È colpevole il datore inerte che non rimuove i fatti lesivi o le condizioni ambientali idonei a determinarli.

Nota a Cass. 4 gennaio 2017, n. 74

Kevin Puntillo

“Il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate, che designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione (4 gennaio 2017, n. 64), nell’accogliere le doglianze di un dipendente che aveva prestato attività lavorativa come educatore professionale e che asseriva di essere stato vittima di mobbing a far data dall’assunzione e sino al licenziamento, intimatogli per superamento del periodo di comporto, determinato dall’insorta sindrome depressiva.

Nella fattispecie, la Corte (in conformità con quanto stabilito dai giudici di merito) ha affermato la responsabilità del datore di lavoro per il danno alla persona subìto dal ricorrente e ritenuta sussistente la condotta di mobbing a suo danno, nonché il nesso di causalità tra la stessa e la malattia da lui lamentata, accertata dalla perizia di primo grado che aveva concluso per l’esistenza di “una reazione stressogena importante con conseguente insorgenza di disturbi psichici”.

Sono poi risultati fondati tutti gli elementi utili ad individuare la fattispecie in questione e quindi: la serie di condotte di carattere persecutorio – illecite o anche lecite se considerati singolarmente – che, “con intento vessatorio, vengano poste in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.

I giudici di legittimità, hanno anche ribadito che la responsabilità del datore per il fenomeno mobizzante può avvenire anche attraverso i c.d. “side mobbers”. In altre parole, “pure il comportamento vessatorio di colleghi di lavoro può integrare una condotta di mobbing datoriale, ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che lo rendono possibile o le abbia addirittura determinate, considerato che anche l’aspetto umano fa parte dell’ ambiente di lavoro nell’ambito del quale opera il dovere di protezione previsto dall’art. 2087 c.c., e che l’ascrivibilità al datore di lavoro dell’organizzazione dell’impresa anche sotto il profilo del personale ne determina la fonte autonoma di responsabilità costituita dall’art. 2049 c.c.”.

In tema di mobbing, v., in questo Blog, anche K. PUNTILLO, Rifiuto di concedere le ferie e mobbing, nota a Cass. 3 febbraio 2016, n. 2126; F. ALBINIANO, Lo “straining” quale forma di mobbing attenuato, nota a Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; ID., Criteri identificativi delle condotte mobbizzanti, nota a Trib. Ascoli Piceno, sez. lav., 4 marzo 2016.

Vessazioni tra colleghi e mobbing datoriale.
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