Il lavoratore trovato in possesso di documenti riservati lede il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e viola i doveri di fedeltà, correttezza e buona fede.

Kevin Puntillo

“Sebbene l’art. 2105 c.c. richiami espressamente, oltre al divieto di concorrenza, solo il “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa” o il “farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”, la non ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie delineate dal legislatore non è sufficiente a fare escludere la violazione dell’obbligo di fedeltà, atteso che il contenuto di detto obbligo è più ampio rispetto a quello risultante dal testo del richiamato art. 2105 c.c., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede” (Cass. 9 gennaio 2015, n. 144).

Lo ha affermato la Corte di Cassazione (13 febbraio 2017, n. 3739) stabilendo che dai suddetti principi si evince che il prestatore “deve astenersi dal compiere non solo gli atti espressamente vietati ma anche quelli che, per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultano in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella compagine aziendale, ivi compresa la ‘mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno’” (v. Cass. 1° febbraio 2008, n. 2474).

Ciò comporta che l’impossessamento di documenti aziendali di natura riservata implica violazione del dovere di fedeltà anche nella ipotesi in cui la divulgazione non avvenga, perché impedita dall’immediato intervento del datore di lavoro.

Nella fattispecie, il lavoratore aveva sottratto, per destinarli ad altro imprenditore, documenti di natura riservata che la società non aveva mai posto a sua disposizione, in quanto attinenti ad ambiti produttivi e commerciali che esulavano dalle sue funzioni.

Violazione del dovere di fedeltà
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