Per licenziare il dipendente che abbia raggiunto i requisiti contributivi il datore di lavoro pubblico è tenuto a motivare la sua scelta, indicando le ragioni organizzative che pongono l’esigenza di un ricambio generazionale.

Nota a Cass. 6 giugno 2016, n. 11595

Gennaro Ilias Vigliotti

Le norme vigenti in materia di risoluzione del rapporto di lavoro pubblico per il raggiungimento dell’età pensionabile prevedono che le Amministrazioni possano recedere dal contratto con i dipendenti che raggiungano i requisiti contributivi (età ed anzianità contributiva) solo «con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi» (art. 72, co. 11, primo periodo, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come riformato dal D.L. n. 90/2014). Ciò significa che il potere della PA di licenziare i dipendenti pensionabili è vincolato a specifici adempimenti procedurali, primo fra tutti quello della motivazione, la quale deve tenere in considerazione le complessive esigenze dell’Amministrazione, nonché la sua struttura e dimensione, salvo il caso in cui l’Ente interessato «abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo» (art. 16, co. 11, D. L. 6 luglio 2011, n. 98).

La PA, dunque, ha due strade per licenziare il dipendente pensionabile: adottare un atto generale che fissi i criteri per la risoluzione o, in assenza di un simile atto, motivare specificamente.

Secondo il recente indirizzo della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (sentenza del 6 giugno 2016, n. 11595), tale obbligo motivazionale è desumibile non solo dal dettato normativo, bensì anche dai principi di buona fede e correttezza (art. 1175 e 1375 cod. civ.), da quello di necessaria rispondenza dell’azione amministrativa al pubblico interesse (art. 5, co. 2, D. Lgs. n. 165/2001) e da quelli di imparzialità e buon andamento della PA (art. 97 Cost.).

Quando un Ente Pubblico licenzia un lavoratore pensionabile senza motivare o, in alternativa, senza dettare i criteri applicativi della risoluzione per anzianità, espone l’atto di recesso alla censura di illegittimità, con conseguente applicazione dell’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (sul regime applicabile, si v. altro articolo del Blog).

La decisione in commento ha definito il caso di due impiegati del Comune di Cologno Monzese, i quali, ricevuto nel 2009 l’atto di recesso per anzianità senza alcuna ulteriore motivazione, avevano adito il Tribunale di Monza per essere reintegrati nel loro posto di lavoro. Il giudice di primo grado, così come poi la Corte d’Appello, aveva deciso per la piena legittimità del recesso intimato dal Comune: ciò perché la versione dell’art. 72, co. 11, D.L. n. 112/2008 in vigore all’epoca dei fatti non faceva alcun riferimento alla necessaria motivazione del recesso. I giudici della Cassazione, però, hanno confermato che l’obbligo motivazionale è insito nei principi che regolano l’azione amministrativa, a prescindere da formali previsioni di legge che lo disciplinino (comunque intervenute con l’art. 1, co. 5, D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 agosto 2014, n. 114).

Pubblico impiego: non basta l’anzianità contributiva per licenziare.
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