La lavoratrice madre può essere legittimamente licenziata per colpa grave.
Nota a Cass. 26 gennaio 2017, n. 2004.
Donatella Casamassa
Non è sufficiente, per rendere legittimo il licenziamento della lavoratrice madre, intimare il recesso per assenza ingiustificata, sul presupposto che la disciplina collettiva applicabile al caso di specie prevede l’ingiustificata e ininterrotta assenza da lavoro come causa di licenziamento per giusta causa.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione (26 gennaio 2017, n. 2004), cassando sia la decisione del Tribunale che quella della Corte di appello di Roma (12 giugno 2015, n. 5066), le quali avevano dichiarato legittimo il licenziamento della lavoratrice sul presupposto che l’assenza ingiustificata era prevista dal ccnl tra le cause di licenziamento per giusta causa. Il ccnl (art. 54 ccnl par. VI, lett. l) Poste italiane 14 aprile 2011), infatti, sanziona con il licenziamento per giusta causa “l’assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni lavorativi consecutivi”. Secondo i giudici, la condotta della dipendente, che aveva subito un trasferimento e non si era neppure presentata al momento del ripristino del rapporto di lavoro, anche solo per fare presenti le proprie esigenze, integrava la fattispecie della colpa grave.
La lavoratrice, lamentando la nullità per violazione della normativa a tutela della maternità (D. Lgs. n. 151/2001) che, all’art. 54, prevede espressamente il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, salvo che non ricorra la colpa grave della stessa, ha presentato ricorso in Cassazione, affermando che i giudici si erano limitati a verificare la sussistenza di una ipotesi prevista dal contratto collettivo, senza invece procedere, come previsto dal decreto a tutela della maternità, ad una «verifica della colpa».
La Corte, richiamando sia Corte Cost. n. 61/1999 che un proprio precedente (n.19912/2011), ha accolto le censure della lavoratrice, statuendo che la colpa grave della lavoratrice non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva. È, invece, necessario verificare, “con adeguato rigore valutativo”, se ricorra quella colpa specificamente prevista dall’articolo 54 del D. Lgs. n. 151/2001 “e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento del lavoratore, sanzionati con la risoluzione del rapporto”. Sicché, al fine di stabilire la sussistenza della colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro della lavoratrice madre, l’ambito di indagine (rimesso al giudice di merito) “deve estendersi a un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi componenti. Tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine è conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie in esame e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto, è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo nella sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo)”.
Come noto, la legge prevede, in via generale, il divieto di licenziamento della lavoratrice madre e, in alcuni casi, del padre lavoratore (art. 54, D.Lgs. n. 151/2001). In particolare, è vietato: a) il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di 1 anno di età del bambino; b) il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore (art. 54, co. 6, D.Lgs. n. 151/2001); c) il licenziamento del padre in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso (art. 54, co. 7, D.Lgs. n. 151/2001), nonché in ogni caso fino al compimento di 1 anno di età del bambino.
I licenziamenti intimati in violazione del divieto di licenziamento per maternità/paternità sono nulli a prescindere dalla conoscenza di tale evento da parte del datore di lavoro al momento del recesso, e la lavoratrice licenziata nel corso del periodo in cui opera la tutela legale ha diritto al ripristino del rapporto di lavoro e alle relative retribuzioni, mediante presentazione al datore di lavoro di idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano (art. 54, co. 2, D.Lgs. n. 151/2001). Tale certificazione può essere presentata immediatamente al momento del licenziamento o anche in un momento successivo. In mancanza di richiesta di ripristino del rapporto, il licenziamento nullo comporta il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni successive alla data di cessazione del rapporto, in quanto lo stesso si deve ritenere come mai interrotto.
Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre e del padre lavoratore non si applica nei seguenti casi: 1. colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro (art. 54, co. 3, lett. a), D.Lgs. n. 151/2001). Per quanto concerne la nozione di “colpa grave”, non si tratta, come visto, di fatti rientranti nella fattispecie di cui all’art. 2119 c. c. in quanto la “colpa grave” è un concetto più pesante della colpa, risultando di una gravità tale da rasentare il dolo. Si tratterebbe più correttamente di una “colpa qualificata” dal particolare stato in cui si trova la lavoratrice e comprende situazioni ben più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal codice e dalla contrattazione collettiva quale giusta causa di licenziamento (v. App. Potenza 11 dicembre 2014, in LG, 2015, 528); 2. cessazione dell’attività dell’azienda (art. 54, co. 3, lett. b), D.Lgs. n. 151/2001); 3. ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine (art. 54, co. 3, lett. c), D.Lgs. n. 151/2001); 4. esito negativo della prova (art. 54, co. 3, lett. d), D.Lgs. n. 151/2001).