragga oltre la scadenza del periodo stesso o quella, se successiva, del termine per la conferma delle dimissioni (Cassazione nn. 10817/2011 e 1159/1992).

Nel caso specifico la dottoressa P. ha fatto valere la presunta nullità delle proprie dimissioni per la prima volta con il ricorso introduttivo del giudizio e quindi circa tre anni e mezzo dopo il termine del periodo protetto a causa di matrimonio. Non solo, nel mezzo di questo periodo la dottoressa P. ha accettato la nomina ad amministratore unico della società lo stesso 5/8/2010 e svolto le relative funzioni ed accettato una seconda volta la nomina ad amministratore unico e svolto le relative funzioni il 9/6/2011 dunque ben aldilà della scadenza del periodo protetto.

La Corte d’appello non ha quindi considerato che nel frattempo era maturata la cessazione di fatto delle prestazioni di lavoro che si era protratta sino a oltre il periodo protetto dalla norma normativa speciale di cui all’articolo 35 d.lgs. n. 198 del 2006 ed aveva dunque determinato un recesso tacito della dottoressa P. dal rapporto di lavoro.

Il secondo motivo è infondato. A prescindere dalla opinabilità della tesi secondo cui la protrazione della cessazione oltre il periodo protetto determinerebbe un recesso tacito, che introduce di fatto una sanatoria della nullità comminata dalla legge – anche questo motivo non può essere accolto dal momento che la Corte d’appello, come già detto, ha affermato più volte che la lavoratrice ha continuato a lavorare anche nel periodo di amministratore unico, facendo le stesse mansioni, e quindi in realtà non è mai receduta dal rapporto.

Inoltre, la tesi del recesso tacito dal rapporto non risulta proposta espressamente in appello nei quattro motivi devoluti alla Corte d’appello ed anche da questo punto di vista la stessa censura deve ritenersi inammissibile ed in ogni caso deve ritenersi implicitamente respinta, atteso l’accertamento della perduranza del rapporto.

3.- Con il terzo motivo si sostiene l’omessa pronuncia su motivo di appello ex art. 360 n. 4 c.p.c., per non aver pronunciato sulla questione del recesso tacito del rapporto di cui al motivo che precede seppur sollevata come motivo di appello; la censura di cui al secondo motivo è stata proposta in alternativa anche sotto il profilo dell’omessa pronuncia circa una delle deduzioni contenute nel motivo di appello.

3.1. Il terzo motivo, sulla omessa pronuncia del vizio denunciato col medesimo motivo d’appello sulla questione del recesso tacito dal rapporto, deve essere respinto per le medesime ragioni del secondo motivo. Non solo il motivo non risulta proposto specificamente in appello, ma quand’anche fosse sussistente il vizio di omessa pronuncia il motivo di ricorso sarebbe inammissibile perché infondato nel merito.

Come già detto la questione della configurabilità di un recesso tacito non risulta posta nel secondo motivo d’appello trascritto in ricorso il quale si riferisce alla novazione del rapporto sia in occasione dell’assunzione del primo, sia in occasione del secondo mandato (la conferma nei fatti delle dimissioni e la novazione del rapporto; e non era inteso a far valere il recesso tacito del rapporto di lavoro ma la conferma di una successiva novazione col secondo incarico).

4- Come quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206 e 1217 c.c., dell’art. 35, comma 4 decreto legislativo n. 198/2006 ex art. 360 n. 3 c.p.c., per aver ritenuto che l’obbligo retributivo conseguente alla nullità delle dimissioni sia decorso seppur in assenza di un valido atto di messa in mora.

4.1.- Il quarto motivo non può essere accolto perché la Corte d’appello, nel leggere la missiva del 21/9/2013, ha sostenuto che essa appariva chiara nel suo contenuto laddove la dottoressa P. precisava di essere a disposizione per la prosecuzione del lavoro, premettendo al contempo “invero come ben noto la sottoscritta non ha mai abbandonato le funzioni e le responsabilità che hanno caratterizzato il periodo precedente la nomina ad amministratore unico e quindi fino al 31 luglio 2013”.

Secondo La Corte, con tale lettera, non solo l’appellata effettuava una vera e propria offerta della sua prestazione, ma tale offerta era ben dettagliata in relazione alle mansioni oggetto della stessa: la prestazione offerta era quindi quella relativa alle mansioni di responsabile amministrativo che la stessa aveva continuato a svolgere anche durante il periodo in contestazione. Correttamente il tribunale aveva quindi fatto decorrere dal 21/9/2013 gli importi dovuti in conseguenza della riammissione.

Il motivo proposto non è neanche centrato sulla ratio decidendi assunta dalla Corte d’appello che è tale da essere riferita a tutti gli atti del pregresso periodo (dimissioni e licenziamento post periodo di collaborazione); da nessuna parte risulta che la lettera si riferisse solo al licenziamento; in ogni caso il vizio dedotto senza la violazione dei criteri ermeneutici applicabili anche agli atti unilaterali è del tutto inammissibile perché si risolve in una censura di fatto, oltre tutto in una fattispecie di “doppia conforme”.

5.- Pertanto, alla stregua delle premesse il ricorso de quo va respinto.

6.- Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della parte controricorrente; segue altresì il raddoppio del contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Dimissioni per causa di matrimonio
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